Nel novero delle economie europee, quella italiana presenta segni di maggiore affanno, con il Pil ancora contrassegnato dal segno meno dopo 8 trimestri consecutivi. Secondo l’ultima stima di Eurostat[1], nel secondo trimestre 2013 il Pil è cresciuto dello 0,3% sia nell’Eurozona sia nella Ue-27, mentre in Italia si è avuto un -0,2%. Beninteso, il dato complessivo dell’Eurozona e della Ue non dice che l’Europa è uscita dalla crisi in cui è piombata da più di un lustro ormai: ben altri ritmi dovrebbe avere la crescita per recuperare il terreno perduto e compensare i danni che stanno provocando le politiche di austerità. Nondimeno in un contesto che fa registrare qualche segnale di ripresa, l’Italia rimane al palo.
Ancora meno rassicuranti sono le stime che ha fornito recentemente l’Ocse[2]: per il 2013 si prevede un’ulteriore contrazione della ricchezza nazionale (-1,8%) in rapporto al 2012, che, come si sa, si chiuse con un vistoso calo del 2,4% su base annua.
Parlano chiaro anche i dati sull’occupazione, se è vero, come l’Istat rileva, che il tasso di disoccupazione è tornato al 12% (Un punto percentuale in più sulla media europea) e quello giovanile vicino al 40%, in aumento del 4,3% rispetto al 2012. Solo nell’ultimo anno i disoccupati sono aumentati di 325 mila unità. E in queste stime non si dà conto, in maniera disaggregata, della situazione drammatica, specifica, in cui versano tanti disoccupati con oltre 40 o 50 anni d’età, quelli che hanno perso il lavoro in età avanzata e sono ancora molto lontani dalla pensione, anche per affetto delle recenti “riforme” della previdenza che hanno sensibilmente aumentato l’età pensionabile.
Colpisce anche la vera e propria epidemia che ha colpito la piccola e media impresa: le aziende che hanno chiuso battenti tra gennaio e marzo 2013 sono state ben 31mila. Un dato, come ha fatto rilevare recentemente Il Sole 24 Ore, peggiore addirittura rispetto al 2009, l’anno più buio della crisi, quando il saldo negativo si fermò intorno alle 30mila unità.
E i consumi? L’ ultima indagine Istat[3] sul commercio al dettaglio mostra una diminuzione del 3% a giugno rispetto all’anno precedente, la dodicesima consecutiva (Si prevede un -2,2% su base annua rispetto all’anno precedente). Un calo continuo, che non risparmia nemmeno i beni di primissima necessità, come gli alimenti ed i farmaci[4].
Stiamo parlando di una situazione così delicata che quantunque l’Italia agganciasse la flebile ripresa europea (Per il 2014 è impensabile prevedere una ripresa superiore al punto di Pil), ciò sarebbe assolutamente insufficiente a mettere benzina nella sua economia.
Per uscire dalle secche di questa recessione prolungata, riparando pure i danni procurati dal combinato disposto di crisi e austerità, il nostro paese dovrebbe crescere nei prossimi anni ad un tasso del 3-4% almeno. Un obiettivo che, sebbene non sia stato minimamente preso in considerazione dalle stime ufficiali del governo, sarebbe difficile da raggiungere senza una rinegoziazione dei nostri impegni con la Ue.
Del tutto ingiustificato, ordunque, è apparso l’ottimismo dei nostri ambienti governativi, di gran parte del mondo politico e dei media, a seguito della chiusura dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo, gravante sull’Italia dal 2009 (a che punto sono le trattative per stabilire quali spese del bilancio dello Stato si potrebbero scomputare dal calcolo del deficit?): i dati che vengono dall’economia e i vincoli imposti dal Patto di stabilità, combinati tra di loro, mai consentiranno al nostro paese di adottare politiche espansive degne di questo nome.
Che fare allora? C’è bisogno di una inversione di rotta, innanzitutto, e tanto coraggio sul piano politico. Non mancano proposte interessanti in questa direzione, provenienti dal mondo accademico e da una parte della nostra intellettualità, con cui la politica dovrebbe a questo punto iniziare a “familiarizzare”.
