Ha ragione il ministro per la coesione territoriale Carlo Trigilia che, nel corso di un convegno su «L’economia reale nel Mezzogiorno» organizzato dalla Fondazione Edison all’Accademia dei Lincei, ha sostenuto che nel Sud «le istituzioni pubbliche locali e regionali, in un contesto di carente cultura civica, non contribuiscono nella misura necessaria a fornire beni e servizi collettivi, ad abbassare i costi di transazione, a creare quindi quelle economie esterne di cui le imprese hanno oggi ancor più bisogno di ieri» e che «in ogni caso l’auspicabile miglioramento dei servizi pubblici fondamentali non produrrebbe automaticamente la crescita di cui c’è bisogno»[1]. In realtà queste tesi il ministro Trigilia le aveva già sostenute più di vent’anni fa in un libro intitolato Sviluppo senza autonomia nel quale lamentava – nel 1992, anno della definitiva chiusura dell’Agenzia per il Mezzogiorno – che «anche se non vanno dimenticate le condizioni di maggiore disuguaglianza e di povertà che sono presenti all’interno del Sud, rispetto all’ottica tradizionale oggi l’accento va messo meno sul livello del reddito meridionale e sul divario persistente con il Centro-Nord e più sul fatto che l’incremento del reddito – che è stato consistente – non si è accompagnato a uno sviluppo autonomo. È la carenza di autonomia il vero problema che dobbiamo affrontare»[2].
Ma che fine ha fatto la questione meridionale negli oltre vent’anni trascorsi dalla fine dell’intervento straordinario?
Nel corso degli anni Novanta scompariva dalle priorità dell’agenda politica, sostituita dalla «questione settentrionale», ‘inventata’ e sostenuta dalla Lega Nord che andava costruendo la propria ascesa al governo nazionale. Nelle istituzioni italiane si andava nel frattempo realizzando un ampio disegno di riforma fondato sulla convinzione – diffusa tra i tecnici prima ancora che tra i politici – che fosse ormai giunto il momento di superare la scelta regionalista dei Costituenti del ‘48 poiché ancora eccessivamente centralistica e di restituire autonomia di entrata e di spesa alle Regioni e agli enti locali.
Iniziato con il nuovo ordinamento delle autonomie locali nel 1990, il processo di riforma strutturale dell’organizzazione dello Stato era continuato con le cosiddette leggi Bassanini sulla Pubblica amministrazione e con la revisione delle norme di finanza pubblica relative ai trasferimenti statali alle Regioni indicato con la locuzione «federalismo fiscale».
Alla fine del processo, la riscrittura completa del Titolo V della Costituzione, nel 2001, avrebbe dovuto dare un nuovo e definitivo assetto ai rapporti tra centro e periferia riorganizzandoli in senso federale.
Parallelamente andava intanto rafforzandosi la convinzione che allo sviluppo economico, del Mezzogiorno e dell’intero Paese, avrebbe pensato il mercato a seguito del più grande piano di privatizzazione di banche, assicurazioni, aziende pubbliche, di beni e servizi collettivi che si sia mai visto nella storia d’Italia.
Quanto agli interventi dall’alto, quelli ispirati alla politica economica keynesiana, ci avrebbe pensato l’Europa con i fondi di Agenda 2000, quelli della programmazione 2000/2006 e 2007/2013.
Proprio mentre si andavano realizzando gli investimenti previsti in “Agenda 2000”, l’impostazione della politica economica italiana nelle aree sottoutilizzate cambiò radicalmente con l’obiettivo primario di rendere le Regioni del cosiddetto Obiettivo 1, poi Obiettivo Convergenza, in pratica le Regioni del Sud, pienamente autonome nella spesa. Questo nuovo approccio assunse il nome di «nuova politica regionale» o «nuova programmazione» e aveva l’ambizioso obiettivo di avviare un miglioramento dell’Amministrazione pubblica e dei servizi collettivi[3]. Lo scopo era quello di far crescere nel Mezzogiorno la qualità e l’efficienza dell’Amministrazione pubblica riempiendo così di significato il ritorno all’autonomia decisionale delle Regioni e degli enti locali che si stava realizzando attraverso le riforme orientate al federalismo.
