L’obiettivo di un reddito di cittadinanza è non solo poco realistico, ma anche poco interessante, mentre quello di un reddito minimo garantito, inteso come una riforma di ampliamento del welfare, è auspicabile, ma difficilmente sostenibile se non si associa a politiche di pieno impiego[1]. Non a caso, i bassi tassi di occupazione che esistono in Italia rappresentano un ostacolo molto serio alla realizzazione di un reddito minimo garantito di tipo universalistico.
Esiste una grande varietà e articolazione di proposte che possiamo a grandi linee classificare a seconda del modo prevalente di concepire il reddito minimo:
– Garanzia di un reddito a chi non ha un lavoro (più ampia)
– Strumento di lotta alla povertà attraverso una rete di protezione minima che garantisca un reddito minimo ‘di sussistenza’ (più restrittiva)
Consideriamo la prima concezione. Questo strumento non dovrebbe sostituire cassa integrazione e sussidi di disoccupazione già esistenti e basati sulla contribuzione obbligatoria.[2] Il reddito garantito dovrebbe quindi rivolgersi a) a chi ha esaurito o non ha accesso a quei due strumenti; b) alle persone in cerca prima occupazione.
Questo può essere fatto:
1) in modo universalistico: tutti coloro che non hanno una occupazione con unica condizione la disponibilità ad accettare le proposte di lavoro (con regolare contratto e coerenti con il proprio profilo professionale) e che passano per appositi uffici di collocamento.
2) Non solo in base alle condizioni precedenti ma anche sulla base di condizioni di bisogno economico.
In via di principio la prima sarebbe preferibile per varie ragioni: l’universalità è garanzia contro distorsioni legate a clientelismo, corruzione o evasione fiscale, i costi di gestione sono minori; ed anche in via di principio la garanzia di un reddito dovrebbe riguardare tutti anche, ad esempio, giovani provenienti da famiglie che non sono povere ma che ambiscono ad una autonomia dalla famiglia di provenienza. Ma è sostenibile?
Se riguardasse solo i disoccupati ‘contati’ come tali in base alle vigenti definizioni statistiche (che già escludono i cassaintegrati), facendo dei calcoli di massima, giusto per aver un ordine di grandezza: 500 euro netti al mese per 3 milioni di disoccupati (quanti ne conta l’Istat nelle ultime rilevazioni) costerebbero su base annua 18 miliardi – grosso modo un terzo in più delle intere entrate derivanti dall’IMU. E’ una cifra ragguardevole per il bilancio pubblico in generale, e ancora di più se vista all’interno degli attuali vincoli che ci obbligano ad elevati avanzi di bilancio. Tuttavia una cifra affrontabile da un bilancio pubblico. Però la storia non finisce qui. Perché è evidente che in un paese in cui i tassi di occupazione sono estremamente bassi, una volta che si introduca il diritto ad un reddito il numero di coloro che del tutto legittimamente potrebbero richiederlo si amplierebbe moltissimo. Basti pensare che le persone inattive in età da lavoro (15-64 anni) in Italia sono complessivamente 14 milioni. Una parte significativa di queste persone sono inattive (cioè non cercano attivamente un lavoro) perché ritengono di non poterlo trovare. Se anche ipotizzassimo (del tutto arbitrariamente, e solo per determinare degli ordini di grandezza) che solo un quarto degli attuali inattivi decidesse di dichiararsi disoccupata, proporsi agli uffici di collocamento e richiedere il reddito minimo, si aggiungerebbero altri 3,5 milioni di persone alla platea dei beneficiari,[3] e i costi sarebbero più del doppio dei 18 miliardi appena indicati. Certamente trasferimenti di reddito di queste dimensioni avrebbero ricadute positive sul livello della domanda e dell’occupazione, contribuendo quindi a ridurre la platea dei beneficiari – non abbastanza tuttavia da ridurne drasticamente la numerosità e il costo sotto l’ipotesi di universalità da cui siamo partiti.[4]
Si aggiunge l’ulteriore problema che il ‘controllo’ sulla effettiva disponibilità a lavorare sulla base dalla disponibilità ad accettare le proposte di lavoro non funziona se le proposte di lavoro non ci sono perché non c’è domanda sufficiente da parte delle imprese – al Sud in particolare ciò sarebbe certamente vero. Questo rischia di costituire un forte incentivo al lavoro nero, e prefigura una situazione di ingenti trasferimenti attraverso il sistema fiscale verso gli inoccupati (gran parte dei quali residente nel Sud) finanziati – per come è il sistema fiscale di oggi – da un’Irpef che ricade in misura pressoché totale sui lavoratori dipendenti, e dall’Iva, che è un’imposta regressiva che ricade in proporzione maggiore sulla parte meno abbiente del paese. Io dubito fortemente che questo anche se fosse fattibile sul piano del bilancio pubblico, sarebbe accettato sul piano politico e non produrrebbe invece forti divisioni e conflitti ‘tra poveri’ occupati e disoccupati. Dubito molto ad esempio che i cittadini del movimento 5 stelle ed ex elettori della lega che oggi propongono il reddito garantito sarebbero contenti di una simile situazione.
