I faraoni fecero erigere le piramidi non perché servissero al popolo, ma perché la propria fama e gloria s’imponessero ai vivi e si tramandassero ai posteri. Per molti millenni esse non ebbero alcuna utilità pubblica, né certo l’ebbero per quelle migliaia di persone che morirono nel costruirle; oggi che anche il turismo è un’industria invece ce l’hanno e gli egiziani le curano e accudiscono come preziose fonti di valuta pregiata.
Adam Smith, padre fondatore della moderna economia politica, non amava particolarmente la spesa pubblica: la tollerava perché si costruissero acquedotti, strade, fortificazioni e in genere quei beni che i capitalisti non erano capaci di offrire non essendo profittevole produrli, ma avrebbe disapprovato come spreco l’uso di risorse pubbliche per la costruzione di piramidi.
Venne poi Keynes e spiegò che, siccome l’accumulazione di capitale poteva essere insufficiente ad assicurare il pieno impiego in una collettività ricca, quest’ultima si sarebbe progressivamente impoverita, salvo che i milionari non si fossero dati a dilapidare ricchezze nella costruzione di regge fastose o piramidi che ne accogliessero le spoglie dopo morti. «Scavare buche nel terreno aumenterà non solo l’occupazione ma il reddito nazionale», scrisse nella Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936), benché contemporaneamente ammonisse che non era ragionevole che una “comunità avvertita” si accontentasse di dipendere da simili sprechi quando avesse capito le forze che governano la domanda effettiva.
Ma dar vita ad una “comunità avvertita” non è affatto semplice. Per gli individui è sommamente razionale essere ignoranti delle cose pubbliche: lo sforzo che si dovrebbe compiere per impadronirsi dei meccanismi che governano l’agire collettivo è troppo elevato in rapporto al beneficio che se ne può trarre, perché al momento di votare l’opinione di chi è informato vale uno, esattamente quanto quella di chi informato non è. Un economista americano di nome Mancur Olson spiegò circa quarant’anni fa che solo in presenza di incentivi individuali – ricchezza, potere, gloria – ciascuno di noi può essere indotto a investire tempo nell’organizzare e nel dirigere un’azione collettiva, si tratti di un partito, di un sindacato o dello Stato stesso.
È per questo che oggi siamo tornati a progettare piramidi come il ponte sullo Stretto di Messina, per il quale il Cipe ha da poco stanziato ben 1,3 miliardi di euro sui 6,1 del costo complessivo. Non serve obiettare che dopo il ponte c’è un binario unico o che Giuseppe Tomasi di Lampedusa avrebbe suggerito di spendere quei soldi per rifare le strade, ancora polverose e piene di buche come quelle percorse dal Principe di Salina nel suo viaggio da Palermo a Donnafugata: il ponte serve principalmente a magnificare ai contemporanei e ai posteri le gesta dei nuovi faraoni che l’hanno progettato (anzi “cantierato”, come dice un orribile neologismo); non serve alla collettività se non come spreco utile a creare un po’ di domanda effettiva e di occupazione precaria nei ruinanti tempi di crisi che ci tocca vivere.
È possibile che costruendo un simile scempio si possa ancora posporre, come diceva ironicamente Keynes, il momento in cui l’abbondanza di capitale interferirà negativamente con l’abbondanza di ricchezza. Certo è che il (relativo) consenso popolare di cui godono questo e consimili progetti parla di un’atavica fame di salario, non di una preferenza per le piramidi. A sinistra qualcuno avrebbe dovuto capirlo prima che fosse troppo tardi.