La crisi ha agito da cartina di tornasole delle croniche debolezze dell’economia italiana e delle sue contraddizioni, come conferma la lettura dell’ultimo Rapporto Istat. La più profonda di queste contraddizioni è naturalmente il dualismo Nord-Sud, che esce ancora più esasperato da questi anni di crisi. La fotografia delle due Italie è stata già tante volte scattata: il differenziale nel reddito per cittadino che aumenta, la disoccupazione che sale nel Mezzogiorno molto più che altrove, falciando soprattutto i giovani e le donne, i flussi migratori che segnano nuovi record, lo Stato sociale che si ritrae ben più che al Centro o al Nord. Ma a leggerlo bene, il Rapporto Istat chiarisce che la flessibilità del mercato del lavoro è ormai in linea con quella della Germania[1] e conferma alcune cause del dualismo crescente, in buona misura le stesse di sempre. Il Rapporto mostra, infatti, che l’unica componente della domanda di beni e di servizi che in questi anni ha mantenuto i suoi livelli è quella estera, mentre i consumi delle nostre famiglie, gli investimenti delle imprese e i consumi pubblici sono in caduta libera[2]. A riguardo è utile riportare osservare la figura presentata dal Rapporto Istat:
È per questo che gli imprenditori che producono per i mercati esteri sono riusciti a mantenere i livelli di fatturato – e qualche volta li hanno persino accresciuti – mentre coloro che producono per il mercato interno hanno assistito a un crollo severo delle vendite, e hanno ridotto conseguentemente i livelli di attività. Ma per esportare occorre essere competitivi nel confronto internazionale e questa è una condizione che raramente è alla portata del tessuto produttivo meridionale. L’Italia nel suo insieme sconta, infatti, una rilevante inadeguatezza dell’apparato produttivo, soprattutto sul piano della dimensione delle imprese, delle tecnologie che esse adottano e degli assetti proprietari e gestionali. Basti pensare che l’apparato produttivo italiano è costituito per il 95% da piccolissime imprese (con meno di dieci addetti) che impiegano quasi sempre tecnologie tradizionali e hanno una conduzione familiare. Qui è il nostro Mezzogiorno a fare la parte da leone, mentre le realtà mediamente più grandi e avanzate dal punto di vista tecnologico e gestionale sono nel Centro-Nord. La “mappa dell’efficienza produttiva” elaborata dall’Istat[3] lo conferma con una certa precisione: le microimprese “hanno un livello di efficienza inferiore a quello nazionale” e non a caso le imprese settentrionali risultano ben più efficienti di quelle meridionali[4]. Insomma, l’apparato produttivo del Centro-Nord, con tutti i suoi limiti, è ben più attrezzato di quello meridionale per cogliere quel po’ di traino delle esportazioni che anche in questi anni si è potuto registrare, soprattutto grazie alla spinta dei paesi esterni all’Unione Monetaria (USA in testa) che si sono ben guardati dall’adottare politiche restrittive. Mentre la grandissima maggioranza delle imprese meridionali restava a boccheggiare nell’asfittico mercato interno. Il tutto per tacere della assoluta carenza di infrastrutture materiali e immateriali nel Mezzogiorno, e di una spesa pubblica in ritirata più che altrove. In un quadro di austerity che colpisce soprattutto le realtà più deboli e nel deserto della politica industriale si capisce come mai il prodotto interno lordo per cittadino del Mezzogiorno sia prossimo ai livelli minimi europei e perché ogni anno quasi 90mila abitanti di queste terre decidono di emigrare[5].
[1] A conferma di questo punto si rinvia al saggio di Guido Tortorella Esposito e mio dal titolo “Gli insuccessi nella liberalizzazione del lavoro a termine”, pubblicato da economiaepolitica.it il 13 maggio scorso. [2] L’Istat sottolinea che nel 2013 i consumi finali nazionali e gli investimenti lordi hanno registrato una ulteriore caduta, rispettivamente del 2,2% e del 4,7%. [3] La “mappa” viene analizzata nel secondo capitolo del Rapporto Istat. Si tratta di “una nuova base dati realizzata dall’Istat integrando fonti statistiche e amministrative, che riporta dati economici di base sui 4,4 milioni di imprese dell’industria e dei servizi, consente di stimare un ‘indicatore di efficienza produttiva’ in grado di definire una vera e propria “mappa” del sistema, in base alla quale analizzare le relazioni tra efficienza e ulteriori aspetti della performance delle imprese”. [4] Stando al Rapporto Istat, le regioni nelle quali l’efficienza media delle imprese risulta essere più bassa sarebbero la Calabria e il Molise. [5] Non restano infatti molte alternative se si considera che, come pure rileva l’Istat, nelle “regioni del Mezzogiorno il tasso di occupazione scende al 42,0% a fronte del 64,2% delle regioni settentrionali”.
*Una prima versione di questo articolo è stata pubblicata dal Corriere del Mezzogiorno il 30 maggio 2014.