L’aumento della disuguaglianza nei redditi disponibili
Nelle scienze sociali, dopo decenni di scarso interesse, lo studio delle disuguaglianze ha guadagnato negli ultimi anni una posizione centrale nelle analisi e nelle ricerche.
Dalla vasta letteratura prodotta emerge chiaramente come, negli ultimi tre decenni, vi sia stato un aumento delle disuguaglianze sociali pressoché in tutti i paesi dell’OCSE (OECD 2011).
Con una certa approssimazione temporale è possibile notare come la disuguaglianza, dalla fine degli anni settanta, sia cresciuta inizialmente nei paesi Anglosassoni (dove ha continuato ad aumentare progressivamente fino ad oggi), per poi interessare in diverso modo, dalla metà degli anni ’80, anche i restanti paesi OCSE.
Questo quadro generale presenta come accennato delle differenze interne all’insieme dei paesi considerati. In tal senso, si è soliti evidenziare come mentre i paesi Nord Europei presentano una relativa minor disuguaglianza, i paesi Anglosassoni fanno registrare una alta, e nel tempo crescente, disuguaglianza. Tra questi due macro gruppi andrebbero collocati i paesi Europei Continentali. L’Italia, insieme agli altri paesi Sud Europei ed il Giappone, registra livelli di disuguaglianza superiori al gruppo Continentale e prossimi a quelli Anglosassoni.
Pur volendo considerare tale suddivisione l’aumento delle disuguaglianze ha riguardato tutti i macrogruppi.
A conferma di quest’ultima osservazione è possibile notare come tra i paesi in cui più è aumentata la disuguaglianza, dalla metà degli anni ’80, vi siano la Finlandia, la Svezia e la Germania, paesi storicamente caratterizzati da una relativa minor disuguaglianza.
Finora ci si è riferiti alla disuguaglianza come evidenziata dal reddito disponibile a seguito dell’intervento pubblico redistributivo attuato attraverso la tassazione ed i trasferimenti pubblici (Indice di Gini).
Le cause principali per l’aumento della disuguaglianza nei redditi disponibili sono da ricercare nei mutamenti avvenuti nella distribuzione del reddito tra lavoro dipendente e capitale, con un sensibile aumento della quota di ricchezza a vantaggio del capitale e a svantaggio del lavoro dipendente, così come nella progressiva minore capacità redistributiva dei sistemi fiscali (principalmente a causa di una riduzione della progressività fiscale) e dei sistemi di politiche sociali presenti nei vari contesti nazionali (OIL 2008; OECD 2011).
Il reddito disponibile prima richiamato è esattamente il risultato della combinazione tra la distribuzione primaria tra lavoro e capitale e la successiva fase di redistribuzione attuata dallo Stato.
La distribuzione primaria del reddito ed il contesto italiano
L’Italia, come visto, è un paese ad alta disuguaglianza sociale. A ciò andrebbe aggiunto che è anche uno dei paesi in cui più bassi sono i salari percepiti dai lavoratori e dalle lavoratrici dipendenti(IRES CGIL 2010) e maggiore è la disuguaglianza nella distribuzione primaria.
Su questo dato è necessario soffermarsi. Per l’Italia, come per qualunque altro contesto nazionale, ciò che pesa maggiormente nella disuguaglianza delle condizioni sociali finali è proprio la distribuzione primaria.
La redistribuzione pubblica seppure riveste una indubbia rilevanza nel modificare la distribuzione primaria, in ogni caso, sulla disuguaglianza finale non può incidere nei termini di una inversione delle tendenze proprie della distribuzione di mercato.
Tale incapacità, come segnalato in diversi autorevoli studi, è facilmente rilevabile proprio dal trend relativo all’aumento della disuguaglianza nell’ultimo trentennio nei paesi a capitalismo avanzato: in presenza di un generale peggioramento nella distribuzione della ricchezza sociale prodotta a sfavore del lavoro dipendente i sistemi di politiche pubbliche e sociali non sono state in grado di invertire il trend stesso (OECD 2011: 12; ILO 2008: 127).
