Quando si pone il problema delle politiche dell’offerta lo si fa solitamente per riproporre ricette di politica economica che invocano il contenimento del costo del lavoro e la riduzione della spesa pubblica. Si è in altri termini posseduti da una versione moderna della Treasury view sposata incautamente da Winston Churchill nel 1929. Eppure progettare politiche dell’offerta è un compito troppo serio per essere lasciato ad una visione (e cultura) economica miope, sebbene dominante. Questa visione tollera la vulgata in cui “riduzione della spesa” è diventata sinonimo di riduzione degli sprechi e che il senso di “contenimento del costo del lavoro” sia quello rassicurante di riduzione del cuneo fiscale, invece che del salario. La stessa visione tollera che, quando quelle ricette per la crescita sono poste in discussione da fondate obiezioni teoriche, si risponda che si tratta di ricette necessarie anche se non sufficienti: quindi esse diventano inattaccabili, perché la loro (in)efficacia non potrà mai essere confutate dall’evidenza empirica. Intanto – si dice – sono ricette che vanno attuate, in attesa che si realizzino quelle sufficienti. Proveremo qui di seguito ad affrontare questo muro di gomma da un punto di vista Post-Keynesiano adattato a un’economia globalizzata. L’adattamento riguarda il lato dell’offerta, la teoria degli scambi internazionali e la traduzione della domanda effettiva da globale in nazionale.
Uno dei problemi economici che affliggono oggi l’Italia consiste nella morsa che costringe le performance commerciali delle sue imprese[1] e che induce molte di esse a delocalizzare. I libri di testo presentano il funzionamento del commercio internazionale ricorrendo al modello ricardiano dei costi comparati: si descrivono due economie, ciascuna delle quali, prima del commercio, è dotata di una frontiera delle possibilità di produzione a cui corrisponde un costo-opportunità fra due merci. Una data offerta di lavoro nazionale pienamente occupata, insieme alle condizioni tecniche, è determinante esogena della stessa frontiera[2]. Date queste ipotesi un Paese tenderà a specializzarsi nella produzione del bene su cui ha un vantaggio comparato (cioè la cui produzione ha un costo opportunità, in termini di altri beni, minore che negli altri paesi). Tuttavia, nella situazione che caratterizza oggi il commercio interno all’Eurozona (e più in generale nell’attuale contesto di globalizzazione) il principio dei costi comparati non costituisce un adeguato supporto teorico per l’analisi delle conseguenze degli scambi internazionali[3]. Occorre invece prestare attenzione a due circostanze: 1) La produzione e l’occupazione di ciascuna economia nazionale non sono determinate da una data offerta di lavoro nazionale, ma dalla domanda effettiva mondiale e sono ammessi equilibri di disoccupazione involontaria; 2) Non solo i beni capitali sono oggetto di libero commercio internazionale, ma anche il capitale – nel senso di capitale finanziario e di investimenti diretti – è mobile fra i Paesi. Consideriamo due economie che costituiscono un’economia in un certo senso globale. Esse possono produrre macchine e abbigliamento; entrambe le industrie impiegano lavoro e macchine come mezzi di produzione. Se l’integrazione fra le due economie fosse caratterizzata da una moneta unica, dal libero scambio dei prodotti, dalla mobilità del capitale e anche dalla mobilità del lavoro fra le due aree, gli scambi fra le due economie equivarrebbero a quelli fra due regioni dello stesso Paese. In queste circostanze l’esistenza di un vantaggio assoluto prevarrebbe sui vantaggi comparati (ammesso che questi si possano ancora definire). Quindi è possibile un equilibrio con una completa concentrazione della produzione in una sola area. L’area più debole si “svuoterebbe” come entità produttiva.
