Se volessimo suddividere per fasi[i] la storia del liberalismo economico, il 1938 è sicuramente un anno che sembra fare da spartiacque tra prima e dopo. Perché è in quell’anno che si svolge a Parigi il Convegno (o Colloquio) Lippmann, dal nome dell’americano Walter Lippmann, liberale e autore del celebre L’opinione pubblica e di La giusta società. Convegno che voleva gettare le basi per la nascita del neoliberalismo (o per la rifondazione del liberalismo), facendo incontrare – pur nelle loro differenze e conflitti – il modello neoliberista austro-statunitense (da von Hayek a von Mises a Milton Friedman e la Scuola di Chicago) e quello ordoliberale prima tedesco (da Röpke a von Rüstow, da Erhard a Eucken e altri) e poi europeo (da Einaudi a Monti e Draghi, ai Trattati Ue).
Tuttavia, ciò che chiamiamo neoliberalismo è in realtà sia un’evoluzione (o meglio: una involuzione) del primo liberalismo, sia (e soprattutto) un suo potenziamento finalizzato alla conquista dell’egemonia politica e antropologica (oltre che del dominio). Pianificata mediante la costruzione di un uomo nuovo neoliberale e capitalista, il neoliberalismo così spingendosi – secondo Massimo De Carolis – “a immaginare un meccanismo di civilizzazione davvero alternativo a quello di Hobbes, che non si concepisse più come una negazione dello stato di natura [la guerra di tutti contro tutti, superata con il contratto sociale] ma, all’opposto come un suo progressivo governo dall’interno”[ii], cioè contrattualizzando socialmente questo stato di natura necessario alla competizione economica. Così facendo il neoliberalismo però nega di nuovo la libertà dell’individuo e lo assoggetta, ma in nome della libertà – come scrive Byung-Chul Han[iii] – alle norme e alle forme di organizzazione e di funzionamento del mercato. Perché, come ha evidenziato Michel Foucault in Sorvegliare e punire, già il XVIII secolo ha inventato la libertà ma anche la società disciplinare – che serviva al capitalismo per organizzare il lavoro e creare l’uomo nuovo adatto alla rivoluzione industriale.
In realtà, quindi, è fin dai suoi inizi che il liberalismo produce la grande narrazione capitalistica e l’economia politica necessarie a far coincidere l’interesse del capitalista e dell’industria con quello dell’intera società. Si pensi alla critica di Karl Marx[iv]: l’economia politica non dà nulla al lavoro e tutto alla proprietà privata; ad Auguste Comte, che nel 1817 scriveva: società, società industriale e industria sono sinonimi; a Max Weber per il quale lo spirito del capitalismo avrebbe ascendenze calviniste e il lavoro e l’intraprendere diventano Beruf, vocazione, cioè forma di vita. Premessa necessaria – questa del primo liberalismo – per portare poi i neoliberali novecenteschi e post-novecenteschi a realizzare la completa e condivisa (questo è l’egemonia) fusione tra capitalismo e società, tra mercato e vita umana e sociale. Smontando – prima culturalmente e poi politicamente, dagli anni ’80 – ogni diverso tentativo, pure liberale (il New Deal, Keynes, Beveridge, il welfare state) di politica economica e sociale. Detto altrimenti, il neoliberalismo è la deliberata costruzione della sovrastruttura sociale/antropologica, oltre che politica e giuridica per far accettare il mercato e la competizione come modalità di vita normale, normante e normalizzata, alla quale non ci sono alternative. Per cui non è solo (come per Marx) il modo di produzione della vita materiale [che] condiziona il processo generale di vita sociale, politica ed intellettuale, ma è il processo neoliberale di costruzione della vita individuale, sociale, politica e intellettuale in nome del mercato a favorire il modo di produzione capitalistico. In realtà Engels aveva già poi riconosciuto come fosse mancato “il tempo e l’occasione di mettere nel giusto risalto gli altri momenti partecipi dell’azione reciproca” e in particolare la possibilità che la sovrastruttura, comunque determinata dalla struttura, potesse essa stessa agire su quest’ultima e produrla/modificarla. Il liberalismo e poi il neoliberalismo hanno appunto creato – sempre più e meglio – la sovrastruttura necessaria alla socializzazione della struttura economica, adattando la società e gli individui alle sue necessità. Struttura economica e sovrastruttura antropologica sono oggi una superstruttura integrata e autoreferenziale[v].