L’Italia fa parte di quei paesi in cui con più intensità si è mostrato il fenomeno in esame: dal 1977, anno in cui più alta è stata la quota del reddito destinata al lavoro, al 2006, i lavoratori e le lavoratrici hanno perso 15,1 punti percentuali rispetto al reddito prodotto. Una caduta della ricchezza destinata al lavoro più intensa di quella italiana si è verificata solo in Irlanda(-23%) ed in Giappone(-18%)(OECD 2008).
Diversi sono i fattori esplicativi di tali dinamiche individuati in letteratura(OIL 2008;Stirati 2006).
Tra gli altri, sicuramente, le riforme del mercato del lavoro, con la massiccia diffusione del lavoro flessibile, si evidenziano per importanza.
La flessibilità come componente nell’aumento delle disuguaglianze primarie e dei redditi disponibili
L’Italia è uno di quei paesi in cui, nell’ultimo decennio, più si è sviluppata la flessibilità occupazionale. A confermarlo vi sono i dati relativi alla percentuale di occupati con tali modalità contrattuali, così come l’evoluzione degli indici di protezione dell’impiego utilizzati dall’OCSE per analizzare i cambiamenti nel mercato del lavoro dei singoli contesti nazionali; ad una riduzione di tali indici corrisponde un aumento della flessibilità occupazionale. L’Italia, in tal senso, è il paese in cui si è avuta la più intensa riduzione dell’indice di protezione per l’impiego a tempo determinato. A seguito della riduzione ora evidenziata l’indice di protezione dell’impiego a tempo determinato italiano risulta essere pienamente in linea con quello degli altri paesi UE. A ciò va aggiunto che oltre ad un indice per il lavoro a tempo determinato l’OCSE utilizza anche un indice di protezione per il lavoro a tempo indeterminato. Il valore di quest’ultimo indice in Italia è particolarmente basso (il più basso dopo quello della Gran Bretagna, dell’Irlanda e della Danimarca) (Cfr. CNEL (2010), Rapporto sul mercato del lavoro 2009/2010: 283). Seguendo le considerazioni ora esposte, la tesi, da più parti sostenuta, di una particolare rigidità del mercato del lavoro italiano sembra essere decisamente da accantonare.
Ma quale rapporto sussiste tra il lavoro flessibile e le dinamiche relative alla distribuzione primaria? Il lavoro flessibile influenza il labour share attraverso due fondamentali vie: da una parte i lavori flessibili sono pagati meno, anche a parità di mansioni svolte, e dall’altra la presenza di una sempre più larga componente della forza lavoro impiegata con tali tipologie contrattuali pone il lavoro dipendente, anche quello non flessibile, in grosse difficoltà nel confronto con il capitale (OIL 2008; Stirati 2008).
Per quanto riguarda l’indebolimento contrattuale occorre tenere presente che se da una parte la flessibilità, com’è facilmente intuibile, accresce, per il tramite del possibile non rinnovo, la ricattabilità di coloro che con tali modalità contrattuali sono impiegati, dall’altra, anche gli occupati con contratti tipici si trovano a confrontarsi con quello che Leon (2008) ha definito un nuovo esercito industriale di riserva. Un esercito non più formato da disoccupati ma, appunto, da precari. In merito alla relazione esistente tra crescita dei salari e flessibilità, come altrove dimostrato (Brancaccio 2009:64), è possibile affermare che ad un aumento della flessibilità, considerata comparativamente a livello internazionale attraverso gli indici di protezione dell’impiego, faccia seguito una minor crescita dei salari in termini reali.
Tenendo presente quanto fin qui evidenziato, pare naturale domandarsi quali motivazioni abbiano spinto a perseguire con tanta determinazione la strada della diffusione della flessibilità occupazionale.
Seguire l’andamento degli ultimi decenni nei tassi di disoccupazione dei paesi a capitalismo avanzato può essere utile in tal senso. Com’è noto, negli anni ’80, in tutti i paesi in questione i tassi di disoccupazione sono cresciuti enormemente, tanto da far parlare del ritorno della disoccupazione di massa dopo il cosiddetto trentennio glorioso (Pugliese 1993). Nel contesto europeo negli anni ’80 e ’90, spesso all’interno di un confronto con gli USA,visti come punto di riferimento di differenti e migliori soluzioni, tra i politici e gli studiosi mainstream si è diffusa la convinzione che l’incapacità di ridurre la disoccupazione fosse correlata alle caratteristiche nella regolazione del mercato del lavoro.