Come hanno fatto rilevare da un po’ di tempo a questa parte alcuni economisti, se l’Italia vorrà conseguire obiettivi di ripresa sostanziosa del reddito nazionale nel breve periodo dovrà necessariamente sforare il patto di stabilità, attestando per qualche anno il rapporto tra deficit e Pil al di sopra del 3% di almeno due punti. In questo quadro si inserisce, ad esempio, la proposta di Riccardo Realfonzo, che ha suggerito di investire l’avanzo primario, circa 35 mld, nella crescita. Una proposta concreta, fattibile, che potrebbe determinare, da subito e senza mettere per il momento in discussione l’architettura su cui si regge attualmente l’edificio europeo, una crescita della ricchezza nazionale di oltre 45 miliardi di euro (3 punti di Pil), i cui effetti sul deficit sarebbero compensati nell’arco di un anno proprio grazie all’aumento del denominatore nel rapporto deficit/Pil ed all’aumento del gettito fiscale.
Per fare questo, ovviamente, il nostro paese avrebbe bisogno di una deroga agli impegni sottoscritti con l’Unione (Da socio fondatore dell’Europa, l’Italia dovrebbe addirittura pretenderla). E se i partner europei si dimostrassero insensibili a questa esigenza dell’Italia? In questo caso, propone ad esempio PierGiorgio Gawronski[5] “l’Italia dovrebbe fare da sé”. Come? Procedendo unilateralmente alla “creazione di liquidità interna mediante una emissione di quasi-moneta con la quale rianimare la crescita”.
L’idea sarebbe quella di finanziare una quota di spesa pubblica e di compensare contestualmente una sensibile riduzione delle tasse, nell’ordine di circa 25-30 mld l’anno per un massimo di 100-150 mld, mediante ‘titoli pubblici’ di piccolo taglio (scadenza 2015, con tassi prossimi allo zero) ad ampia circolazione in quanto utilizzabili per pagare tasse, bollette, ecc., emessi a fronte di pagamenti della P.A. Si tratterebbe di “debito pubblico aggiuntivo”, che lo Stato impiegherebbe per stimolare la domanda interna, un’operazione per finanziare una quota di spesa pubblica per investimenti e di sostegno al reddito delle famiglie, ripagabile nel giro di pochi anni dal rilancio dei consumi, quindi della produzione e dell’occupazione, dall’aumento delle entrate fiscali.
Proposte, che, come altre sul tappeto, in altri contesti potrebbero essere considerate finanche “moderate”, comunque valutabili nella loro applicabilità, ma nel contesto attuale rischiano di essere bollate come provocazioni ovvero come eresie rivoluzionarie (sic!).
Questo perché l’Europa dell’Euro si sta costruendo essenzialmente su due pilastri: la rinuncia degli stati membri alla loro sovranità monetaria e il terrorismo del deficit. Due fattori che di fronte alla crisi hanno mostrato rispettivamente il loro limite e la loro dannosità. Il problema è che questa visione delle cose col tempo è diventata una vera e propria ideologia totalitaria, che tende ad oggettivare ciò che è assolutamente convenzionale. E come tutte le ideologie totalitarie non ammette dissenso: chi mette in discussione il modello prescelto è un nemico dell’Europa unita.
E da qui che bisogna partire, allora. Proprio dalla consapevolezza di questi paradossi, che denotano una soggezione fideistica, perfino paranoica, infondata, frutto di pigrizia intellettuale, delle élite europee, politiche e non, dinanzi al verbo dell’Euro – rigore.
C’è bisogno di far cadere, politicamente, il tabù del deficit che sta strozzando l’economia europea. Dentro la gabbia ideologica di alcuni vincoli imposti dai trattati (3% nel rapporto deficit/Pil, pareggio di bilancio) non c’è possibilità di risalita, né per il nostro paese né per l’Europa nel suo complesso. D’altronde ci vuole poco a capire che in tempo di crisi l’austerità è come il farmaco sbagliato che si dà al malato, provocandone la morte. La crisi è crisi di domanda e sulla domanda bisogna agire, con più spesa pubblica (Orrore!). Possiamo farlo col terrore di una nuova procedura di infrazione per deficit eccessivo? No, evidentemente. Delle due l’una: o si investe per stimolare la crescita, i consumi e l’occupazione o si calibrano le politiche di bilancio sull’obiettivo del pareggio strutturale e del mantenimento del deficit sotto il 3% del Pil. Ciò, a maggior ragione, con le stime sull’andamento del Pil per i prossimi anni che non sono assolutamente lusinghiere.
