Il 1° luglio del 2009 comparve sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana il decreto legge n. 78/2009. L’articolo 12 di quel provvedimento anticrisi si richiamava espressamente “alle intese già raggiunte in seno all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico in materia di emersione di attività economiche e finanziarie detenute in Paesi aventi regimi fiscali privilegiati, allo scopo di migliorare l’attuale insoddisfacente livello di trasparenza fiscale e di scambio di informazioni, nonché di incrementare la cooperazione amministrativa tra Stati”. In una parola, preannunciava che sul fronte del fisco, da allora in poi, cambiava la musica e nessuno si sarebbe potuto più nascondere!
Bastò scorrere il provvedimento anticrisi per avvedersi di un altro articolo, che, sempre in nome della lotta alla crisi, seguiva una logica significativamente diversa. Era l’articolo 13 bis.
Desta impressione rilevare come questa norma introdusse uno scudo ad immagine dei furbi: anonimato, segretezza, quasi nessun pericolo di essere controllati, estrema benevolenza nel sacrificio di modeste porzioni delle risorse di cui dispongono.
Per sanare la propria posizione nell’arco temporale che andava dal 15 settembre 2009 al 30 aprile 2010, il contribuente infedele ai doveri dichiarativi previsti dalla disciplina sul monitoraggio fiscale ha versato un’imposta straordinaria pari al 5%, innalzata poi al 6% ed al 7%, sul valore delle attività finanziarie e patrimoniali detenute all’estero a partire da una data non successiva al 31 dicembre 2008. Per oltre sette mesi, il Paese è stato interessato da una poderosa pratica di legalizzazione di disponibilità economiche detenute all’estero da soggetti residenti in Italia in violazione della disciplina sul monitoraggio fiscale. Sono state “scudate”, in tal modo, attività (finanziarie, immobiliari ed altri investimenti) per un valore di 104,5 miliardi di euro, in esito alla presentazione di 206.608 dichiarazioni riservate. Vi è qualcosa di buffo nel nome del modello approvato per consentire l’operazione: “dichiarazione riservata delle attività emerse”. Ciò che è “riservato”, infatti, non dovrebbe potersi considerare “emerso” e viceversa. Ma tant’è, proprio tale contenuto ossimòrico appare rilevatore di questioni irrisolte.
Le disposizioni sullo “scudo fiscale” si rivolgevano alle persone fisiche ed agli altri soggetti fiscalmente residenti nel territorio dello Stato che, anteriormente al 31 dicembre 2008, avevano esportato o detenuto all’estero capitali e attività in violazione dei vincoli valutari e degli obblighi tributari sanciti dalle disposizioni sul cosiddetto “monitoraggio fiscale”, nonché degli obblighi di dichiarazione dei redditi imponibili di fonte estera. L’“emersione” delle attività detenute all’estero poteva essere effettuata attraverso il rimpatrio oppure la regolarizzazione.
Il rimpatrio poteva essere eseguito per le attività detenute all’estero, in un qualsiasi Paese europeo ovvero extraeuropeo, e consisteva nel conferire ad un soggetto intermediario l’incarico di ricevere in custodia, deposito, amministrazione o gestione le attività medesime. In alternativa al rimpatrio, il contribuente “distrattosi per qualche tempo dai doveri tributari” poteva avvalersi della regolarizzazione delle attività che – in coerenza con i principi di diritto comunitario – intendeva comunque mantenere all’estero pur dopo la legalizzazione. Ma tale più comoda regolarizzazione (che risulta tuttavia la forma di scudo meno gradita perché più onerosa in termini documentali e più rischiosa in termini di eventuali controlli) era possibile solo se le attività erano detenute in un Paese estero appartenente alla Unione Europea oppure aderente all’accordo sullo Spazio Economico Europeo che garantisse un “effettivo” scambio di informazioni fiscali in via amministrativa.
Per l’esecuzione delle operazioni di rimpatrio o di regolarizzazione, era necessario avvalersi dell’intervento di particolari soggetti intermediari (ad esempio, banche, poste, SIM, SGR, agenti di cambio, società fiduciarie), ai quali doveva essere presentata un’apposita dichiarazione riservata e che si premuravano di operare il versamento dell’imposta straordinaria comunicando all’amministrazione finanziaria l’ammontare complessivo delle attività rimpatriate e le somme versate, senza indicare il nominativo del soggetto che aveva presentato la dichiarazione. Lo Stato, così , ha incassato 5,6 miliardi di euro senza vedere in volto i contribuenti “redenti”.