Se Marx pensava che il capitalismo (la borghesia) avrebbe alla fine generato la classe antagonista che ne avrebbe determinato la fine, ebbene come ormai sappiamo, si è avverato esattamente il contrario; e il neoliberalismo/capitalismo – nonostante le ricorrenti previsioni su una sua fine/declino imminente – sta benissimo: continua a riprodursi trasformandosi (è la sua dynamis) e a sfruttare non solo il lavoro ma appunto la vita intera dell’uomo, estraendone valore crescente; accumula ricchezza finanziaria per pochi; ed è capace di ben nascondere l’alienazione che sempre ricrea grazie alle maschere di libertà e di autonomia che fa indossare a ciascuno[vi], alla industrializzazione del godimento e a uno spettacolare integrato a produttività crescente (è l’industria culturale[vii], oggi 2.0). Il neoliberalismo, come il liberalismo, continua cioè a valorizzare il mondo delle cose e degli uomini ridotti a cose e oggi a numeri/dati/profili e a svalorizzare il mondo degli uomini (Marx). Ma lo fa illudendo l’individuo di poter così valorizzare creativamente la sua vita e libertà[viii].
Ma torniamo al 1938. Per Walter Lippmann il liberalismo “è l’unica filosofia che possa condurre all’adeguamento della società umana alla mutazione industriale e commerciale fondata sulla divisione del lavoro”[ix], che a sua volta è un dato storico che non può essere modificato. Quindi: “il liberalismo è la filosofia della rivoluzione industriale” e suo compito è modificare l’uomo, adattandolo alle esigenze della produzione e del capitalismo, divenendo “un nuovo sistema di vita per l’intera umanità”, accompagnando “la rivoluzione industriale in tutte le fasi del suo sviluppo; e poiché questo sviluppo è infinito, il nuovo ordine non sarà mai in nessun modo perfettamente realizzato e concluso”. Conseguentemente, per i neoliberali i problemi delle società moderne sorgono solo “quando l’ordinamento sociale si sfasa e si disarmonizza rispetto alle esigenze della divisione del lavoro”, per cui l’ambiente sociale e il sistema capitalistico devono tendere a formare un tutto armonico. Da qui la sua azione biopolitica – ancora Foucault[x] – affinché la vita sia sempre più funzionale (e non sfasata) rispetto alle esigenze del sistema. L’individuo liberale diviene cioè oggetto di una continua costruzione eteronoma di sé (altrimenti definibile come human engineering): dal fordismo alla rete, dall’organizzazione scientifica del lavoro alle retoriche sull’auto-imprenditorialità di oggi.
E dunque, il neoliberalismo nelle sue due declinazioni: neoliberista e ordoliberale. Due ideologie per la costruzione di un uomo che deve sapersi adattare flessibilmente (piegandosi, senza mai spezzarsi e a produttività crescente), a un mondo dominato dalla schumpeteriana distruzione creatrice, dallo squilibrio[xi], dalla dinamizzazione incessante dell’ordine sociale[xii] e oggi dalla disruption[xiii]. Vediamone la versione ordoliberale, meno conosciuta del neoliberismo e che, diversamente da quest’ultimo (che chiede allo stato di farsi minimo), chiede allo stato di essere soggetto attivo dell’economia. Ma non governando il mercato in vista di una utilità sociale, bensì trasformando la società in mercato, ciascuno in imprenditore/competitore, lo stato in impresa – perché il mercato sarebbe già in sé socialmente utile ed efficiente.
L’ordoliberalismo nasce negli anni ’30 del ‘900 (per dilagare in Europa dopo il 1945), attorno al concetto di ordine: inteso sia come ordine di mercato, sia come regola del gioco capitalista. Lo stato deve cioè garantire la concorrenza e ristabilirla se compromessa, ma deve soprattutto creare – cioè promuovere – un ambiente/contesto favorevole al funzionamento del mercato, a sua volta diffondendolo pedagogicamente. E sapendo che il capitalismo de-socializza per sua essenza, ecco che occorre anche – per mascherarne gli effetti negativi – rafforzare il ruolo della famiglia e dei piccoli paesi/comunità, favorire l’integrazione del singolo in quartieri con vincoli di vicinato, consolidare il senso di appartenenza e di responsabilità verso gli altri.
