Anche se alla fine un accordo sarà raggiunto e la situazione verrà sbloccata, la vicenda del possibile tetto all’aumento del debito pubblico USA è emblematica degli esiti demenziali cui possono portare il perseguimento troppo a lungo incontrastato di interessi privati e un altrettanto incontrastato dominio di una cultura economica apologetica.
Dal fatto di emettere la moneta da tutti accettata come strumento di riserva e di pagamento internazionale è a lungo derivata per il governo della potenza egemone una situazione di totale e incondizionata sovranità monetaria, con il suo debito pubblico globalmente considerato come il più completamente al riparo da rischi di insolvenza, i relativi titoli come l’investimento sicuro per eccellenza, e il tasso di interesse di riferimento a lungo termine – la principale variabile economica del capitalismo – fermamente sotto il suo controllo.
Tutta questa libertà, includente anche la libertà da vincoli di bilancia dei pagamenti alla crescita, ha naturalmente arrecato notevoli vantaggi economici in primo luogo agli USA. Ma ne ha tratto vantaggio anche il resto del capitalismo avanzato, perché ha permesso che venissero innescati dei circoli virtuosi di crescita economica mondiale. I “trenta gloriosi” del capitalismo europeo, ad esempio, difficilmente avrebbero potuto aver luogo in assenza dei privilegi di cui godeva la potenza egemone; ed a ben vedere, senza questi privilegi, non avrebbe potuto aver luogo nemmeno la modesta crescita registrata dalle principali economie avanzate nell’ultimo trentennio.
Cosa oggi si mette in discussione di questa incondizionata sovranità? Certo non la libertà dal vincolo esterno (le importazioni nette degli USA sono pagate con titoli del debito pubblico) o il sostegno al sistema pensionistico (il patrimonio dei fondi pensione è costituito in larga misura da titoli del debito pubblico), né tantomento, figuriamoci, l’ordinato funzionamento del sistema dei pagamenti (tutte le banche americane detengono riserve in titoli del debito pubblico e sono proprio questi titoli a consentire il funzionamento del mercato interbancario). In sostanza, il capitalismo negli USA (e non solo) è semplicemente inconcepibile senza titoli del debito pubblico garantiti illimitatamente dal governo. Il tema del default è quindi nulla più che una strategia di ‘terrorismo finanziario’, come indirettamente confermato dal favorevole andamento del mercato obbligazionario, che nelle ultime settimane non ha attribuito alcun peso all’eventualità che il governo non rispettasse gli obblighi assunti.
E’ inaudita anche la mera possibilità che tutto questo venga ora mandato a gambe all’aria dalla pressione di interessi privati. Ed in effetti ciò a cui mirano tali interessi non è far saltare il tavolo, ma è dare concretezza alla propaganda sulla necessità di starve the beast – vale a dire sulla necessità di costringere lo Stato a togliersi di mezzo privandolo dei finanziamenti. In un contesto globalizzato in cui le principali decisioni politiche degli Stati sono ormai dettate dalle forze del mercato, ed in cui, tramite regole come il “pareggio del bilancio”, i diritti dei rentiers vengono anteposti ai diritti sociali dei cittadini, un tetto al debito pubblico USA porterebbe di fatto alla falcidia di tutte le voci della spesa pubblica non destinata al servizio del debito. Verrebbe da dire che mancando negli USA il paravento di Maastricht e del vincolo sovranazionale, l’emergenza di finanza pubblica gli americani siano stati costretti ad inscenarla in forme meno raffinate, e quindi più palesemente assurde, di quelle usate dagli europei.
La realtà è che interessi privati come quelli relativi al maggior controllo possibile del settore sanitario sono stati rafforzati a tal punto da una trentennale ideologia mercatista da non arretrare, come appariva ragionevole attendersi in seguito alla crisi economica e finanziaria ad essi in ultima analisi riconducibile, ma invece da ampliare il proprio raggio d’azione, portando lo scontro su di un terreno in bilico tra la farsa e l’autolesionismo.
Lo stesso Blankfein appare oggi perplesso e preoccupato. Le sue preoccupazioni sembrano derivare non tanto dalla possibilità che il governo e la finanza finiscano per trovarsi a corto di mezzi liquidi, quanto piuttosto dai sempre incerti esiti politici di drastici e rapidi peggioramenti delle condizioni materiali di vita della maggioranza della popolazione. Per il neoliberismo, insomma, stravincere è rischioso, come sembrano suggerire nel caso della Francia l’ascesa dell’estrema destra sovranista e gli insuccessi degli strampalati accordi elettorali tra il partito di Hollande e quello di Sarkozy per contrastarla.