Che l’occupazione e il lavoro siano la questione centrale che dobbiamo affrontare non è più messo in discussione da nessuno[1]. Nei primi anni dallo scoppio della crisi il tasso di disoccupazione dell’Italia è stato più basso di quello della media europea, ma negli ultimi anni il fenomeno si è drammaticamente aggravato fino a raggiungere, secondo le ultime rilevazioni ISTAT, relative al novembre 2013, un tasso di del 12,7%, superando il dato medio europeo[2].
L’andamento dei tassi di disoccupazione per l’area Euro e le tre maggiori economie europee è mostrato nel grafico 1. Sono riportati nel grafico anche la stima da parte dell’ AMECO del tasso di disoccupazione del 2013 (che risulta per l’Italia leggermente inferiore a quello calcolato dall’Istat) e le proiezioni per il 2014 e il 2015. Come si vede è impressionante l’accelerazione che la crescita del tasso di disoccupazione ha avuto a partire dal 2011.
Il fatto che tutti siano, almeno a parole, consapevoli della gravità del problema non significa affatto che sia altrettanto estesa la determinazione o semplicemente la volontà di affrontarlo.
Dal punto di vista dell’ideologia economica è dominante l’idea che in fondo il problema dell’occupazione sia un problema del mercato. Se le condizioni del mercato sono tali da creare un’alta disoccupazione, c’è poco che la politica possa fare direttamente per risolvere il problema. In questo quadro una parte consistente della disoccupazione è considerata “naturale”[3]. Un’azione diretta del governo, secondo questa opinione, creerebbe ulteriori problemi, aggravando le condizioni del debito pubblico, distorcendo ulteriormente il mercato e via dicendo. Al massimo si può cercare di oliare ulteriormente i meccanismi di mercato, magari rendendo più flessibile il lavoro (nonostante l’indice dell’OCSE segnali già da molto tempo che il mercato del lavoro italiano è notevolmente flessibile in rapporto agli altri paesi europei) o cercando di creare dei deboli incentivi verso l’assunzione di nuovi lavoratori.
Come mostra il grafico 2, la rigidità della legislazione sulla protezione del lavoro a tempo indeterminato, secondo l’indice stimato dall’OECD, è minore, nel 2013, di quella della Francia e della Germania.
Che le politiche proposte come riforme strutturali si siano rivelate spesso controproducenti e comunque del tutto insufficienti non sembra aver scalfito questa certezza. Cosicché si attende una salvifica ripresa della crescita che, nel migliore dei casi dopo qualche anno, incentivi la domanda di lavoro alleviando, ma non risolvendo il problema.
Al contrario, ogni ragionevole idea di politica economica dovrebbe rovesciare l’approccio: la priorità è l’obiettivo della piena occupazione, cui subordinare gli altri obiettivi, compreso quello del contenimento del deficit pubblico. I costi umani, sociali ed anche puramente economici (di minore produzione, insufficiente domanda aggregata e di deterioramento del cosiddetto capitale umano) di un’alta disoccupazione permanente sono del tutto insostenibili. Ottenere una drastica diminuzione del tasso di disoccupazione è indispensabile al fine di rompere il circolo vizioso bassa occupazione-bassa crescita-aumento della disoccupazione.
Tra le possibili misure di politica economica volte all’aumento dell’occupazione ce ne sono due che nel nostro paese sarebbero particolarmente efficaci, ma che sono considerate quasi delle bestemmie. Non a caso negli USA, in cui nessuno ha paura di apparire troppo statalista o post-comunista, se ne parla invece approfonditamente[4]. La prima è quella di una assunzione diretta di lavoratori da parte dello stato, per progetti pubblici indifferibili, come il risanamento idrogeologico, la salvaguardia, la conservazione e la fruizione dei beni culturali e altre iniziative urgenti di grande valore sociale. Non mi soffermo su questo aspetto, se non per notare di passaggio che non è vero, al contrario di quanto comunemente si afferma, che in Italia gli impiegati pubblici sono “troppi” in rapporto agli altri paesi. Infatti, secondo le stime dell’OCSE, nel 2011 il nostro impiego pubblico rappresentava il 13,7% della forza-lavoro, minore degli Stati Uniti (14,4%), della media dei paesi OCSE (15,5%), del Regno Unito (18,3%) e della Francia (21,9%)[5].