Una frase di Ludwig Erhard riassume ciò che per gli ordoliberali doveva essere lo stato: Così come l’arbitro non partecipa al gioco, lo stato è fuori dall’arena. In ogni buona partita di calcio c’è una costante: sono le regole precise che hanno presieduto a questo gioco. La mia politica liberale mira proprio a creare le regole del gioco – dimenticando che se l’arbitro (lo stato) produce o comunque promuove regole favorevoli solo a uno dei giocatori (il mercato), le regole non sono imparziali, ma di parte. Come l’arbitro. Scriveva a sua volta Wilhelm Röpke: Questo ordine economico deve integrarsi negli altri, più ampi e più alti ordini, da cui dipende il successo dell’economia di mercato e che a loro volta lo presuppongono – trascurando a sua volta il fatto che se l’ordine del mercato deve integrarsi negli altri ordini (che a loro volta lo presuppongono) – è inevitabile che si produca la sovrapposizione e l’integrazione del primo sugli e negli altri ordini. Ovvero, ciò che propone Röpke è analogo a chi chiede che un ordine religioso o un ordine ideologico-politico (come nei totalitarismi del ‘900) si integri nella legge civile.
Hanno scritto ancora Dardot e Laval: “Il programma di Röpke comprende diversi percorsi: de-centralizzazione, de-proletarizzazione, de-urbanizzazione. (…) Ogni individuo deve essere inserito professionalmente in un quadro lavorativo che garantisca indipendenza e dignità. E ciascuno deve funzionare come una piccola impresa. La politica della società ordoliberale deve colmare il fossato tra il proletariato e la società borghese (…), trasformando i proletari in proprietari, risparmiatori, imprenditori indipendenti. Un modello non universale, ma universalmente accessibile”. Oggi pienamente realizzato. Ma quale impresa? Nell’impresa, scriveva Röpke nel 1963, la democrazia è fuori luogo, come in una sala operatoria[xiv]: principio palesemente falso (un’impresa non è una sala operatoria), ma ben funzionale al capitalismo – e tenere fuori dall’impresa la democrazia e il sindacato è una vecchia strategia liberale e imprenditoriale, da Ford a Taylor al modello Toyota e oggi alla rete e al capitalismo delle piattaforme e alla Rete come Fabbrica. L’obiettivo degli ordoliberali non era infatti quello di democratizzare il capitalismo, bensì di farlo appunto diventare un modo di vivere e di essere – e non solo di fare. Scriveva Erhard: la libertà di consumo e la libertà dell’attività economica devono essere ‘sentite’, nella coscienza dei cittadini, come diritti fondamentali intangibili.
Ma se l’ordoliberalismo – nei suoi effetti sociali e antropologici – è ciò che è stato qui sinteticamente descritto, allora anche la rete (la tecnica) è appunto e pienamente ordoliberale (e comunque neoliberale). Perché ordoliberalismo 2.0[xv] sono le retoriche sull’auto-imprenditorialità via rete; è il capitalismo di piattaforma che illude ciascuno di essere lavoratore autonomo/piccola impresa; è la trasformazione di ognuno in micro-capitalista in ogni atto che compie (di lavoro, di consumo, di gamification); è nel principio della concorrenza-competizione che pervade la rete; è nei social, nelle community e nelle retoriche del condividere che riproducono le comunità organiche ordoliberali. Ed è ordoliberalismo 2.0 perché la tecnologia capitalistica di rete è l’ordine che si è ormai anch’esso integrato nella vita individuale, sociale e politica nonché in tutti gli ordini dello stato (che lo presuppongono), divenendo forma di vita e immaginario collettivo (ancora: struttura e sovrastruttura insieme), regola del gioco e arbitro (di parte).