Dei complessivi 104,5 miliardi di euro “emersi”, per ben 102 miliardi (ossia il 97,6%) si è trattato di attività rimpatriate, mentre il valore delle attività regolarizzate da paesi fiscalmente collaborativi ammonta a soli 2,5 miliardi (ossia il 2,4%)[1].
Esposto in questi termini, il dato ministeriale parrebbe evocare un portentoso rientro fisico in Italia di attività (già) estere, ammontante ad oltre 100 miliardi.
La relazione ministeriale (p. 19 nota n. 1) chiarisce che le operazioni di rimpatrio sono state effettuate con due differenti modalità: “rimpatrio fisico”, attraverso il conferimento dell’incarico da parte del contribuente alla custodia, deposito, amministrazione o gestione delle attività finanziarie presso un intermediario abilitato residente, una volta che dette attività sono state trasferite in Italia; “rimpatrio giuridico”, che prevede il conferimento dell’incarico appena descritto, senza necessità di procedere al materiale trasferimento della attività nel territorio dello Stato italiano. Il ché ha importato che il “rimpatrio giuridico” abbia operato anche rispetto ad attività detenute in Paesi che non collaboravano (e non collaborano) in termini amministrativi con il nostro, non accettando di scambiare informazioni fiscali secondo i termini, gli standard ed i criteri OCSE: anzitutto Svizzera, San Marino e Principato di Monaco. Rispetto all’importo complessivo delle attività rimpatriate (102 miliardi), il 50,3% ha avuto riguardo a 46.478 operazioni di “rimpatrio giuridico” per un valore assoluto di 51,362 miliardi.
Al soggetto che si è valso delle facoltà concesse dal provvedimento è stata assicurata un’ampia riservatezza[2], prolungata anche nel tempo, delle notizie comunicate agli intermediari relativi alle attività oggetto di emersione. Esse sono coperte per legge da un elevato grado di segretezza, essendo preclusa espressamente la possibilità per l’amministrazione finanziaria di venirne a conoscenza, ad eccezione dei casi in cui sia lo stesso contribuente a fornirle nel proprio interesse. Informazioni segrete, conti segretati e non comunicati, dichiarazioni non più dovute per le pregresse detenzioni sanate. Non risulta che altri Stati, tra quelli che in passato hanno varato misure analoghe (si pensi alla Francia, Regno Unito e Stati Uniti), abbiano garantito ai loro contribuenti distratti (o evasori) un anonimato tanto esteso e condizioni di regolarizzazione similmente convenienti. Per sanare le irregolarità, beneficiare della decadenza delle conseguenze penali e di uno sconto sulle altre sanzioni, altrove era stato sempre richiesto, almeno alla fine (come in Francia), di dichiarare la propria identità, l’ammontare dell’evasione e dell’infrazione, di spiegarne il meccanismo di accumulazione e di pagare le tasse arretrate con gli interessi. Ma in Italia le cose sono andate molto differentemente.
L’emersione delle predette attività produceva effetti estintivi delle sanzioni amministrative, tributarie e previdenziali nonché di quelle collegate alle violazioni valutarie, relativamente alle disponibilità degli importi dichiarati. Un bengodi, che nascondeva una realtà. Lo Stato aveva bisogno di risorse e non aveva la forza di recuperarle da chi gliele aveva sottratte. La questione è se sia stato stimato davvero quanto finirà per costare questa operazione.
Con il perfezionamento dello scudo (ove avvenuto prima dell’esercizio dell’azione penale e della sua conoscenza da parte del contribuente) restava esclusa ad ogni effetto la punibilità per molti reati tributarie per molti reati contro la fede pubblica e societari[3], quando commessi per eseguire od occultare i predetti reati tributari, ovvero per conseguirne il profitto e riferiti alla stessa pendenza o situazione tributaria.
Con l’emersione, infine, restava precluso nei confronti del dichiarante e dei soggetti solidalmente obbligati ogni accertamento tributario e contributivo per i periodi d’imposta che avevano termine al 31 dicembre 2008, “limitatamente agli imponibili rappresentati dalle somme o altre attività costituite all’estero e oggetto di rimpatrio o regolarizzazione”.