Anche ignorando i vincoli alle politiche di bilancio attualmente in vigore, la bassa occupazione e le distorsioni del sistema fiscale rendono a mio parere oggi molto difficilmente sostenibile un reddito minimo di tipo universalistico.
Se d’altra parte la garanzia di reddito è legata a condizioni economiche di bisogno tendiamo a ricadere nella seconda concezione del reddito minimo inteso, in modo più restrittivo, come strumento di contrasto alla povertà.[5] Le proposte in questo senso sono diverse a seconda di dove viene collocata la ‘soglia’ di reddito per avere diritto al reddito minimo – tenendo presente che tanto più la platea prevista è ampia tanto più le proposte che vengono avanzate prevedono che questo strumento debba riassorbire, cancellandoli o riducendoli, altri strumenti, quale l’integrazione al minimo della pensione, la pensione sociale, la cassa integrazione (e talvolta addirittura le pensioni basate sulla contribuzione) sostituendole con trasferimenti rivolti esclusivamente ai meno abbienti.
Posto che forme di intervento che contrastino la povertà assoluta sono un fatto di civiltà, e dunque vanno ricercati strumenti idonei, il reddito minimo così concepito lascerebbe comunque fuori probabilmente gran parte delle persone, per esempio giovani disoccupati, che abbiamo in mente quando pensiamo a forme di reddito garantito. Questo perché le condizioni di bisogno devono essere accertate sulla base del reddito del nucleo familiare di appartenenza, e dunque ad esempio un disoccupato/a convivente con un nucleo familiare di tre persone con reddito annuo netto superiore ai 21.600 euro (e dunque con reddito annuo netto disponibile per ciascun membro della famiglia superiore a 7200 euro) sarebbe escluso/a in base alla soglia per l’accesso al reddito minimo – appunto 7200 euro – indicata nella recente proposta del movimento a 5 stelle e non molto diversa da quanto indicato anche in altre proposte.
Anche la misura di “sostegno di inclusione sociale” appena approvata nella Legge di Stabilità va nella direzione del contrasto alla povertà assoluta, ma con fondi destinati al provvedimento – 40 milioni all’anno – che rappresentano un importo risibile: consentirebbero un trasferimento di 400 euro netti mensili (tale è l’importo previsto) a poco più di ottomila famiglie, quando secondo l’Istat le famiglie italiane in condizioni di povertà assoluta[6] erano nel 2012 un milione e settecentomila.
Per affrontare le condizioni di grave disagio dei disoccupati, in particolare nella attuale situazione di profonda recessione, io penso si debbano avanzare proposte di ‘piani del lavoro’ di stampo roosveltiano (ma formulate anche in Italia), anche perché, in particolare con riguardo ai giovani, se ben gestiti potrebbero fornire l’occasione di un’esperienza più gratificante e incoraggiante che non un trasferimento monetario. Garantire un’occupazione a un salario netto medio di 10 000 euro annui (circa 800 euro al mese) a un milione di persone costerebbe 10 miliardi – di nuovo si tratta di somme significative ma certo non impossibili per un bilancio pubblico. Ricordo ad esempio che il taglio del cuneo fiscale proposto dall’attuale governo, con un beneficio assolutamente irrisorio in busta paga, e con effetto sicuramente nullo come incentivo alle imprese, costerà 5 miliardi di minor gettito con i quali si sarebbero potuti finanziare mezzo milione di posti di lavoro all’anno al reddito appena indicato. Naturalmente anche qui nascono dei problemi complessi connessi all’individuazione dei soggetti che accedono a questi posti di lavoro, alla organizzazione dei progetti, a inefficienze, corruzione, e difficoltà, di nuovo, legate al fatto che soprattutto nel Sud le situazioni di inoccupazione tanto a livello individuale che aggregato tendono alla persistenza e rendono difficile la gestione dei progetti come piani straordinari o come forme di sostegno individuale a termine. Mi sembra però che potrebbe valere la pena di tentare.
Riferimenti bibliografici
Giovanna Altieri, Lorenzo Birindelli, Fernando Di Nicola, Michele Raitano, Claudio
Treves (2010) La riforma degli ammortizzatori sociali. La proposta della Cgil Ottobre
Massimo Baldini et al (2013) Un reddito minimo possibile, lavoce.info 14 giugno.