Ma ciò su cui vorrei attirare l’attenzione è l’orario di lavoro[6]. Poiché l’argomento rischia di riportarci a passati dibattiti sui quali non è il caso di tornare in questa sede, partirò dai dati. Innanzitutto la tendenza di lungo periodo di pressoché tutti i paesi avanzati è la diminuzione dell’orario di lavoro. L’unica eccezione negli ultimi decenni che conosco è rappresentata dalla Svezia. Occorre aggiungere, in effetti, che durante gli anni ‘90 le ore lavorate in un anno in media da una persona sono aumentate anche negli Stati Uniti, il che ha indotto qualche commentatore ad affermare che la tendenza secolare alla diminuzione dell’orario di lavoro si era interrotta. Tuttavia la conclusione è prematura e negli anni 2000 anche negli Stati Uniti questa tendenza è ripresa con decisione.
Il grafico 3, che riporta anche i dati relativi alla Svezia e agli Usa oltre a quelli dell’Unione Europea, della Germania, della Francia e dell’Italia, mostra chiaramente le tendenze sopra accennate e mostra anche come in Italia le ore annue medie lavorate per persona sono molto alte.
Al di là delle tendenze secolari, quest’ultimo dato ci permette di passare al qui ed ora.
La realtà è che se confrontiamo il numero di ore lavorate in un anno in media da un lavoratore italiano con quello degli altri paesi europei, scopriamo subito che il dato dell’Italia è molto più alto. Dai dati dell’AMECO, sito statistico della Commissione Europea si ricava che un lavoratore europeo[7] ha lavorato nel 2013 in media l’89% di ore rispetto ad un lavoratore italiano. Se poi consideriamo la Francia e la Germania i dati sono ancora più netti. Nello stesso anno in Francia le ore annue per lavoratore sono state in media l’84,5% e in Germania il 79% di quelle italiane.
La tabella 1) riporta per il 2013 i dati relativi all’occupazione complessiva (E), le ore lavorate in media annualmente da una persona (h), le ore complessivamente lavorate nell’economia (H), il numero di lavoratori disoccupati (U), il tasso di disoccupazione (%u), il numero di lavoratori dipendenti (DE) e la percentuale dei lavoratori dipendenti sull’occupazione totale (%DE). Come si può notare il numero dei lavoratori dipendenti in Italia è minore in relazione alla occupazione totale che negli altri paesi. Ai nostri fini può essere utile cercare di stimare le ore lavorate in media da un lavoratore dipendente, che sono quelle che effettivamente ci interessano. Infatti, almeno in Europa[8], i lavoratori dipendenti lavorano in media un numero di ore minore rispetto ai lavoratori autonomi. Poiché in Italia il peso del lavoro autonomo è maggiore che negli altri paesi, questo ci porterebbe a sovrastimare la differenza di ore lavorate in media da un lavoratore dipendente italiano rispetto a quelle lavorate negli altri paesi. Supponiamo, almeno come prima approssimazione, che il numero di ore lavorate da un lavoratore dipendente in un anno sia circa il 94% del dato medio[9].
Ricaviamo in questo modo la tabella 2), con le ore lavorate in media da un lavoratore dipendente in un anno (hd) e con le ore totali lavorate dai lavoratori dipendenti (Hd).
Come si vede, il dato italiano delle ore annue lavorate per persona, così corretto, resta ancora molto superiore rispetto a quello degli altri paesi.
Possiamo ora fare il seguente esperimento mentale: immaginiamo che in Italia sia mantenuto lo stesso numero di ore annue complessivamente lavorate in totale, ma che ciascun lavoratore dipendente sia impiegato per un numero di ore annue uguale alla media europea, a quella francese o a quella tedesca. La domanda è: di quanto dovrebbe aumentare l’occupazione per ottenere questo risultato? La risposta è molto sorprendente, come mostrato dalla tabella 3.
Nella tabella 3) DE rappresenta i lavoratori dipendenti potenzialmente occupabili in Italia con un carico annuale di lavoro pari rispettivamente a quello europeo, tedesco e francese. DE è l’incremento in termini assoluti dell’occupazione che si realizzerebbe in queste ipotesi, %DE l’incremento percentuale dell’occupazione e %u il tasso di disoccupazione corrispondente.