E’ stato qualcosa di più di un condono, alla prova dei fatti un’immunità soggettiva talmente estesa da essersi trasformata in una condizione di intangibilità, non limitata al passato, ma estesa anche al futuro, da segnalare in maniera quasi beffarda, se ritenuto opportuno ed al momento propizio, al dipendente pubblico intento a cercare un maggior imponibile o a procurarne la riscossione. Insomma un “perdono senza confessione”[4].
Quasi 180 mila connazionali hanno beneficiato dei servizi e del contributo attivo offerto per tali operazioni da intermediari, rassicurati nei loro doveri e nelle loro facoltà di discrezione. In media essi hanno legalizzato con ciascuna operazione attività per circa 400.000 euro. Ben 105.792 soggetti residenti in Italia hanno perfezionato richieste di rimpatrio e di regolarizzazione dalla Svizzera; 19.967 da San Marino, 11.107 dal Principato di Monaco, almeno 508 da Singapore, almeno 391 dalle Bahamas.
Si dirà, certo, che le banche (e gli altri intermediari abilitati) hanno esercitato un diritto riconosciuto dalla legge sullo scudo e, entro certo limiti, adempiuto ad un dovere contrattuale con il loro cliente. Ma così si dirà quello che nessuno vuol dire. Che una legge dello Stato ha legittimato operazioni che (in termini oggettivi) possono concretare riciclaggio di beni di provenienza delittuosa.
L’inquinamento dell’azione di contrasto è avvenuto, anzitutto, complicando gravemente, se non paralizzando, l’ordinato funzionamento del sistema antiriciclaggio, con esoneri dall’obbligo di segnalazione ex a. 41 d.lgs. n. 231/2007 costruiti su presupposti in fatto del tutto generici, alla prova dei fatti, arbitrari e non controllabili. Quale intermediario coinvolto nelle procedure di legalizzazione può dire in piena coscienza che le attività legalizzate corrispondevano solamente a proventi di illeciti fiscali ed eventualmente proprio quelli rientranti nel campo di operatività della causa di non punibilità penale connessa al perfezionamento dell’operazione di scudo? E, al tempo stesso, chi può escludere che l’intermediario, magari per pigrizia e non urtare la suscettibilità del cliente non abbia fatto domande o non abbia creduto alle corrispondenti dichiarazioni di quest’ultimo?
In nome delle imprescindibili esigenze di cassa pubblica, è stata interrotta e recisa, di fatto, ogni comunicazione, vitale su questi temi, tra soggetti preposti alle verifiche amministrative e Procure della Repubblica, persuadendo nella più parte dei casi i primi a non approfondire e segnalare casi apparentemente coperti dallo scudo opposti in sede di accessi, ispezioni, verifiche o constatazioni.
Quasi tutti i meccanismi di innesco e di salvaguardia contro il rischio di abuso delle facoltà riconosciute dal provvedimento sono stati depotenziati. A fronte di una massa di 104,5 miliardi e di 206.608 operazioni, al 30.9.2010 (ossia dopo cinque mesi dalla chiusura dello scudo) le segnalazioni di operazioni sospette pervenute all’UIF avevano raggiunto la davvero esigua cifra di 484 unità, tramutatesi, all’esito del meccanismo di analisi previsto dalla normativa antiriciclaggio, in un minuscolo numero in notizie di reato poste all’attenzione delle diverse Procure della Repubblica. Se si considera che per quasi 4 miliardi corrispondevano a contante restato in paesi fiscalmente non equivalenti, prima di allora non custodito neppure presso gli intermediari abilitati di questi paesi, si può ben apprezzare il giudizio di insoddisfazione espresso.
Tutti coloro che avevano esportato o detenuto all’estero capitali e altre attività in violazione dei vincoli dichiarativi valutari e degli obblighi tributari e non erano stati ancora interessati da accessi, ispezioni e verifiche o altre attività di accertamenti fiscali, si sono “messi a posto” senza alcun apparente dovere di spiegare il meccanismo di evasione.
Quanto detto è particolarmente vero per la peculiare forma di legalizzazione definita “rimpatrio giuridico”, con la quale il rientro delle disponibilità finanziarie o patrimoniali è stato di natura virtuale e non fisico. L’amministrazione finanziaria ha accettato il “rimpatrio giuridico” anche per le attività finanziarie in sé agevolmente liquidabili e trasferibili fisicamente, pure ove detenute nei paesi fiscalmente non collaborativi. Questa conferma si può avere (solo a partire) dal documento concernente i dati statistici relativi alle operazioni di regolarizzazione delle attività finanziarie e patrimoniali detenute all’estero presentato al Parlamento dal Ministro dell’Economia in data 18.6.2010 e non compare nella Circolare 43/E/2009 che pure si occupava di offrire le indicazioni agli uffici per organizzare lo scudo.