Dopo tre Agende europee – e tre corrispondenti cicli di finanziamento – gestiti nell’ottica della nuova politica regionale, i Rapporti Svimez 2012 e 2013 hanno definitivamente sancito, a più di vent’anni dalla chiusura dell’Agenzia per il Mezzogiorno e a quindici dall’inizio della «nuova programmazione», l’aumento ormai incolmabile di pressoché tutti i parametri del divario tra il Nord e il Sud della penisola. La Svimez, inoltre, denuncia l’avvio e il consolidamento di un processo di progressivo impoverimento demografico del Mezzogiorno alimentato non solo dalla riduzione delle nascite, non compensata da un corrispondente numero di immigrati, ma anche da nuovi fenomeni migratori dei giovani del Sud.
In realtà, anche Fabrizio Barca, uno dei principali protagonisti della «nuova programmazione», si era chiesto, già prima dello scoppio dell’attuale devastante crisi economica, come fosse possibile che «essendo state ridisegnate, quasi per intero le istituzioni del mercato e dello Stato – le istituzioni fondamentali del capitalismo, alle quali viene concordemente e giustamente imputato di essere fonte della crisi – tale crisi persista»[4].
Il rimedio proposto dal governo Letta e dal ministro Trigilia – ma in realtà già elaborato dal ministro Fitto del governo Berlusconi e sostenuto anche da Barca divenuto, nel frattempo, ministro per la coesione territoriale del governo Monti – è di riportare al centro la responsabilità delle politiche per le aree sottoutilizzate attraverso l’istituzione dell’Agenzia per la coesione territoriale che renda più efficace l’utilizzo dei fondi europei della programmazione 2014/2020. Insomma «Occorre una maggiore capacità di governo nazionale complessivo dei fondi – sono parole del ministro Trigilia –, una strategia che permetta di selezionare pochi obiettivi cruciali sui quali concentrare gli interventi evitando le spinte alla frammentazione in mille rivoli; e occorre anche in questo caso una maggiore capacità di controllo, di sostegno attivo e se necessario di sanzione dei programmi e degli interventi»[5].
Secondo l’art. 10 del decreto n. 101/2013, convertito in legge a fine ottobre, le funzioni relative alla politica di coesione già attribuite al Dipartimento per lo sviluppo e la coesione sono ripartite tra la Presidenza del Consiglio dei ministri e la nuova Agenzia per la coesione territoriale secondo le disposizioni – non sempre facilmente interpretabili – della legge istitutiva.
Si ritiene che la nuova Agenzia sarà pienamente operativa a partire dal prossimo anno e che possa supportare nel modo più efficace le Regioni e gli enti locali nei loro programmi di spesa pur restando ferme le competenze delle amministrazioni titolari di programmi e delle relative autorità di gestione.
Certo è un provvedimento utile quello di riportare al centro la responsabilità del coordinamento della spesa e del supporto agli enti locali nonché del monitoraggio sull’effettivo impiego dei fondi.
Tuttavia non bisogna dimenticare – come ha ricordato di recente Adriano Giannola – che i fondi europei sono una delle massime espressioni di una gestione burocratizzata e che l’Italia continua a essere un contribuente netto dell’Unione europea, versando molto di più di quanto viene investito nel nostro Paese, con l’aggravante che l’Italia finisce per aiutare proprio le regioni periferiche dell’Ue, cioè i principali concorrenti del nostro Mezzogiorno. D’altronde lo stesso Giannola sottolinea come «la logica del meccanismo dei fondi strutturali contraddittoria e penalizzante ex ante almeno nel caso Italia, viene senza motivazione effettiva etichettata “politica della convergenza”»[6].
