Con la scomparsa di Augusto Graziani si spegne, di certo, uno dei più grandi economisti italiani del dopoguerra, il cui approccio teorico ha consentito non solo una visione alternativa dei meccanismi di funzionamento del mercato e del ruolo che la moneta in esso svolge (Graziani 1989 e 2003), ma anche una ricostruzione originale delle vicende dell’economia italiana e della questione meridionale. La rilevanza e la centralità dei problemi del Mezzogiorno sono state sempre presenti in Augusto Graziani sin dagli anni Sessanta quando i suoi contributi, non ancora radicalizzati, erano ospitati dalla rivista Nord e Sud fino al 1973, prima che Francesco Compagna, che Nord e Sud dirigeva, spiegava a Graziani che “una rivista lamalfiana come quella da lui diretta non poteva pubblicare articoli che si discostino dall’indirizzo politico lamalfiano” (Leone 2014).
In quel periodo l’enfasi di Graziani era posta sulla necessità che le politiche congiunturali di stabilizzazione ciclica fossero compatibili con le politiche strutturali di sviluppo: l’esempio più significativo era costituito dalla critica alla politica monetaria recessiva del Governatore della Banca d’Italia Guido Carli che, nel 1963, sancì la fine del tumultuoso e sperequato “miracolo economico” del quinquennio precedente (Graziani 1965, 1966, 1969, 1973a, 1973b).
L’illuminismo riformista del periodo costituì la base di una visione ben più radicale secondo la quale, da allora in poi senza cesure, le modalità di sviluppo (o di mancato sviluppo) del paese modellavano le patologie delle regioni meridionali, proprio poiché le prime non muovevano dalle priorità del Mezzogiorno. E tutto questo si è verificato dal “miracolo economico” degli anni Sessanta sino all’ingresso dell’Italia nell’Unione Monetaria Europea. La visione presenta un’evoluzione consequenziale nel corso dei decenni successivi (Graziani e De Vivo 1972). Lo sviluppo nel dopoguerra dell’economia italiana aveva potuto realizzarsi secondo un modello di crescita trainata dalle esportazioni (Graziani 1969), abbozzato, per il Regno Unito, da Kaldor pochi anni prima (Kaldor 1966) e successivamente formalizzato (Thirlwall 1979 e 1998). L’approccio export-led per l’economia italiana consentiva, parallelamente, di spiegare il superamento del vincolo della bilancia dei pagamenti che altre componenti interne della domanda aggregata autonoma avrebbero patito e, quel che più qui conta, l’originarsi di divergenze cumulative di crescita a favore delle regioni trainate dalla domanda esterna. Il Mezzogiorno era, dunque, segnato da un dualismo non solo territoriale, ma anche produttivo e da una distorsione dei consumi a favore dei beni più voluttuari e, relativamente, meno costosi (Graziani 1963).
In un solo colpo Graziani, nelle sue ricerche al Centro di Specializzazione e Ricerche di Portici, che era nato dal suo intuito e da quello di Manlio Rossi Doria (Bernardi 2012), faceva giustizia delle tesi, come quella di Vera Lutz (Lutz 1958, 1962a e 1962b) e di illustri accademici allora visiting presso la Banca d’Italia (Hildebrand 1965), che attribuivano la persistente arretratezza del meridione alla mancanza di differenziali salariali tra le due macroregioni del paese.
Graziani, in una vastità di omologazione interpretativa dell’economia italiana cui sfuggivano probabilmente anche i soli Federico Caffè e Paolo Sylos Labini, introduceva i temi delle divergenze cumulative tra regioni propri altrove dell’approccio tipico della “causazione cumulativa” (Myrdal 1958, O’Hsara, 2008) di Gunnar Myrdal e Nicholas Kaldor. Nell’approccio di Graziani gli squilibri regionali erano originati dal lato della domanda effettiva, assai più fruttuosamente di quanto poi la New Economic Geography di Krugman avrebbe teorizzato, concentrando la propria attenzione sugli effetti territoriali discorsivi dal lato dell’offerta, ovvero dalle decisioni di localizzazione delle imprese (Krugman 1990 e 1998).
