Come rendere realmente indipendenti e quindi possibilmente più veritiere le agenzie di rating che finora hanno sbagliato buona parte delle loro valutazioni e alimentato la speculazione? Una soluzione è semplice ma decisiva: spezzare il legame economico che li lega ai loro committenti e fare in modo che siano pagate non più da chi devono giudicare, cioè dalle corporations, ma da un’agenzia pubblica in base a criteri completamente neutrali. In Europa un’agenzia pubblica indipendente potrebbe estrarre a sorte le società di rating assegnate ai vari clienti, pagarle di tasca propria, e nominarle solo a rotazione presso i clienti e per periodi di tempo limitati (magari tre anni). In questo modo si romperebbe la relazione incestuosa e maleodorante tra controllore e controllato. Inoltre l’agenzia pubblica dovrebbe controllare e certificare il lavoro svolto dalle società di rating per orientare al meglio il mercato e tutelare così il risparmio.
Le agenzie di rating – che valutano l’affidabilità delle aziende, degli enti, degli stati e dei loro titoli, e che valutano se i loro clienti sono in grado di ripagare o meno i loro debiti – sono criticate per moltissimi motivi: perché in generale danno giudizi quasi sempre positivi alle aziende private (anche quelle che magari sono presto destinate al fallimento) mentre quasi sempre condannano gli stati e i titoli pubblici; perché costituiscono un monopolio mondiale – le prime tre, Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch, controllano circa il 95% del mercato-. Perché sono in prevalenza americane e sono considerate la “longa manus” della speculazione anglosassone; perché guadagnano profitti enormi (generalmente hanno un margine superiore al 50%); perché hanno clamorosamente sbagliato assegnando valori massimi di affidabilità a titoli spazzatura o addirittura tossici – come nel caso dei derivati dei subprime -. Perché hanno dato il voto massimo (tripla A) a Lehman Brothers pochi giorni prima che la banca d’affari fallisse trascinando quasi tutto il mondo nella sua crisi; perché invece continuano ad abbassare il rating degli stati che cercano di rimettere i loro conti a posto, mettendoli sempre più a rischio, fino a condurli quasi al fallimento, come nelle profezie che si autoavverano.
La critica maggiore e più eclatante riguarda però il rapporto incestuoso con i loro clienti: infatti le agenzie sono notoriamente pagate da chi giudicano, cioè dai venditori di titoli e non dai compratori. Il conflitto di interessi è tanto più clamoroso e negativo considerando che 1) spesso le agenzie suggeriscono ai loro clienti come emettere i titoli in modo da ottenere (da loro stesse…..) il rating più alto 2) le agenzie fanno capo a società finanziarie private. Capital World Investors, una delle più grandi società di gestione del risparmio negli Stati Uniti, ha una quota di poco superiore al 12% sia in Standard & Poor’s che in Moody’s. E Moody’s ha tra i primi soci di riferimento la Berkshire Hathaway, che a sua volta è in mano a Warren Buffet, il notissimo speculatore ottantenne tra i primissimi nella lista degli uomini più ricchi del mondo. Quindi le agenzie fanno capo a società finanziarie e speculative. Il conflitto di interesse è stupefacente!
Il problema più drammatico consiste nel fatto che le agenzie di rating hanno un ruolo preponderante nel sistema finanziario globale e svolgono un’attività a cui le maggiori autorità di controllo attribuiscono un valore semi-legale: infatti determinate tipologie di investitori devono per legge o per statuto “obbedire” ai rating delle agenzie e pilotare in questo modo i loro investimenti. Per esempio, un fondo pensione non può investire se non in titoli che abbiano affidabilità e rating elevati, per non mettere a rischio i fondi degli associati. Se allora un’agenzia “condanna” la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna e l’Italia, automaticamente il fondo pensioni deve disinvestire i titoli che ha in portafoglio di quei paesi. La stessa Banca Centrale Europea accetta titoli di stato come collaterale ai prestiti alle banche europee sulla base dei giudizi …. delle società di rating. Così, a causa del fatto che le autorità regolamentari della finanza globale hanno delegato alle agenzie di rating il potere di guidare gli investimenti, le profezie si autoavverano. E gli speculatori possono facilmente scommettere sul fallimento di uno stato contando sul giudizio delle controverse agenzie. Quindi ha ragione chi, come recentemente Vincenzo Comito, suggerisce di togliere ai rating delle società private il valore ufficiale che purtroppo le stesse autorità di regolamentazione hanno concesso loro.
Inoltre molti economisti insistono perché anche l’Unione Europea abbia una sua agenzia pubblica. A mio parere questa agenzia pubblica non dovrebbe semplicemente affiancarsi a quelle americane già esistenti, cercando magari di essere più imparziale e affidabile. Del resto un’agenzia europea (anche se privata) esiste già: Fitch è infatti controllata dalla holding francese Financie’re Marc de Lacharrie’re, che fa capo al finanziere d’oltralpe Marc Eugene Charles Ladreit de Lacharrie’re. Ma Fitch non si distingue molto dalle due più grandi sorelle americane.
Occorre perciò sottolineare con forza che l’attività di rating deve difendere il risparmio del pubblico e che quindi deve diventare una funzione eminentemente pubblica. Quale potrebbe essere allora la soluzione? Nel mio saggio “Il bene di tutti. L’economia della condivisione per uscire dalla crisi”[1] suggerisco che le aziende, e in generale tutti gli enti che desiderano emettere titoli e chiedono la valutazione da un’agenzia di rating, debbano pagare obbligatoriamente una quota all’agenzia pubblica europea – una quota rapportata per esempio al loro fatturato e/o al valore dei titoli che intende emettere -. Questa poi assegnerebbe alle agenzie di rating il lavoro di valutazione sui titoli e, alla fine del loro lavoro, giudicherebbe la congruità dei rating in base a criteri predefiniti, trasparenti e quanto più possibile oggettivi. Il rating avrebbe un valore ufficiale solo se confermato dall’agenzia pubblica indipendente, mentre il giudizio privato e di parte non avrebbe più alcun valore formale.
In conclusione: innanzitutto le società di rating non sarebbero più pagate dalle aziende ma dall’agenzia pubblica europea e così l’incesto cesserebbe. Inoltre l’agenzia pubblica avrebbe la possibilità (e il dovere) di controllare in maniera trasparente i giudizi emessi dai professionisti delle tre grandi società di rating. Le quali a turno si avvicenderebbero presso il medesimo cliente dopo un periodo di tempo abbastanza limitato – per esempio ogni 3 anni – in maniera tale da recidere davvero per sempre i legami pericolosi tra controllore e controllato. E gli operatori di mercato avrebbero finalmente una bussola ufficiale, quella dell’agenzia pubblica indipendente, per pilotare i loro investimenti.
Questa proposta rappresenta una riforma di buon senso, semplice da pensare ma difficile da attuare. Costituisce un modo (apparentemente) semplice ma efficace per tagliare le unghie alla speculazione e difendere i risparmi. Il problema è che il potere delle società di rating è straripante. Ma all’Europa conviene muoversi in questa direzione per difendere l’euro. Tra l’altro questa riforma aprirebbe la strada alla riforma di un altro settore analogo, dove cioè le “relazioni pericolose” con i clienti contano moltissimo, quello della certificazione dei bilanci.
*Giornalista economico e saggista
[1]“Il bene di tutti. L’economia della condivisione per uscire dalla crisi”, Editori Riuniti, 2011.