Lo sviluppo costante e, per certi versi sorprendente, della Cina ha, di fatto, attirato sempre più l’interesse del mondo economico e non. Tuttavia, troppo spesso l’approccio alla realtà cinese appare viziato da stereotipi che associano la Cina unicamente alla produzione di massa di beni di consumo. Con riferimento all’analisi delle diverse politiche di esportazione e di attrazione degli investimenti diretti esteri (IDE) appare evidente come la classe dirigente cinese abbia adottato, sin dagli inizi della propria politica d’internazionalizzazione, un approccio lungimirante volto, nel tempo, ad assicurare uno sviluppo non solo sostenuto ma anche e soprattutto sostenibile.
In particolare tale approccio di pianificazione risulta chiaro alla luce delle politiche per attrarre gli IDE. Per comprendere appieno l’evoluzione economica, politica e sociale cinese è indispensabile fare un passo indietro nel tempo, più precisamente al 1978, quando, a seguito di profondi cambiamenti interni ed esterni alla Cina, il gigante asiatico ha abbandonato la propria politica di chiusura economica, intraprendendo un processo d’internazionalizzazione che ha avuto profonde ripercussioni non solo sull’economia nazionale ma anche su quella globale: dal 1980 al 2012 il PIL cinese ha difatti registrato un incremento medio annuo del 13 per cento.
Nel 1979 vennero introdotte le cosiddette Special Economic Zone (SEC), ovvero specifiche aree (tra le più note abbiamo Shenzen, Guangdong, Guangzhou), in cui le aziende che ricevevano investimenti esteri godevano di particolari vantaggi fiscali. Nonostante il successo di queste aree, le autorità cinesi, preoccupate di poter attrarre investimenti in settori a bassa intensità tecnologica, introdussero, nel 1985, le Economic and Trade Development Zone (ETDZ) con il preciso intento di attrarre investimenti nei settori dell’elettronica di consumo e nell’informatica.
In seguito nel 1995 furono istituite le High Technology Developed Zone (HTDZ) con l’intento di sviluppare ed incrementare le attività di ricerca e sviluppo cinesi attraverso gli investimenti esteri. La principale caratteristica di queste HTDZs è rappresentata dal sistema di sviluppo “tre in uno”, ognuna di queste zone, infatti, comprende un centro di ricerca universitario, un centro d’innovazione per utilizzare l’innovazione tecnologica ed un’impresa commerciale per produrre e vendere i beni prodotti.
Proprio a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, possiamo riconoscere una seconda fase della svolta economica e politica cinese, fase volta alla concretizzazione dei primi passi per un’evoluzione strutturale che consentisse di superare il modello di sviluppo della “fabbrica globale”, al fine di riposizionarsi su un sistema il cui vantaggio competitivo non fosse più basato esclusivamente sul costo.
All’interno del processo evolutivo dell’innovazione cinese riconosciamo, ancora, un percorso e un approccio di lungo periodo caratterizzato da cambiamenti graduali. Individuiamo anzitutto una prima fase, di partenza, caratterizzata da un profondo gap tra l’innovazione made in China ed estera (in particolare di Stati Uniti e Giappone), con conseguente importazione d’innovazione e, dunque, dipendenza dall’estero. Qui i maggiori sforzi delle autorità cinesi, locali e nazionali, sono stati indirizzati principalmente alla creazione di un sistema nazionale d’innovazione ovvero di quell’infrastruttura costituita, principalmente, da aziende, università e centri di ricerca il cui fine è implementare e ottimizzare tutta l’innovazione che entra nel Paese. L’evoluzione e il progressivo sviluppo di questo sistema hanno consentito alla Cina di mutare nel tempo la propria posizione su scala globale; da imitatore, la Cina somiglia sempre di più a un leader indiscusso dell’innovazione globale.
Osservando i più generali indicatori riguardanti l’innovazione risulta evidente il deciso e decisivo passo avanti della Cina; a titolo esplicativo consideriamo il numero degli occupati in ricerca e sviluppo, che dalle 670 mila unità del 1991 sono passati ai 3.2 milioni del 2012.