Erano dunque il mercato e la natura delle priorità di politica economica ad approfondire le distanze tra le regioni italiane: una politica monetaria recessiva provvederà, all’inizio degli anni Sessanta a interrompere la crescita tumultuosa e diseguale del paese non consentendo, di fatto, che i benefici si estendessero oltre il “triangolo industriale” di Milano Torino e Genova. E poi, dopo la stagione dell’autunno caldo inauguratasi sul finire di quel decennio e continuata in parte in quello successivo, il mercato, ovvero l’imprenditoria italiana, avvierà un processo di ristrutturazione senza precedenti, fatto di decentramento produttivo, di lenta erosione delle conquiste sindacali, che l’assenza di politica industriale e la blanda propensione alla programmazione non sarà in grado di contrastare (Graziani 1975).
Secondo un opposto schema interpretativo Graziani considerava le modalità di accumulazione dell’economia italiana al contempo causa e effetto di peculiarità alternative al modello della sintesi neo-classica che, anche nel caso italiano, riconduceva gli squilibri (di sottoccupazione) a mere rigidità del mercato del lavoro o dei beni (Graziani, 1981). Epici, in quel periodo, furono i confronti dialettici, suoi e di Giorgio Lunghini, con Franco Modigliani e Luigi Spaventa (Lunghini, 1981); più moderati quelli con Pasquale Saraceno cui lo legava un rispetto intellettuale sincero e profondo e dal quale era considerato un geniale enfant terrible, anche quando Graziani, talora, metteva in discussione l’approccio della Svimez al Mezzogiorno (Graziani 1990).
Del tutto scettico che la risoluzione dell’arretratezza potesse avvenire secondo una progressiva e armonica estensione del mercato e in assenza di politiche economiche adeguate, anche singoli episodi d’investimenti nel Mezzogiorno potevano palesare “effetti perversi”: significativa è l’indagine sugli effetti territoriali dell’insediamento a Pomigliano d’Arco dell’Alfa Romeo, ricerca che rivelava come il saldo netto occupazionale tra nuovi occupati e posti di lavoro persi nei settori poco competitivi alle industrie del Nord era addirittura negativo in ragione della scarsa occupazione indotta dagli investimenti dell’Alfa Romeo e dell’elevata propensione a importare beni di consumo “esterni”, fenomeno, quest’ultimo, che causava l’uscita dal mercato di numerose piccole imprese locali (Graziani e Pugliese 1978).
Un simile approccio era, aldilà dei meriti euristici, significativo di due principi: il primo era che la fragilità produttiva del Mezzogiorno, spesso confinata a quelle che egli definiva le teorie dominanti, deve costituire il parametro di valutazione della bontà di un’iniziativa privata o di un intervento pubblico. Emblematiche sono state le critiche delle modalità fondative dell’Unione Monetaria Europea, della propensione recessiva insita nei criteri di convergenza di Maastricht, nella conduzione della Banca Centrale Europea, nella scarsa propensione “germanica” a far da locomotiva dello sviluppo continentale (Graziani 2002 e 2004), nell’appiattimento di molta dell’accademia italiana a un europeismo acritico.
Il secondo principio, di certo il più rilevante del suo pensiero, era costituito dall’avversione alle sicurezze delle teorie dominanti, al ruolo scomodo dell’intellettuale, alla necessità, forse alla doverosità, di seguire l’angusto e poco sicuro sentiero dell’eterodossia, avversa, essa per definizione, a qualunque retorica che, in nome della moltitudine dei suoi seguaci, eserciti il convincimento (Mc Closkey 1988). Se, oggi, una sparuta schiera di economisti italiani cerca con fatica di sfuggire al “bocconismo” imperante sappiamo di chi è soprattutto merito.
*Professore Ordinario di Politica Economica e Presidente di RESeT Ricerca