Crisi, crescita, occupazione. E’ il trinomio che va per la maggiore nell’analisi della “situazione reale” oggigiorno. C’è da chiedersi, però: qual è l’effettiva relazione tra i tre termini? Viene prima la crescita e poi, di conseguenza, l’occupazione oppure è la stessa occupazione che può innescare processi di crescita? Ancora: c’è sempre una correlazione funzionale tra crescita ed occupazione oppure si può avere crescita senza occupazione? Domande non retoriche, che rimandano alla speciale situazione che ha generato la grande crisi in cui ancora siamo immersi ed a questa nuova fase del capitalismo nei paesi cosiddetti avanzati.
Se ci riferiamo, nello specifico, ai paesi Ue o, per ragioni di ulteriore omogeneità fiscale, a quelli dell’Eurozona, non c’è dubbio che diverse politiche pubbliche, espansive, avrebbero potuto, già nel breve periodo, favorire un incremento apprezzabile della ricchezza nazionale, quindi anche dell’occupazione. Ipotesi non scontata, tuttavia, soprattutto se ci si riferisce al recupero dei posti di lavoro persi negli ultimi anni[1] (jobless recovery). Ci sono fattori, come l’innovazione tecnologica, l’aumento della produttività del lavoro, le delocalizzazioni produttive, cambiamenti nella struttura produttiva di un paese indotti dalla stessa crisi, disallineamenti tra domanda ed offerta di lavoro, che, da questo punto di vista, potrebbero agire da freno ad una ripresa occupazionale anche in presenza di una crescita dell’economia.
Nel caso europeo è ormai conclamato, in ogni caso, che a frustrare il mercato del lavoro, anche nei paesi dove ci sono stati segnali di ripresa dell’economia, è stato soprattutto il crollo della domanda aggregata per effetto delle politiche di austerità. La controprova è data dal caso americano. Com’è noto gli Usa hanno reagito alla crisi con misure di stimolo all’economia (quantitative easing) che, ad oggi, hanno rivelato una certa efficacia: Pil in crescita e tasso di disoccupazione (a settembre sotto il 6%) a livelli pre-crisi (10 milioni di nuovi occupati in 5 anni). Dati che, al di là della qualità dei nuovi posti di lavoro creati, danno l’idea di come politiche monetarie espansive, investimenti pubblici in settori chiave (ARRA, American Recovery and Reinvestment Act), un’oculata gestione del credito, possano rivelarsi molto efficaci nel contrastare il ciclo economico negativo.
L’Europa potrebbe emulare, seppur tardivamente, gli Stati Uniti? No, almeno nelle condizioni date. Non potrebbe farlo perché l’Europa non è uno stato sovrano, con una banca centrale che, come la Fed, ha nella sua mission il perseguimento della piena occupazione mediante la conduzione della politica monetaria.
Affrontare in termini europei il tema della disoccupazione presenta poi un altro inconveniente: la disomogeneità del dato relativo, paese per paese. Si va dal 4,8% dell’Austria al 26,4% della Grecia (Germania al 4,9%)[2]. E’ evidente che da parte dei vari partner non potrà esserci la stessa “sensibilità” per il problema. D’altro canto l’Europa è l’Europa degli stati che la compongono, non un’entità politica, men che meno uno stato federale (utopia?).
Eppure in alcuni paesi, tra cui l’Italia, quello della disoccupazione è ormai una piaga sociale di dimensioni insopportabili. Da noi, com’è noto, il tasso di disoccupazione è vicino al 13% (giovanile oltre il 44%)[3], un esercito di oltre 6 milioni di persone. Al sud siamo ai livelli di Spagna e Grecia: 21,7% nel primo trimestre del 2014 (giovanile al 60,4%). Se guardiamo al tasso di partecipazione alla forza lavoro (Forza lavoro/ Popolazione attiva), l’Italia, con il 49%, si colloca agli ultimi posti nella classifica mondiale dei paesi più avanzati[4]. In breve: nel “bel paese” una quota significativa della popolazione ha rinunciato del tutto a ricercare un posto di lavoro regolare.