Dunque? O l’Europa unitariamente, nella sua espressione istituzionale, capisce che bisognerà fare un tagliando ai parametri ed ai vincoli finora in vigore, che, per loro natura, sono convenzionali e legati alla particolare fase storica in cui sono stati adottati, oppure il nostro paese dovrà forzare la mano, attraverso iniziative che gli consentano di stimolare adeguatamente, qui ed ora, la propria economia, rilanciando la domanda interna e l’occupazione, prima che il disastro diventi irreparabile.
Nel frattempo bisognerà ragionare su come modificare alla radice l’attuale modello di costruzione europea e su quale prospettiva potrà (o non potrà) avere l’Euro negli anni avvenire. I fatti si sono già incaricati di dimostrare che l’attuale sistema della moneta “unica” così com’è non funziona. Non funziona perché sono troppo marcate le differenze tra i paesi che l’hanno adottato ed inconciliabili i loro interessi; perché i paesi dell’Eurozona hanno perso del tutto la prerogativa di usare la leva monetaria per stimolare l’economia; perché la Bce, per sua natura, non può assolvere alla funzione che sarebbe di una qualsiasi banca centrale nazionale, al netto dei correttivi (non convenzionali) introdotti con la presidenza Draghi; perché la tenuta del sistema implica una soggezione permanete a rigidi criteri di convergenza che inibiscono la facoltà degli stati membri di agire efficacemente e tempestivamente in funzione anticiclica.
C’è chi dice che per superare i problemi attuali ci vorrebbe un surplus di integrazione – politica, fiscale -, come se, con lo stesso spirito che ispirò i trattati di Maastricht e quelli successivi, certi processi si potessero determinare a tavolino, in camera sterile (Riuscite ad immaginare un sistema fiscale identico in Germania e Lettonia o in Francia e Slovenia?). Più utile, dal mio punto di vista, ragionare su un’ipotesi di exit strategy dall’Euro, che coinvolga l’Eurozona nel suo complesso. Tutti fuori, in breve. Per ritornare allo status quo ante? Un “liberi tutti” senza immaginare un’alternativa plausibile? No. Senza parafrasare i sacerdoti del tempio dell’Euro, che mettono in guardia dall’inferno che si spalancherebbe in caso di abbandono della moneta unica, è facile immaginare che una rottura incontrollata del sistema potrebbe avere ripercussioni infelici su alcune economie, almeno per una prima fase.
Nondimeno, come la storia ci insegna, potrebbe esserci un’altra soluzione: abbandonare una strada già intrapresa senza necessariamente tornare indietro, ma, al contrario, avanzando in un’altra direzione. Quale? Un’ipotesi potrebbe essere quella di trasformare l’Euro in una sorta di “collante” delle monete nazionali, per regolare gli scambi ed equilibrare il mercato europeo, con alcuni vincoli per gli stati membri, che, tuttavia, pur cedendo una quota di sovranità, recupererebbero la loro fondamentale prerogativa di battere moneta, garantire il proprio debito sovrano, usare la leva monetaria per regolare il mercato interno e stimolare, in caso di bisogno, l’economia. D’altronde la prova che un superamento “controllato” dell’Euro non costituirebbe una catastrofe in sé è data dal fatto che l’attuale modello di “unità europea” già si regge sulla differenza tra chi l’Euro ce l’ha e chi non ce l’ha, pur avendo accettato di soggiacere ad alcuni vincoli comuni in quanto membri del consesso Ue.
In questa direzione si muovono alcune recenti proposte di economisti, intellettuali e politici, che, per rendere l’idea, hanno richiamato in servizio il “Bancor” di Keynesiana memoria e parlato di moneta “comune” in luogo dell’attuale moneta “unica” (Lordon, Fantacci, Gianni, ecc.). Ipotesi di lavoro potremmo dire, che, in questa fase, non possono però escluderne altre. L’unica cosa che non è più tollerabile, dunque è da escludere, è lo stare a guardare mentre l’Europa – Titanic continua la sua lenta ma costante discesa agli abissi. Si spera che già a partire dalle prossime elezioni europee questi siano i temi al centro del dibattito politico in Europa ed in Italia. Intanto si alimenti il confronto su sulle varie soluzioni prospettate e prospettabili, per rompere il muro dell’afasia che preclude ai più di percepire correttamente la realtà che abbiamo davanti. Parafrasando Antonio Gramsci, si può dire che è un problema di egemonia e tante sono le “casematte” da conquistare.