L’imposta sui redditi delle persone fisiche, l’Irpef, copre da sola quasi un terzo delle entrate (crea un gettito pari a 160 mld) ed è il principale strumento in grado di perseguire la progressività del sistema tributario[1]. Resta aperta un’ampia gamma di obiettivi che possono essere raggiunti attraverso la modifica della struttura di questa imposta, per esempio: la riduzione del cuneo fiscale sul lavoro, l’attenuazione dell’area della povertà, la realizzazione del profilo desiderato di progressività lungo l’intero spettro dei redditi.
La Legge di stabilità (il DDL presentato dal Governo il 15 Ottobre, ora passato all’esame della Camera) prevede l’introduzione di tre novità che riguardano l’Irpef: le detrazioni per il lavoro dipendente e assimilato (tra cui figurano i collaboratori continuativi); una modifica delle aliquote degli oneri detraibili; il reinserimento parziale nell’imponibile dei redditi catastali di taluni immobili a disposizione.
Si tratta di interventi importanti, che potrebbero contribuire al miglioramento della struttura del prelievo anche se non muovono decine di miliardi.
Le detrazioni per i lavoratori sono la variabile principale che modifica l’incidenza del prelievo per il complesso dei redditi del contribuente. A partire dalla scala delle aliquote nominali, tenendo conto delle detrazioni ammissibili, possiamo calcolare le aliquote marginali effettive che misurano quanto varia l’imposta al variare del reddito complessivo del contribuente[2]. Influenzano inoltre l’offerta di lavoro del contribuente ed il relativo prodotto e guadagno.
A detta di molti, le aliquote marginali effettive costituiscono oggi uno dei principali difetti dell’Irpef, in quanto assumono livelli già elevati (attorno al 30% per dipendenti, collaboratori, pensionati) per i redditi più bassi, per poi crescere, a partire dalla cifra modesta di 28mila euro lordi annui, attestandosi su valori compresi tra il 41% e il 43% per tutti gli altri contribuenti. In altre parole, è come se nel determinare l’azione redistributiva dell’Irpef si ritenesse implicitamente che al di sopra dei 28mila euro non vi siano motivi per differenziare troppo l’incidenza del prelievo.
Un esempio può evidenziare la differenza tra aliquota marginale nominale e aliquota marginale effettiva[3]: consideriamo un dipendente che percepisca un compenso lordo attorno ai 10mila euro e incrementi il suo reddito imponibile di altri 1000 euro; in questo caso, il suo debito d’imposta crescerà di 230 euro per l’applicazione della aliquota nominale del 23% ai 1000 euro aggiuntivi. Tuttavia, occorre considerare anche altri 72 euro derivanti dalla riduzione della detrazione da lavoro[4]. L’aliquota marginale effettiva è quindi superiore al 30%.
Questo livello rimane sostanzialmente lo stesso fino al raggiungimento dei 28mila euro (il valore mediano della distribuzione dei redditi). Superata questa soglia, l’aliquota marginale effettiva sale al 41% e sino al 43%, con oscillazioni trascurabili, fino ai massimi livelli di milioni di euro.
Si viene così a configurare un’imposta sulle persone fisiche che, di fatto, è fondata su una soglia di esenzione (8mila euro per dipendenti e collaboratori) e su due sole aliquote effettive: quella superiore opera di fatto in maniera indifferenziata non appena si superino i 28mila euro lordi.
Questa anomalia, che non trova riscontro nei principali paesi europei, determina anche un innalzamento del cuneo fiscale ed un disincentivo all’offerta di lavoro regolare per i livelli bassi e medi di reddito (quelli cioè più sensibili agli incrementi di reddito disponibile).
Con la modifica prevista dalla Legge di stabilità, le detrazioni per i lavoratori calerebbero al crescere del reddito, ma di meno rispetto a ciò che prevede la normativa ancora in vigore; di conseguenza, l’aliquota marginale effettiva scenderebbe al 27,6% per i redditi compresi tra 8mila e 15mila euro, e si avrebbe dunque una riduzione di 2,6 punti rispetto all’attuale 30%. Si tratta di una riduzione modesta, che in termini di sgravio osservabile in busta paga si spalma sui redditi fino a 55mila euro; essa però non contrasta con un’idea di riforma dell’Irpef che ridisegni la progressività realizzando aliquote marginali effettive realmente crescenti.
Il timido ridisegno della progressività appena descritto è stato poi ancora modificato al Senato, per attenuare il carico fiscale di particolari contribuenti (quelli a ridosso dell’attuale soglia di esenzione). Si è ottenuto così un impercettibile aumento del beneficio su un numero minore di beneficiari, che però ha determinato effetti indesiderati, quali un ulteriore innalzamento dell’aliquota marginale fino al 42,5% sui redditi tra 28mila e 35mila euro.
Va notato che questo tipo di interventi – se realizzati con un innalzamento della soglia esente, oppure con un aumento delle detrazioni per carichi di famiglia – contrastano con l’obiettivo della riduzione delle aliquote marginali effettive; in qualche caso ciò potrebbe perfino aggravare la situazione[5].
Occorrerebbe piuttosto intervenire sulla parte media e alta della distribuzione dei redditi, attenuando l’incidenza del prelievo sui redditi mediani ed accentuandola su quelli davvero elevati (sopra i 100mila o 150mila euro)[6], ottenendo per questa via una significativa progressività.
La Legge di stabilità prevede anche, a parziale compensazione dello sgravio, una riduzione delle detrazioni da oneri (oggi pari al 19% di quanto speso) che scenderebbero nel giro di due anni al 17%. Si tratta di detrazioni che “premiano” spese di diverso genere (mutui casa, spese sanitarie, donazioni e tante altre fattispecie), sostenute tendenzialmente dai contribuenti con livelli più elevati di reddito; per questi motivi, i benefici delle detrazioni da lavoro (stimati in 1,7 miliardi) e i maggiori carichi da detrazioni per oneri (0,6 miliardi a regime) sarebbero sommabili solo in piccola parte, operando spesso su contribuenti diversi. Anche in questo caso lo sgravio non modificherebbe le aliquote marginali effettive: chi ha sostenuto quelle spese beneficia della relativa detrazione e del conseguente sgravio, ma un eventuale incremento di reddito continuerebbe a subire le stesse aliquote marginali effettive.
Infine, il reinserimento parziale nella base imponibile Irpef dei soli redditi da abitazioni tenute a disposizione nello stesso Comune di residenza, rappresenta un modo poco coerente e non risolutivo di tener conto delle ragioni di chi – come chi scrive – auspica un’applicazione del principio del reddito complessivo e, al contempo, è sensibile ai problemi derivanti da una molteplicità di imposte sugli immobili senza una ragionata valutazione del carico complessivo ed un’esplicita scelta di politica fiscale[7].