In questa semplice simulazione l’occupazione dovrebbe crescere dell’8,84% se un lavoratore italiano dovesse lavorare in media le stesse ore annue di un lavoratore europeo, del 14,12% se dovesse lavorare come un lavoratore francese e addirittura del 19,98% se dovesse lavorare come un tedesco. Nel primo caso il tasso di disoccupazione ufficiale si abbasserebbe drasticamente, nel secondo si annullerebbe e addirittura diverrebbe negativo, nel terzo troverebbero occupazione molti potenziali lavoratori scoraggiati, cioè coloro che sono disposti a lavorare ma non cercano attivamente un lavoro, stimati dall’ISTAT in 3.300.000 unità.
Ovviamente si tratta di un esercizio che non può essere applicato meccanicamente alla realtà[10]. Infatti non si può essere affatto sicuri che se per qualsiasi motivo diminuissero di colpo le ore lavorate in un anno da ciascun lavoratore le imprese sarebbero disposte ad assumere un numero proporzionale di nuovi lavoratori.
Anche con queste cautele, i risultati dell’esperimento mentale sono veramente impressionanti e segnalano che esiste in Italia un margine di manovra amplissimo per stimolare l’occupazione agendo sulle ore lavorate. Ovviamente questa linea di azione dovrebbe accompagnarsi ad una politica economica più complessiva che stimoli la domanda aggregata e, nel medio-lungo periodo, ad una politica industriale che affronti i problemi della nostra struttura produttiva (ad esempio, ma non solo, scarsa domanda di laureati e scarsa spesa in ricerca e sviluppo in confronto agli altri paesi europei). Evidenti ragioni di spazio rendono opportuno, in questa sede, concentrarsi sull’argomento specifico che stiamo affrontando. Si afferma in continuazione che dobbiamo essere più simili agli altri paesi europei e non si vede perché non dobbiamo seguirne l’esempio anche in questo caso. Anche se non si tratta di abbassare le ore lavorate per decreto, si apre un campo vastissimo per andare in questa direzione attraverso accorte e decise misure di politica economica ed incentivi. Due condizioni sono però necessarie: la prima è che non si colga in questo quadro il pretesto per cercare di abbassare ulteriormente i salari[11], la seconda è che sia effettivamente perseguita una politica di sostegno alla domanda aggregata, cui abbiamo già accennato, senza la quale le imprese non sarebbero disposte ad assumere nuovi lavoratori. Queste due condizioni sono collegate tra loro.
Si deve poi notare che proprio in Germania il relativamente basso tasso di disoccupazione (di poco superiore al 5%) è stato ottenuto anche attraverso le politiche di job sharing. Tuttavia occorre notare che i lavoratori part time erano nel 2012, secondo l’OCSE, il 22 per cento dell’occupazione totale in Germania contro il 19% in Italia. La differenza nelle ore lavorate annue in media tra l’Italia e la Germania non è causata solo dalla maggiore incidenza del part time in Germania, ma anche dalle ore effettivamente lavorate dai lavoratori a tempo pieno. Si può però in Italia cercare di generalizzare i contratti di solidarietà, non solo al fine di evitare licenziamenti nei singoli casi di crisi aziendale (contratti di solidarietà difensiva), ma anche al fine di sostenere l’occupazione. In questo senso occorre rivedere e incentivare i contratti di solidarietà espansiva, cioè quelli volti all’assunzione di nuovi lavoratori, che, pur previsti dalla normativa, non hanno praticamente fino ad ora trovato applicazione consistente[12].
Certamente ci sono problemi: proprio in Germania sono aumentati i working poors anche perché si è esteso il numero di lavoratori part time involontari. Anche in questo caso, però, le statistiche sono illuminanti: tra i lavoratori part time quelli involontari, sempre secondo l’OCSE, erano nel 2012 il 15% in Germania e il 47,2% in Italia. Il part time involontario è molto più diffuso in Italia che in Germania. Si tratta quindi di incentivare il part time volontario, certamente non quello involontario. Inoltre il reddito minore, che nel breve periodo i lavoratori otterrebbero dalle imprese, potrebbe essere sostenuto dalle risorse che si liberano in seguito ad una diminuzione dei sussidi alla disoccupazione conseguente alla crescita dell’occupazione. In un periodo più lungo, i salari potrebbero addirittura crescere, per effetto della diminuzione del tasso di disoccupazione e della conseguente crescita della domanda aggregata.
In ogni caso occorre agire con decisione per aggredire la disoccupazione, pensando out of the box e senza ripetere stanche formule inefficaci e questa è una strada che occorre intraprendere se si vogliono ottenere risultati.