Credo che la constatazione da cui partire* non possa che essere il manifesto fallimento delle politiche di austerità.[1] Le previsioni negative su crescita, occupazione e peggioramento dei conti pubblici nell’Eurozona sono diventate un bollettino di guerra. Manovre non solo inique, ma inutili abbiamo scritto con Turci più volte nei mesi del passaggio fra Berlusconi e Monti. Devastanti aggiungerei ora, e in una logica senza fine visto che il loro effetto, manifesto, evidente, è quello di peggiorare i conti pubblici. Dire che Monti ha fatto sinora bene, se è comprensibile politicamente, non lo è nella sostanza economica. Monti non ha fatto altro che quello che Berlusconi avrebbe fatto, solo con una faccia più perbenista. E quello che ha fatto è quello che l’Europa di marca tedesca ci ha chiesto. Una valutazione politica va inoltre data sull’operazione Monti: l’austerità ci è stata presentata come la merce di scambio per l’intervento della BCE: noi diamo prova di contrizione, loro faranno intervenire la BCE. Di questo intervento non v’è stata traccia se non, un anno dopo, con la proposta di Draghi delle operazioni di mercato aperto (nel gergo della BCE, Outright Market Transactions, OMT) in cambio di cessione (ulteriore) di sovranità fiscale, su cui entreremo successivamente. Abbiamo dunque accettato quelli che sono solo i prodromi del massacro sociale e produttivo del paese senza nulla, ma proprio nulla, in cambio. E siamo solo agli inizi, il bello deve ancora avvenire, per parafrasare tristemente Obama.
L’”austerità fiscale espansiva” di Monti-Grilli, il gioco che l’austerità avrebbe condotto a minori tassi e alla crescita via guadagni di credibilità, è dunque chiaramente fallito. Mi sembra che tale palese fallimento apra spazi politici di convincimento verso le forze politiche moderate, e sopratutto verso l’opinione pubblica, che qualcosa di veramente diverso sia necessario e urgente.
I ritardi della sinistra
Mi si risponderà che c’era poco da fare, che aver cacciato Berlusconi è già un risultato. Ma perché, domandiamoci, la sinistra italiana è sempre in ritardo, sempre costretta ad accettare le “compatibilità” – un refrain della tradizione comunista come il termine, “austerità” e “sacrifici”, a cui si è sempre accompagnato. Non è che queste compatibilità sono proposte più che subite dalla sinistra? Una storia critica degli anni novanta in cui la sinistra ha guidato il cammino verso l’Euro affidandosi a personaggi che di sinistra non erano (Ciampi, Padoa Schioppa ecc) è ancora da scrivere, ma veniamo ai tempi più recenti.
A me sembra che anche nei frangenti di questa crisi la proposta economica, ad esempio, del PD si sia manifestata sempre con un certo ritardo sia nella interpretazione degli eventi che delle misure che l’Europa prendeva (o non prendeva). Per esempio, in una versione iniziale del “Progetto alternativo per la crescita”, presentata da Bersani il 21 marzo 2012, si sosteneva che l’europeizzazione del debito “avrebbe innanzitutto il vantaggio di liberare la BCE dell’improprio compito di acquistare i titoli del debito pubblico degli Stati più fragili e dal doverli iscrivere nel proprio bilancio”, passo poi scomparso in versioni successive.[2] Altri passi sostenevano: “Riteniamo quindi che – seppure lungo sentieri di rientro più graduali di quelli ipotizzati in sede comunitaria – la necessità di risanamento di bilancio vada considerata come un vincolo ineludibile”.[3] Certamente, il “risanamento” veniva affidato alla crescita, ma tuttavia questo non attenua l’idea di un eccesso di timore per gli squilibri di finanza pubblica (sino ad assecondare improbabili tesi avallate anche dall’alto della Repubblica nell’affermare che il debito italiano era causa della crisi europea, come in articoli su l’Unità che abbiamo criticato, guadagnandoci purtroppo il solo plauso di Giuliano Ferrara). Per mesi la proposta degli “eurobond” è stata successivamente evocata come salvifica senza accompagnarla a quella del necessario intervento della BCE a garanzia dei debiti sovrani (o di un unico debito sovrano) – intervento che renderebbe peraltro la proposta degli eurobond inutile. In taluni casi la proposta di europeizzazione del debito è stata accompagnata a quella di una riduzione progressiva dei debiti via “redemption funds”, sinonimo di austerità (letteralmente di redenzione dal debito). Vincenzo Visco continua a esserne tenace sostenitore. Inadeguato anche il vedere i bicchieri mezzi pieni quando l’UE proponeva i suoi fondi di salvataggio. L’osservazione che a dover emettere titoli per finanziare fondi comunque di dimensione limitata (non i “big bazooka”) erano i medesimi paesi da “salvare” bastava per vedere che il bicchiere era tristemente vuoto. Così come indicazione di un eccessivo ottimismo sono state le speranze sistematicamente riposte sulla sinistra europea, dimenticando che ciascun partito socialista guarda in primis agli interessi veri o presunti del proprio paese. Ciò non significa non prestare attenzione, ma neppure riporre improbabili speranze in cambiamenti “solidaristici” in quelle sedi (peraltro la sinistra italiana non ha brillato per il solidarismo verso la Grecia, accodandosi al distinguo “noi non siano la Grecia”). Insomma, un sistematico ottimismo dei piccoli passi, nel leggere i risultati dei summit europei o riguardo alle sorti della sinistra europea. [Su l’Unità del 9/11/12 leggiamo che nell’incontro Bersani/Martin Schulz si è concordato che “oltre alle politiche di rigore (sic) occorrono strumenti per favorire la crescita, strumenti come la Tobin tax, un’arma utile anche contro il populismo dilagante in Europa”, un “lato della strada”, come dicono gli inglesi, che lasciamo volentieri a Sbilanciamoci, perché inadeguato per chi voglia idoneamente discutere della crisi].