L’applicazione di tale visione al caso italiano ha seguito un preciso schema esplicativo di riferimento.
In sintesi, un’eccessiva rigidità del mercato del lavoro, formalizzata attraverso normative a tutela del lavoro dipendente eccessivamente onerose per i datori di lavoro, frenava lo sviluppo dell’occupazione: nella gestione della forza-lavoro le imprese, sempre più condizionate da mercati globalizzati in continua evoluzione e fortemente competitivi, non potevano essere bloccate da legislazioni rigide e troppo garantiste, che giocoforza rallentavano e ostacolavano scelte organizzativo produttive necessariamente collegate alla continua evoluzione e competizione ora richiamata. Di qui la soluzione: una riduzione delle tutele previste per il lavoro dipendente, così da potere permettere alle imprese di gestire la forza lavoro in tempo reale, seguendo le indicazioni e informazioni provenienti dai mercati e risultando, in tal modo, competitive.
Il mezzo per ridurre le inopportune tutele presenti nella regolazione del mercato del lavoro sarebbe stato la flessibilizzazione, sia nell’utilizzo organizzativo che nell’inquadramento contrattuale, dell’occupazione dipendente.
Sempre secondo tale schema esplicativo, ora sommariamente delineato, la riduzione delle tutele per il lavoro dipendente sarebbe stata controbilanciata da un sicuro aumento dell’occupazione. Come? E’ semplice: essendo la disoccupazione causata dalle eccessive rigidità normative, con l’eliminazione di queste ultime, le imprese, con le loro esigenze produttive, ora liberate da appesantimenti di vario tipo, sarebbero riuscite ad essere competitive e quindi a generare domanda di lavoro.
Rispetto a quest’ultima considerazione è necessario aggiungere un elemento, interno alle tesi a favore della flessibilizzazione, di particolare rilievo.
L’alta disoccupazione, causata dalle rigidità normative, generava e genera evidentemente offerta di lavoro insoddisfatta. Tale offerta è composta in maniera preponderante da specifici segmenti della forza lavoro: i giovani e le donne (perlopiù definiti outsiders). E’ facile comprendere come posta in questi termini la relazione tra flessibilità ed occupazione non possa che determinare una contrapposizione di interessi tra differenti segmenti della forza lavoro. Da una parte, infatti, ci sono i garantiti o super garantiti (insiders): lavoratori a tempo indeterminato che godendo di alcuni privilegi, tra cui, il più discusso, quello a non vedersi licenziati senza giusta causa, rendono rigido il mercato del lavoro, generano disoccupazione e, quindi, offerta di lavoro non soddisfatta. Dall’altra parte ci sono, largamente sovrarappresentati, donne e giovani (i cosiddetti outsiders): coloro i quali hanno enormi difficoltà di primo inserimento e che sono spesso condannati a lunghi periodi di disoccupazione o inattività. Gli outsiders, rappresentando l’offerta di lavoro non soddisfatta, soffrirebbero per un’esclusione causata dai privilegi degli insiders.
Riassumendo, la flessibilità si è resa necessaria per far aumentare sia l’occupazione generale che quella di specifici segmenti della forza lavoro.
A questo punto è d’obbligo una verifica dei risultati, in termini occupazionali, conseguiti dalla flessibilità.
Prima di giungere a sintetizzare tali risultati,tuttavia, è opportuno fare un passo indietro.
Non può sfuggire che se pure si fosse prodotta nuova occupazione, qualora questa fosse stata accompagnata da una diminuzione dei salari per i già occupati, e da una forte riduzione delle tutele per i nuovi occupati, la flessibilità avrebbe rappresentato davvero un pessimo affare per il lavoro dipendente. Si partirebbe cioè dal presupposto per cui le condizioni di vita delle lavoratrici e dei lavoratori insiders, già davvero poco confortevoli dopo decenni di peggioramento nella distribuzione del reddito e nella disuguaglianza sociale finale, devono ulteriormente peggiorare per consentire agli outsiders di raggiungere delle occupazioni che come principali caratteristiche hanno i bassi salari e la precarietà sociale.