Questa analisi generale viene confermata anche dall’andamento della GERD (Gross Expenditure on Research and Development), cioè l’ammontare totale delle spese in ricerca e sviluppo un dato paese.
Secondo fonti OCSE, la spesa in ricerca e sviluppo cinese è passata da 7.5 miliardi di dollari nel 1991 a 243 miliardi di dollari nel 2012, registrando una crescita esponenziale e un incremento medio annuo del 18 per cento, come dimostra la figura sotto.
La crescita della GERD cinese risulta ancora più marcata se confrontata con quella degli altri paesi.
Nello stesso arco temporale considerato precedentemente, Stati Uniti, Giappone e Germania hanno realizzato incrementi medi annui rispettivamente del 5, 3.7 e 4.5 per cento, tutti ben lontani da quello della Cina, pur essendo questi ultimi storicamente considerati dei leader nell’innovazione.
Anche qui i rispettivi andamenti appaiono più chiari con un supporto grafico.
Spostiamo ancor più nel dettaglio la nostra indagine focalizzandoci su una parte delle spese totali in ricerca e sviluppo legata alle imprese. Tale dato ci viene fornito dalla BERD (Business expenditure on Research and Development) che esprime in percentuale delle spese totali, ovvero di GERD.
Analizzando questo dato possiamo notare anzitutto come il peso delle aziende nelle spese in ricerca e sviluppo sia notevolmente aumentato, passando da un 40 per cento delle spese totali nel 1991 ad un 76 per cento nel 2012 e, secondariamente, noteremo la controtendenza della Cina rispetto ad alcuni suoi competitors in cui la quota di BERD si è mantenuta pressoché stabile negli anni salvo ridursi in alcuni casi.
L’aumento del peso del BERD su GERD dimostra la maggiore propensione delle imprese a spendere, dunque ad investire, in ricerca e sviluppo e ciò è principalmente spiegabile dalla domanda delle imprese di innovazione, indispensabile in un contesto di forte concorrenza (uno dei principali effetti dell’adesione della Cina al WTO nel 2001).
L’evoluzione dell’innovazione cinese si riflette nell’evoluzione dell’industria e del sistema produttivo cinese: analizziamo il settore high-tech cinese in relazione con il resto del mondo prendendo in considerazione l’evoluzione del conto corrente high-tech cinese rappresentato dalla figura sotto.
In linea con la nostra analisi sul percorso evolutivo dell’innovazione cinese notiamo come dal 1995 al 2005, tale conto corrente abbia registrato un disavanzo, dovuto al gap innovativo cinese e al conseguente bisogno di importare innovazione (qui sotto forma di beni high-tech), mentre dal 2005 in poi si siano verificati sempre più consistenti avanzi, dimostrando come la Cina si sia mossa dall’iniziale posizione d’inseguitrice a quella di leader, capace di creare innovazione endogena da esportare poi nel resto del mondo.
Continuiamo l’analisi dell’evoluzione cinese osservando il cambiamento nella produzione industriale: la Cina si sta sempre più spostando dalla produzione di beni di consumo (a basso valore aggiunto in cui la variabile chiave è la riduzione dei costi) a beni strumentali ad alto valore aggiunto. E’ proprio in questa categoria che risiede la maggior componente high-tech della produzione, in quanto il vantaggio competitivo in questo segmento è basato sulla qualità piuttosto che sul prezzo.
Anche qui notiamo il sorprendente balzo in avanti della Cina che è passata da una quota globale nella produzione di beni strumentali dello 0.47 per cento nel 1987, ad una quota superiore il 14 per cento nel 2012.
Mettendo in relazione questi dati con l’andamento di paesi che sono storicamente considerati leader nella tecnologia, noteremo come la progressiva crescita di quota cinese sia avvenuta proprio a discapito di questi leader storici.
Ciò che emerge dall’analisi è la dinamica strutturale dell’economia cinese: dall’esclusiva produzione di beni di consumo alla produzione specializzata in beni strumentali. Tutto ciò è stato possibile grazie ad un’attenta e soprattutto lungimirante pianificazione che si è focalizzata sull’innovazione e lo sviluppo.
*Università degli studi di Bergamo