Tralasciamo l’appoggio al “six pact”, “fiscal compact”, pareggio in bilancio e quant’altro. Certo, parte della sinsitra l’ha fatto obtorto collo, ma questa parte ha veramente fatto battaglia con adeguatezza di strumenti e argomenti? A me sembra anche mancare la consapevolezza che ad un certo momento delle scelte più radicali si potranno imporre. Il tirare a campare nell’attesa che l’Europa, istituzionale o socialista, faccia qualcosa – mentre l’unica cosa che veramente impone è una austerità senza fine e la distruzione del paese – non ha più senso. Io credo che al fondo di questo tergiversare – in ritardo peraltro con le più avvertite analisi internazionali – vi siano (dico una ovvietà) limiti politici e culturali. Di questi ultimi spetta a me occuparmi. Credo che ancora dominanti siano nella sinistra visioni economiche in cui la domanda aggregata come motore della crescita è visto come marginale. Questo non significa che, a fronte dell’evidenza dei danni apportati dalla mortificazione della domanda, non si finisca per darle un ruolo. Al solito, è una questione di tempi: ci si arriva sempre dopo. Quanta “supply side” nel citato documento del marzo 2011, per esempio (anche se, dall’altra parte, vi erano pregevoli pagine sull’interpretazione della crisi segno che aperture intellettuali non mancano). Quanta timidezza culturale sulla necessità del coordinamento della politica fiscale e monetaria; sulla critica all’indipendenza delle banche centrali; sulla perdita di sovranità nazionale dovuta alla rinuncia a una Banca Centrale; sul fatto che gli spread non li fa il “rischio paese” ma l’inazione della BCE e quant’altro. Eppure anche per merito della Modern Monetary Theory molti di questi temi sono diventati luogo comune fra gli operatori finanziari e rubacchiati a piene mani da economisti convenzionali come De Grauwe e altri. Se dovessi individuare la fonte analitica di tale timidezza, essa è nel neo-Keynesismo, frontiera massima del Keynesismo da parte degli economisti che sembrano più influenti nel centro-sinistra. Il neo-Keynesismo, erede della Sintesi neoclassica, è sinonimo di validità di Keynes nel breve ma non nel lungo periodo. Ma persino i neo-Keynesiani a là Krugman, De Grauwe e decine altri sono meno timidi. Ma si tratta di spingerci comunque oltre questi economisti, liberandoci dal fardello del Keynesismo neoclassico per abbracciare un Keynesismo finalmente liberato dalle volgarità ed ispiratore di politiche economiche moderne e “unprejudiced”. Solo in questo modo la sinistra si libererebbe della lacerante incertezza fra un debito pubblico visto come un male assoluto e il riconoscere che rigore e crescita sono un ossimoro. Non esiste un lungo periodo in cui il debito è un male e un breve periodo in cui va tollerato. Se si cresce e i tassi sono bassi il debito è semplicemente un non-problema.
Le opzioni in campo
Le proposte in campo sono molte.