Per semplificare continuiamo ad affrontare il tema della domanda effettiva globale con riferimento all’Eurozona, assunta come economia globale al suo interno e dotata di una moneta unica, ma chiusa all’esterno. Quindi possiamo continuare a trascurare problemi di bilance dei pagamenti e mercati dei cambi. Non possiamo però estendere tutte le assunzioni da cui deriva la conclusione valida per quella economia regionale al sistema Nord Europa contrapposto ai cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna) dei nostri tempi. L’economia dell’Euroarea che si osserva nella realtà non è integrata per quanto concerne la forza lavoro e dobbiamo tenerne conto ai fini dell’argomentazione. Supponiamo che prima e dopo l’apertura degli scambi sia la domanda effettiva a determinare equilibri di disoccupazione. Sappiamo allora che nel modello teorico la concorrenza tende a condurre ad una scelta delle tecniche che minimizza i costi di produzione e massimizza il saggio uniforme di interesse (profitto) per dati saggi di salario reale nelle due aree. È possibile che la stessa scelta implichi l’attivazione di entrambe le industrie in una sola area. In questo caso si deve ammettere che prevalgano i vantaggi assoluti[4]: se il Nord Europa possiede un vantaggio assoluto nella produzione sia di macchine che di abbigliamento, allora i PIIGS rappresenteranno un’economia non competitiva come un tutto. Un risultato questo che coincide con quello ammissibile in condizioni di completa integrazione delle economie, ma compatibile con ipotesi diverse riguardo la mobilità della forza lavoro. Se non esistessero barriere – psicologiche, istituzionali o discriminazioni razziali – alle migrazioni e alle assunzioni di lavoratori non nazionali, il lavoro di PIIGS potrebbe spostarsi facilmente nel Nord Europa. Invece quei suddetti ostacoli alla mobilità del lavoro fra le due aree esistono e persistono. In tal caso l’aumento di occupazione nel Nord Europa si risolverebbe in un aumento di occupazione dei lavoratori di questa area.
E’ probabile che all’interno di un’economia integrata dal punto di vista del commercio di merci e dei movimenti di capitale, come l’Euroarea, qualche Paese si stia avvicinando alla soglia degli svantaggi assoluti e ciò sarebbe rivelato da una sua crescente deindustrializzazione e perfino deterziarizzazione. Per poter riattivare la propria crescita un tale Paese dovrebbe conservare o acquistare un vantaggio assoluto in qualche linea di produzione in presenza di una domanda aggregata sovranazionale in espansione. Se ciò avvenisse, la specializzazione produttiva potrebbe apportare un maggiore tasso di crescita, a parità di saggi di salario e di consumo pro capite (o una combinazione di incrementi di questi saggi), lasciando tuttavia aperta una politica di redistribuzione del reddito. Ci chiediamo quali scelte politiche non protezionistiche lo consentirebbero. La scelta non è obbligata, come si tenta di far credere, per far sì che i costi assoluti di alcuni prodotti nazionali diminuiscano nei confronti di quelli dei propri partners commerciali europei ed extra-europei. E’ vero che non è più praticabile per un Paese dell’Eurozona la svalutazione della sua moneta nazionale come strumento per aumentare, per quanto in modo effimero, la competitività dei propri prodotti. E’ vero anche che finora si è con un certo cinismo perseguita una politica per la competitività che è un surrogato di una politica industriale. La scelta è stata dettata dalla presunzione che, una volta raggiunto il fondo di salari incomprimibili e prima di toccare il tetto di un progresso tecnico potenziale, per rendersi competitivo ad un paese rimane la via dell’adeguamento delle proprie norme sociali a quelle più “competitive”, sebbene meno “sociali”, di certi suoi concorrenti extra-europei. Temo che questa idea stia alla base dell’invocazione di riforme strutturali e di lotta alla burocrazia.
La competitività di prezzo e di prodotto per l’esportazione può invece aumentare non solo in virtù di riduzioni del costo del lavoro, di un abbassamento dei carichi fiscali e di innovazioni di processi e prodotti, ma anche come risultato di esternalità positive associate ad investimenti pubblici.
Quindi una scelta meno cinica consisterebbe in una politica Keynesiana per la crescita e l’occupazione, che dovrebbe essere attuata, invertendo uno slogan adottato dallo stesso Keynes, senza buche da scavare e poi riempire, ma attraverso investimenti pubblici produttivi di quelle esternalità positive. Proviamo ad articolare questo slogan con riferimento ad uno scenario Europeo sufficientemente realistico per il prossimo futuro: ancora assenza di una politica fiscale europea con fini redistributivi fra le diverse aree, ma un coordinamento delle politiche fiscali con fini espansivi dal lato della domanda e associate ad un allentamento dei vincoli di bilancio per PIIGS.