Questi dati, letti in relazione all’andamento dell’economia ed alle stime future sul Pil (il paese e ritornato in recessione; per il 2014 si prevede un calo del Pil dello 0,3%, mentre per il 2015 è atteso un misero +0,6%[5]), ci dicono che per i prossimi anni una ripresa occupazionale, e il recupero dei posti di lavoro persi dall’inizio della crisi (rispetto al 2007 nel nostro Paese la percentuale dei senza lavoro è più che raddoppiata), non potranno verificarsi, automaticamente, per effetto di una crescita che, quantunque ci fosse, sarebbe, come lo stesso governo ammette, nell’ordine dello zero virgola. Anche dando per scontata, in linea teorica, una consecutio tra crescita ed occupazione, se ne deduce, pertanto, che tale circostanza non potrebbe verificarsi nel breve periodo per l’assenza o l’insufficienza di uno dei due termini.
Che fare, allora? Certamente non quello che ha in mente il governo in carica: ancora flessibilità nel mercato del lavoro e riduzione di tasse per le imprese (del bonus degli 80 euro è inutile parlare, vista l’asimmetria tra costi e ricadute). Come se il poter licenziare più liberamente ovvero il pagare meno tasse potessero compensare il crollo della domanda interna che si è registrato in questi anni. Eppure non è difficile capire che il lavoro dipende dal fatturato delle imprese: se nessuno compra per chi si produce? Perché investire ed assumere?
Due potrebbero essere le strade, dunque: aumento della spesa pubblica per investimenti o creazione diretta di lavoro da parte dello stato. In entrambi i casi si agirebbe dal lato della domanda, con la differenza che nel secondo caso sarebbe proprio il reddito da lavoro a sostenerla, innescando, di conseguenza, un processo di crescita dell’economia. Beninteso, le due opzioni potrebbero camminare di pari passo, ma non c’è dubbio che per il tempo perso in questi anni, per l’ampiezza del fenomeno disoccupazione e per le condizioni generali della nostra economia (deflazione, recessione) alla seconda andrebbe data, a questo punto, la prevalenza.
E la risorse? Anche qui le strade sono due: spesa in deficit, anche con sforamento del tetto del 3%, e utilizzo mirato dei fondi europei. Proprio la nuova programmazione dei fondi strutturali per il sessennio 2014-2020 potrebbe costituire l’occasione per canalizzare considerevoli risorse comunitarie verso l’obiettivo della creazione diretta di nuovi posti di lavoro. D’altro canto la «promozione di un’occupazione sostenibile e di qualità» e «la lotta alla povertà ed alla discriminazione» costituiscono gli obiettivi prioritari della nuova politica europea di coesione[6]. L’ammontare delle risorse finanziarie destinate ai 28 Stati membri per il periodo di riferimento è pari a 325 miliardi di euro, tra Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), Fondo sociale europeo (FSE) Fondo di coesione (FC) ed altri strumenti per iniziative a favore dell’occupazione giovanile. All’Italia spettano circa 30 miliardi di Euro, ai quali si aggiungono 24 miliardi che il governo ha messo nella legge di stabilità per la quota di cofinanziamento nazionale dei fondi strutturali e 54 miliardi che vanno a costituire la dotazione Fondo per lo Sviluppo e la Coesione (exFondo per le aree sottoutilizzate, FAS). Si tratta di risorse ragguardevoli, che, al netto della quota da destinare necessariamente ad interventi infrastrutturali, alla ricerca ed alla formazione, potrebbero essere concentrate in un grande piano decentrato (su base regionale, ma con una cabina di regia nazionale) per il reclutamento diretto di almeno un milione di persone, nel settore ambientale e del riassetto del territorio, in quello dei beni culturali e dell’assistenza alla persona.
Un’operazione che farebbe ripartire i consumi e l’economia, inducendo di nuovo le imprese ad assumere (effetto moltiplicatore). Al punto in cui siamo, l’unica operazione che potrebbe dare risultati in tempi brevi e dare una scossa al paese.