In ogni caso, misurandosi con le risultanze empiriche prodotte, sembra proprio non ci sia bisogno di interrogarsi sulla natura della flessibilità come male necessario. L’evidenza empirica permette, infatti, di affermare che gli assunti propri dei sostenitori dell’instabilità occupazionale siano stati smentiti dall’evoluzione dei tassi di occupazione.
Vediamo di riassumere i principali risultati: non esiste a livello internazionale alcuna significativa correlazione statistica tra l’aumento della flessibilità e la diminuzione della disoccupazione generale (OECD 2004; Stirati 2008); inoltre, per quanto riguarda la disoccupazione giovanile e femminile, effettivamente diminuita in Italia nell’ultimo decennio di sviluppo della flessibilità, comparando dati a livello internazionale, emerge come i tassi di disoccupazione dei cosiddetti oustsiders esprimano una correlazione statisticamente significativa con la disoccupazione complessiva di ogni singolo contesto nazionale e non con il suo livello di flessibilità (Stirati 2008: 186-188). In sostanza, per migliorare la condizione dei giovani e delle donne è necessario che i sistemi economico-produttivi, in ogni paese, generino più occupazione per tutto il lavoro dipendente (cosa che la flessibilità non è in grado di assicurare), non essendo affatto necessario che gli outsiders siano costretti a lavorare con contratti flessibili a basso salario. In tali termini la stessa interpretazione degli interessi di specifici segmenti della forza lavoro come di interessi contrapposti a quelli di una presunta maggioranza indebitamente supertutelata, alla prova dei fatti, si dimostra fuorviante e scorretta.
Conclusioni
Tenere presenti i risultati in termini occupazionali della flessibilità renderebbe molto più chiara la possibile lettura dei cambiamenti nel mercato del lavoro.
In effetti, se la flessibilità non è in grado di migliorare la condizione degli insiders né quella degli outsiders la richiesta, tuttora molto pressante a livello accademico e, soprattutto, politico-istituzionale, per una sua (ulteriore) diffusione non può che essere interpretata, al pari degli iniziali progetti di riforma, come un tentativo di indebolire il lavoro dipendente; in ultima analisi, si tratta di scelte politiche fondate sulla tutela degli interessi del capitale e sul ridimensionamento della forza contrattuale del lavoro salariato.
Tali scelte politiche sono evidenti anche considerando l’insistenza sul ridimensionamento della spesa pubblica e, quindi, sulla contrazione dei redditi disponibili a seguito della redistribuzione finale. In tale ottica le scelte politiche relative alla spesa pubblica, lungi dall’essere la risultante di oggettive necessità di compatibilità macroeconomiche, rappresentano un chiaro tentativo di comprimere quelle che, insieme al salario diretto, rappresentano le restanti componenti del salario sociale globale (la componente differita, le pensioni; la componente indiretta, i servizi pubblici).
Concludendo, in un contesto come quello brevemente descritto, l’unico modo per invertire il progressivo aumento della disuguaglianza, sia quella primaria che quella finale, è un forte impegno politico e sindacale per l’aumento dei salari delle lavoratrici e dei lavoratori, passando altresì attraverso la stabilizzazione delle posizioni occupazionali flessibili, così come per un aumento della spesa per il più generale salario sociale globale.
Una politica realmente progressista e, si direbbe, riformista (se questo termine non fosse ormai utilizzato perlopiù per connotare interventi peggiorativi delle condizioni sociali del lavoro) impone questo obiettivo.
Le forze politiche e sindacali della sinistra purtroppo negli ultimi decenni si sono rivelate incapaci di analizzare attraverso la lente del conflitto capitale-lavoro gli andamenti della disuguaglianza sociale. Diversamente, dimostrandosi totalmente subalterne all’egemonia neoliberista, sia pure nella variante social-liberista (Bellofiore 2004), hanno interpretato le tendenze, i cambiamenti e gli sviluppi presenti nei paesi a capitalismo avanzato come il sintomo della fine del conflitto, in verità ineliminabile, tra capitale e lavoro salariato.
Aspettando un salutare ravvedimento politico e sindacale la ricerca sociale dovrebbe, nel dibattito che gli è proprio, confrontarsi con la realtà concreta. Un’analisi critica delle tesi sui presunti effetti benefici della flessibilità merita, a pieno titolo, uno spazio all’interno di tale dibattito.
*Dottorando Università La Sapienza