Carlo Borgomeo sostiene che, dopo il fallimento della «nuova programmazione» seguito a quello dell’intervento straordinario, «la strada da percorrere è quella di una forte, esplicita, dichiarata discontinuità rispetto al passato. Bisogna dire che si è sbagliato nelle politiche per il Sud: che abbiamo sbagliato tutti anche noi meridionali»[7]. Per fare ciò Borgomeo propone, tra l’altro, di rivedere i meccanismi di utilizzo dei fondi europei, invitando i responsabili della politica di coesione a «smontare la macchina, complessa e variegata, collegata alla gestione dei fondi europei: mi riferisco alle amministrazioni, specie regionali, ma anche al reticolo fittissimo di interessi professionali (qualche volta paraprofessionali), collegato alla gestione dei fondi europei: progettazione, monitoraggio, valutazione, assistenza tecnica»[8] confluita in uno «strano terziario» che ha assunto nel Sud notevoli dimensioni.
Insomma a vent’anni dalla fine dell’intervento straordinario si potrebbe estendere, paradossalmente, anche alla «nuova programmazione» una delle considerazioni conclusive della ricerca di Trigilia del 1992 e cioè che nell’interpretare i problemi dello sviluppo del Sud il meridionalismo – anche quello odierno – «ha sistematicamente sottovalutato i fattori interni, in particolare la gestione delle politiche ordinarie da parte della classe politica»[9]. Se vent’anni fa il rimedio proposto era quello del decentramento dei centri di spesa per responsabilizzare le classi dirigenti locali, oggi si pensa a interventi quanto meno correttivi dal centro come l’istituzione dell’Agenzia per la coesione territoriale.
Ma allora che cosa si può fare oggi per affrontare i problemi del Sud?
In primo luogo sarebbe necessario ammettere, come ha fatto peraltro Carlo Trigilia già prima di diventare ministro per la coesione territoriale, che l’illusione secondo cui il federalismo avrebbe risolto la questione meridionale è definitivamente tramontata alla prova dei fatti: «Contrariamente a quanto sostenuto negli ultimi anni, il federalismo – inteso come mera attribuzione di maggiori poteri nelle spese e nelle entrate ai governi decentrati – non è dunque la ricetta per lo sviluppo del Sud»[10].
In secondo luogo andrebbe sgombrato il campo da alcuni pericolosi luoghi comuni sul Mezzogiorno che sembrano riprendere fiato ogni volta che siamo di fronte a una svolta nelle politiche per il Sud. E in particolare quelli secondo cui il Mezzogiorno godrebbe di un eccesso di spesa pubblica o che sarebbe avvantaggiato da un’evasione fiscale diffusa[11]; mentre andrebbero, del pari confutate, come ha fatto ad esempio Gianfranco Viesti[12], le teorie estremiste di coloro che, come Luca Ricolfi, disegnano un Mezzogiorno che vive alle spalle del resto del Paese e che finiscono per sostenere che la ricetta federalista sarebbe stata tradita a spese del Nord[13].
In terzo luogo – sembra che ce ne sia ancora estremo bisogno – va definitivamente sventato il pericolo che si continuino ad utilizzare, anche inconsciamente, a proposito del Sud e dei meridionali stereotipi che sembravano appartenere a un passato lontano e da dimenticare[14].
Tutto ciò ci riporta alle concrete politiche da attuare per il Mezzogiorno anche con gli oltre 100 miliardi di Euro della programmazione 2014/2020.
La costituzione di un’Agenzia per la coesione territoriale va senza dubbio nella giusta direzione anche perché dovrebbe costituire, almeno nelle intenzioni del Governo, una sorta di task force in grado di sbloccare i finanziamenti relativi ai fondi europei e supportare, con un’ampia azione di coordinamento, le politiche di sviluppo che si intenderà perseguire.