Il successo di tale forma di legalizzazione, venuta espandendosi silenziosamente (quasi per tacito assenso dell’amministrazione finanziaria prima della finale ed ufficiale consacrazione), desta serie ragioni di preoccupazione, specie se considerato in uno con il rilievo del ricorso generalizzato per esso all’intermediazione delle società fiduciarie non bancarie (connotate da strutture organizzative e di controllo, usualmente, esili), in luogo delle banche, nonché allo scarso utilizzo della più gravosa procedura di regolarizzazione, ammessa solo per i paesi collaborativi che ha portato all’emersione di attività per il limitato importo del 2,4% (ossia circa 2,5 miliardi di euro).
Il rimpatrio giuridico, infatti, ha interessato la porzione maggioritaria della massa di attività complessivamente legalizzate (50,3%), di fatto non liquidata e restata fisicamente presso paesi fiscalmente non collaborativi previa intestazione dei depositi esteri a fiduciarie statiche italiane. Queste hanno intermediato in occasione dello scudo fiscale una cifra davvero enorme, pari a 48,4 miliardi di euro (ossia oltre il 95% del valore delle attività complessivamente legalizzate con il rimpatrio giuridico), cresciute nell’operatività, ma non correlativamente negli assetti organizzativi e di controllo. In concreto, il rimpatrio giuridico ha permesso di trasferire solo nominalmente in Italia le attività estere, costituendole in un sub-deposito presso un intermediario estero, intestato all’intermediario italiano.
C’è di più: nella stragrande maggioranza dei casi, lo scudo fiscale è stato attivato non dalle persone fisiche o soggetti equiparati titolari di redditi di impresa o di lavoro autonomo sottratti agli adempimenti del monitoraggio fiscale, ma dalle persone fisiche che avevano sottratto beni e ricavi alle società commerciali abusando delle corrispondenti relazioni di opera qualificata. Eppure, era noto a tutti che le società di capitali ed i loro rappresentanti, nella relativa veste, non potevano accedere allo scudo fiscale, non essendo tra i soggetti legittimati. Per tale ragione non avrebbero potuto invocare, né a loro favore né a favore dei loro amministratori, gli effetti estintivi e preclusivi connaturati all’emersione, o qualsiasi altra cosa sia stato lo scudo. Anzi, gli amministratori o i soci infedeli che hanno opposto lo scudo fiscale in sede di verifica fiscale, sostenendo esplicitamente che le disponibilità finanziarie patrimoniali originavano dalle rispettive società di capitali e che di esse si erano appropriati attivando animo domino ed in proprio la legalizzazione, vanno considerati, quantomeno in termini di prima approssimazione, soggetti autodenunciatisi di reati patrimoniali (appropriazione indebita) e societari (infedeltà patrimoniale)[5], non coperti dallo scudo, gravando gli uffici finanziari di un dovere di denuncia all’Autorità giudiziaria. E certo dovrebbero attivare (non inibire) doveri di verifica rispetto alla posizione fiscale delle corrispondenti imprese depredate.
Di fatto, in via generale, salvo eccezioni, nulla di tutto questo è avvenuto né sta avvenendo. Gli uffici amministrativi si sono sentiti e si sentono sovente inibiti a porre domande sulla provenienza delle somme al contribuente che aveva opposto lo scudo, alle luce anche delle pronunce giurisprudenziali che contraddicono senza alcun problema alcune indicazioni contenute nelle circolari dell’Agenzia delle Entrate. Si sentono limitati almeno quanto gli intermediari abilitati alle operazioni di scudo, per quanto concerne gli adempimenti di verifica antiriciclaggio su di essi incombenti, che non sempre hanno posto domande per capire se oltre all’illecito fiscale c’era dell’altro. Pochi hanno mostrato di farsi carico di questioni rilevanti e molti hanno finito per accontentarsi della spoglia dichiarazione riservata. E cosa altro avrebbero potuto fare, allo stare della lacunosa normativa primaria?
* L’autore è Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pistoia.