Dell’inefficacia dei fondi europei si è già accennato, come dei limiti della europeizzazione del debito se non si mutano adeguatamente gli obiettivi della BCE. Altre proposte che girano – anche in autorevoli ambienti internazionali – riguardano possibili “reprofiling” (consolidamento) del debito pubblico, cioè allungamento delle scadenze a tassi forzatamente più contenuti.[4] Ma sebbene ciò porterebbe sollievo e spazio per un po’ di sostegno alla domanda, pur sempre di una forma di “default” si tratterebbe, per cui l’obbligo del pareggio di bilancio, non potendo più ricorrere ai mercati, diventerebbe obbligatorio.[5] Che una ripresa in queste condizioni (europee, non solo nazionali) sia possibile è dubbio.[6]
L’opzione di cui ora si discute di più è l’OMT. Ma qui bastano le notizie recenti (8/11) a chiarirne la natura: una rigorosa condizionalità fiscale in cambio di un possibile (sic) intervento della BCE (fonte Eurointelligence e Bloomberg)[7] Se la BCE si impegna apertamente a un obiettivo di tassi sufficientemente bassi senza vincoli stringenti di austerità, si sostiene, allora vi sarebbe un incentivo per il moral hazard, i paesi allenterebbero (giustamente) il “risanamento”. Allora nessun impegno aperto (precommittment) e vincoli stringenti. Quindi si scambierebbe cessione di sovranità fiscale e austerità in cambio di nulla di certo, un vero e proprio ricatto non solo per l’assurdità economica, ma condizioni che un paese sovrano dovrebbe denunciare da un punto di vista politico. D’altronde la cessione a Bruxelles della sovranità fiscale è preliminare a ogni concessione tedesca.
Stefano Fassina vorrebbe andare a vedere le carte, e parla di accentramento fiscale accompagnato da impegni espansivi. Ma credo che qui si tratti di riguadagnare le sovranità perdute, non di perderne altre. Come mi ha chiosato Antonella Stirati: “In vari interventi Fassina insiste sulla necessità della Unione fiscale orientata a politiche espansive. A me pare che l’unione fiscale sia pericolosa e anche difficilmente praticabile in tempi brevi. Se c’è consenso a politiche espansive non c’è bisogno, per farle, dell’unione fiscale (che rischia di nuovo di essere un carro davanti ai buoi, come l’unione monetaria, e con gli stessi effetti).” [La vicenda dell’opposizione di Germania e satelliti agli aiuti alle aree terremotate dell’Emilia la dice lunga sulle mani un cui ci metteremmo, e su cosa significa esserci privati di una banca centrale].
Chi volesse chiarirsi le idee si legga un paio di paginette di Nicholas Kaldor (uno dei più grandi economisti non-mainstream della generazione successiva a Keynes) pubblicate da un ottimo blogger (qui). In sostanza Kaldor suggerisce due cose: (a) un’unione monetaria e fiscale incompleta, cioè con il solo accentramento del controllo sul pareggio dei bilanci pubblici, implicherebbe che i cittadini di regioni ricche e regioni più disagiate godrebbero, a parità di pressione fiscale sul Pil regionale, di servizi sociali molto differenti, e questo non è politicamente sostenibile; se le regioni disagiate innalzassero la pressione fiscale per assicurare servizi migliori, perderebbero competitività (già probabilmente mortificata dall’unificazione monetaria); (b) tale unione imperfetta impedirebbe a ciascun paese il perseguimento di politiche di pieno impiego, senza godere di benefici dall’unione. Per questa ragione Kaldor ritiene che quest’unione imperfetta sia destinata alla rottura (siamo nel 1971 e Kaldor scrive a proposito del Piano Werner!). Essa perciò “impedirà lo sviluppo di una unione politica, non la promuoverà”. Il punto politico-economico è di grande limpidezza: ogni via di mezzo in una unione fra paesi è destinata a fallire, e come dice anche Stirati, confondendo ulteriori soluzioni pasticciate per un percorso progressivo verso una unione politica perfetta ci si allontana questo obiettivo. Torneremo più avanti su questo.
L’OMT sembra dunque assomigliare (in peggio) a quanto accaduto con Monti: austerità in cambio di poco e di incerto, un’indignitosa e inutile umiliazione nazionale. Tutto questo non ha senso accettarlo, non ci serve, è forse peggio dell’esistente. C’è poco da trattare. Come diremo più avanti, la condizionalità andrebbe invertita: garanzia illimitata della BCE e una “fiscal rule” espansiva (per tutti i paesi europei), una condizionalità Keynesiana che è l’unica che può (cominciare) a farci uscire dalla crisi.