Ma è proprio su tali politiche che bisognerebbe tornare a riflettere a fondo, mentre al contrario non sembra si sia aperto alcun serio dibattito sull’argomento e anzi vi è il concreto rischio di fare ulteriori passi indietro[15].
Adriano Giannola e la Svimez propongono da tempo politiche di sviluppo industriale che puntino sui settori dell’energia, della logistica e della rigenerazione urbana, oltre che un provvedimento come l’abolizione dell’Irap nelle regioni meridionali, che lo stesso Giannola ha definito un po’ ‘garibaldino’.
Carlo Borgomeo suggerisce di tornare all’idea di uno sviluppo «autopropulsivo» del Sud, come aveva proposto negli anni Cinquanta Giorgio Ceriani Sebregondi, puntando a supportare iniziative che nascano autonomamente nel Sud e scommettendo su quelle anche del settore terziario che deve cominciare a esser preso sul serio[16].
Carlo Trigilia insiste sulla necessità di puntare su alcune risorse del Mezzogiorno non ancora pienamente utilizzate: «beni culturali e ambientali mediamente superiori a quelli disponibili nel Centro-Nord; una specializzazione agricola di notevole rilievo nel panorama nazionale ed europeo ma da sempre sottovalutata; risorse di conoscenza scientifica non trascurabili negli atenei legate al ruolo dell’università»[17].
Sviluppando le tesi di Augusto Graziani, alcuni economisti meridionali sostengono la necessità di migliorare la qualità della spesa pubblica nel Mezzogiorno e anche di accrescere il volume delle risorse da utilizzare nell’ambito di una rinnovata politica industriale che si proponga di far compiere alle imprese meridionali un salto tecnologico e dimensionale[18].
Al fine di evitare gli errori del passato, sarebbe forse opportuno ricordare le parole di una personalità straordinaria che è stata testimone dell’attuazione delle politiche meridionaliste del secondo dopoguerra accanto a figure come Umberto Zanotti Bianco. Mi riferisco a Giovanni Pugliese Carratelli che, in un prezioso volumetto del 1997, proprio alla vigilia dell’inizio della «nuova programmazione» fortemente voluta dal presidente Ciampi, aveva scritto: «è assai penoso pensare all’effetto benefico, e più profondo e più esteso, che si sarebbe potuto ottenere dedicando alla scuola, alla diffusione della cultura, all’appagamento di fondamentali esigenze della vita civile e alle tradizionali attività agricole e industriali, rispondenti alla natura dei luoghi, quel che si è dilapidato in piani dei quali era facile prevedere il fallimento»[19].
La sensazione che nasce dall’odierna assenza di dibattito sui problemi del Mezzogiorno è quella di una generalizzata impotenza delle forze sociali, politiche ed economiche ad affrontare il problema in modo proficuo, in una prospettiva che faccia sì che il Sud possa agganciarsi all’Europa evitando di scivolare rapidamente nella condizione di area desertificata dal punto di vista delle attività produttive siano esse agricole, industriali o legate al cosiddetto terzo settore.
Eppure nello stato di crisi economica ormai permanente, le forze sane, pur presenti nella società italiana, appaiono tuttora avvilite da un processo di disgregazione sociale che costituisce una costante della storia dell’Italia unita e che è dovuto – anche ma non solo – alla sistematica rimozione della questione meridionale dal panorama politico nazionale. Tutto ciò rende ancora attuali le parole quasi profetiche pronunciate dal Carlo Tullio-Altan alla metà degli anni Ottanta per descrivere la situazione italiana: «In complesso si deve ammettere infatti che lo sviluppo economico è stato duramente pagato in termini di coscienza civile e di progresso morale, con i riflessi negativi che la regressione constatabile in questo campo, la cosiddetta degradazione antropologica intuita da Pasolini, esercita su tutti i settori della vita sociale, quello economico non escluso»[20].