Un sostegno alla domanda attraverso la spesa pubblica, se è effettuato da un singolo Paese, è sostegno alla domanda effettiva dell’economia globale; mentre un sostegno coordinato alla domanda aggregata dell’intera Eurozona può (e può non) essere un sostegno alla domanda per la produzione di un singolo paese. Come si distribuisce tale domanda e la capacità produttiva fra le nazioni diventa allora cruciale ai fini di una politica per l’occupazione nazionale. La precedente discussione sui vantaggi comparati contrapposti a quelli assoluti indica i fattori che determinano come si localizza o si delocalizza la maggior produzione indotta da quella maggiore domanda. In quale misura un sostegno alla domanda si traduce in sostegno alla domanda di prodotti italiani e quindi di occupazione nazionale, dipende dalla competitività nazionale vis-à-vis quella degli altri stati membri. Ciò vale sia nel breve periodo, dove la domanda si distribuisce fra le produzioni nazionali con capacità produttive date; sia nel lungo periodo, dove la distribuzione della capacità produttiva fra aree Europee è variabile tramite investimenti e disinvestimenti di capitale produttivo. La competitività comparata a livello europeo dovrà essere analizzata per settori, essendo però consapevoli di un fatto: non vale più la garanzia che almeno qualche settore dell’economia italiana dovrà essere competitivo grazie al principio dei costi comparati. La competitività va invece mantenuta, creata e ricreata continuamente e qui diventa essenziale una politica industriale che favorisca (ad esempio con programmi di ricerca e sviluppo innovativo) alcuni settori mirati invece di interventi a pioggia. Alla fine il risultato da perseguire deve essere una maggiore competitività in termini di saggi di rendimento sui capitali transnazionali investiti in certi settori dell’economia italiana. L’alternativa più radicale, che nel nostro Paese si tende erroneamente ad escludere a priori senza una qualsiasi discussione dei suoi costi e benefici non limitati al breve periodo, consisterebbe in restrizioni ai movimenti di capitale. Pare che tertium non datur per rilanciare l’economia Italiana, sapendo però che l’attuazione di ciascuna delle due alternative contemplate richiederebbe uno Stato nazionale coeso.
Concludiamo tornando al tema più generale di queste note. Abbiamo sostenuto che in un’economia che è globale specialmente in virtù di liberi movimenti di capitale e si trova in condizioni di disoccupazione, eventuali politiche espansive della domanda coordinate a livello europeo dovrebbero essere sorrette da politiche industriali a livello nazionale dal lato dell’offerta. Tale affermazione potrà apparire un’eresia dal punto di vista di un keynesismo naive, in quanto esso vi scorge un apparente cedimento ad una supply economics, ma abbiamo argomentato che così deve essere per un paese come l’Italia che non può o non vuole opporsi alla mobilità dei capitali. In una copiosa letteratura contemporanea sulla crisi in atto si è ampiamente dibattuto sul valore numerico del moltiplicatore fiscale e si sono evidenziate certe asimmetrie tra moltiplicatore della spesa pubblica e demoltiplicatore della pressione fiscale; inoltre una variabilità di esso nelle diverse fasi del ciclo economico. Il moltiplicatore fiscale, per poter essere uno strumento analitico utile per una politica della crescita di un’area nazionale, deve tuttavia possedere due requisiti, spesso trascurati in quella letteratura. Primo, deve essere riferito ad un’economia aperta non solo al commercio delle merci, ma anche ai movimenti di capitale e quindi ammettere possibili processi di delocalizzazione della produzione fra diverse aree nazionali. Secondo, deve essere formulato in termini di un orizzonte di tempo finito, ma sufficientemente lungo per poter tener conto degli effetti della composizione di un aumento della spesa pubblica. Un incremento di una sua componente – gli investimenti pubblici generatori di esternalità produttive – non si sottrae ad una fuoriuscita di reddito per importazioni ed eventualmente di capitali in cerca di maggiore redditività, ma implica tutt’altro che sprechi ai fini della crescita e della occupazione: in particolare può contribuire ad una riduzione, attraverso l’aumento del denominatore, del rapporto debito/PIL nel lungo periodo.