Di più: dopo l’ordoliberalismo classico e accanto all’ordoliberalismo 2.0, ecco nascere un ordopopulismo o un neoliberalismo populista[xvi] – dove l’ordine del mercato si integra al populismo politico, oggi soprattutto digitale[xvii]. Espresso ieri nella Padania di Bossi e oggi nel sovranismo e nel protezionismo comunitaristico (le nuove comunità organiche) offerti da Marine Le Pen, da Orban, dalla Lega e dall’America first di Trump; nei falsi free lance e nei falsi imprenditori di se stessi che si identificano nel M5S; nel richiamo conservatore alla famiglia tradizionale. Ma che si esprime soprattutto nell’adeguamento (ancora) della società alle esigenze del capitalismo, coniugando (magari contraddittoriamente e confusamente, come in tutti i populismi, ma comunque funzionalmente alla socializzazione del mercato) l’ordoliberalismo delle piccole imprese e l’anarcocapitalismo dei micro-capitalisti di rete, con l’opposizione all’ordoliberalismo dell’Unione europea. Per cui, ecco che ad esempio nel Contratto Lega-M5S si parla di una “formazione (…) che investa sui settori del futuro al fine di adeguare il lavoro ai cambiamenti tecnologici”; creando “le figure idonee alle competenze richieste dalla quarta rivoluzione industriale”; sviluppando il meccanismo della competizione diffusa; con “i centri del sapere che dovranno contribuire a rendere il sistema produttivo maggiormente competitivo e propenso alla valorizzazione delle attività ad alto valore tecnologico; nonché del capitale umano” (un concetto squisitamente neoliberale). E poi, la flat-tax neoliberista/neoliberale. Ovvero, anche l’ordopopulismo (come l’ordoliberalismo 2.0) è funzionale alla trasformazione della società in mercato. Confermando la tesi per cui il populismo non è mai contro, ma è un’altra via per ottenere – adattandovi altrimenti l’uomo – la modernizzazione tecnica e capitalistica.
P.S.
Compito della sinistra – se esistesse e non fosse anch’essa neoliberale/ordoliberale 2.0 – dovrebbe essere invece quello, come sosteneva Claudio Napoleoni, di ampliare la differenza e la distanza tra capitalismo e società. E oggi, aggiungiamo: tra tecnica/rete e società.
*Lelio Demichelis insegna Sociologia economica al Dipartimento di economia dell’Università degli Studi dell’Insubria. lelio.demichelis@uninsubria.it
[i] P. Dardot – Ch. Laval (2013), La nuova ragione del mondo, DeriveApprodi, Roma, pag. 167.
[ii] M. De Carolis (2017), Il rovescio della libertà, Quodlibet, Macerata, pag. 22.
[iii] B-C. Han (2016), Psicopolitica, Nottetempo, Roma, pag. 11: “Il neoliberalismo è un sistema molto efficace nello sfruttare la libertà, intelligente perfino: viene sfruttato tutto ciò che rientra nelle pratiche e nelle forme espressive della libertà, come l’emozione, il gioco e la comunicazione. Sfruttare qualcuno contro la sua volontà non è efficace (…). Soltanto lo sfruttamento della libertà raggiunge il massimo rendimento”.
[iv] K. Marx (2018), Manoscritti economico-filosofici del 1844, Feltrinelli, Milano, Quaderno 1.
[v] L. Demichelis (2015), La religione tecno-capitalista, Mimesis, Milano, pag. 80.
[vi] Cfr, la Scuola di Francoforte e in particolare: H. Marcuse (2004), L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino; e il primo volume de L’uomo è antiquato (2005), di G. Anders, Bollati Boringhieri, Torino. Inoltre: L. Demichelis (uscita settembre 2018), La grande alienazione, Jaca Book, Milano.
[vii] Cfr., M. Horkheimer – T.W. Adorno (1997), Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, pag. 126 e segg.; G. Debord (2004), La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano.
[viii] Cfr., L. Demichelis (2017), Sociologia della tecnica e del capitalismo, FrancoAngeli, Milano; Id, La grande alienazione, cit.
[ix] In P. Dardot – Ch. Laval, La nuova ragione del mondo, cit., pag. 186.
[x] M. Foucault (2005), Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano; Id, Nascita della biopolitica (2005), Feltrinelli, Milano.
[xi] R. Romano – S. Lucarelli (2017), Squilibrio, Ediesse, Roma.
[xii] M. De Carolis (2017), Il rovescio della libertà, cit., pag. 18.
[xiii] Disruption: “quando una tecnologia di rottura si impone sul mercato, sconvolgendolo totalmente, causando un cortocircuito delle regole che lo reggevano tradizionalmente, anzi ristrutturandolo brutalmente”, in Ippolita (2017), Tecnologie del dominio, Meltemi, Milano, pag. 91.
[xiv] W. Röpke (1974), Scritti liberali, Sansoni, Firenze, pag. 160.
[xv] L. Demichelis (2017), Sociologia della tecnica e del capitalismo, cit., pag. 209 e segg.
[xvi] Cfr., M. Pianta, Lib-pop: il piano gialloverde, in www.sbilanciamoci.info
[xvii] M. Revelli (2017), Populismo 2.0, Einaudi, Torino; A. Dal Lago (2017), Populismo digitale, Cortina, Milano.