L’altra misura su cui Monti aveva giubilato dopo il summit di fine giugno, l’unione bancaria con garanzia europea sui depositi, misurata dalle cronache più recenti (7/11/12) non ha avuto esiti, né sul piano di una supervisione europea, né tantomeno nei riguardi della garanzia europea sui depositi[8] (né v’è da aggiungere nei riguardi del sollevare gli stati sovrani dalla garanzia dei prestiti europei concessi alle loro banche, tema assai centrale per spezzare l’abbraccio mortale, in particolare in Spagna, fra banche e Stati entrambi insolventi): nein su tutti i fronti.
Infine, se qualcuno pensasse a una Commissione Europea più avanzata della Germania, basti leggere le dichiarazioni di Olli Rehn (sempre grazie a Eurointelligence)[9] in cui questi afferma, con qualche contorsione mentale, che l’austerità senza fine è dovuta alla mancanza di credibilità e non a moltiplicatori fiscali assai alti (di cui al noto rapporto del FMI ma si veda anche qui). Sul bilancio europeo Van Rompuy ha per ora prodotto poco più che chiacchiere.
In Europa, se qualcuno si era illuso dopo il vertice di fine giugno e le dichiarazioni di Draghi di inizio agosto (“farò di tutto per salvare l’euro e, credetemi, sarà sufficiente”), la situazione è invece, se qualcosa, tornata indietro. Se qualcuno spera che con la crisi che la tocca, la Germania muti indirizzo, si ravveda: i sindacati tedeschi automaticamente azzerano le proprie richieste salariali, mentre il job-sharing garantisce i loro posti di lavoro. La Germania difenderà il proprio mercantilismo sino a tirar giù nell’inferno tutti (ma lei si salverà).[10]
Un’Europa Federale
Fra le opzioni in campo v’è quella che non vale la pena di commentare a lungo dei federalisti, coloro che pensano possibile un salto in avanti verso gli Stati Uniti d’Europa. Si lavori certo anche in questa direzione, se non altro per dimostrare la complessità delle istituzioni di cui una unione monetaria si dovrebbe dotare, in primis un bilancio federale significativo con finalità redistributive e di ri-equilibrio fra regioni. Ma non si evochi il federalismo come una soluzione praticabile nell’oggi.
La spiegazione la si trova nel già citato Kaldor (qui) il quale nel 1971 vedeva con grande limpidezza le problematiche dell’unificazione economia europea e in particolare che ogni soluzione intermedia fra un sistema di cambi flessibili fra le monete europee e una perfetta unione politica è destinata a creare i problemi che oggi viviamo (e che personaggi come Kaldor e poi Godley videro benissimo). Una perfetta unione politica implica uguali diritti sociali, e dunque forti redistribuzioni fra regioni ricche e regioni disagiate, anche a scopi di politica industriale. Proprio la “tax-transfer union” che la Germania vede come la peste. E d’altronde, se voi foste un tedesco? Forse, tuttavia, vie di mezzo sono possibili, e qui avanti proponiamo qualcosa in questa direzione. Ma sono passi che non implicano approfondimenti di fallimentari “unioni imperfette”, quelle che secondo Kaldor ci allontanano e non avvicinano all’unione politica.
Le proposte plausibili
I punti programmatici per uscire dall’impasse che qui propongo – condivisi credo dagli economisti di Oltre l’austerità e fatti propria nel “documento irlandese” pubblicato da il manifesto – sono i seguenti:
1) superamento della separazione fra politica fiscale e monetaria: questo è il minimo di buon senso in tutto il mondo tranne in Europa; l’opposizione tedesca è tremenda perché quella separazione è a fondamento del mercantilismo tedesco.[11] Questa è una prospettiva nazionalistica che non ha senso a livello europeo, è incompatibile con l’Europa. Si faccia come gli Stati Uniti, nulla di rivoluzionario. Se si hanno le idee chiare, questi sono argomenti politici forti: più Obama in Europa.
2) l’intervento della BCE richiede una “fiscal rule” europea, siamo d’accordo; questa deve però essere all’insegna non dell’austerità, di cui ormai solo uno sfacciato atteggiamento menzognero può negare la nefandezza, ma di politiche espansive volte a (ecco la “fiscal rule”) stabilizzare il rapporto debiti pubblici-Pil. Conti sulla carta della trattoria mostrano che con tassi di interesse sufficientemente bassi questo è compatibile con politiche di deficit spending. Possiamo definire questa “condizionalità Keynesiana” o “condizionalità espansiva” ©, J.[12] Senza dimenticare che effetti positivi sul reddito si avrebbero anche con incrementi marginali della spesa pubblica (o sgravi fiscali sui ceti medio-bassi o a sostegno mirato di attività produttive) accompagnati da identici incrementi della pressione fiscale gravando su evasione e grandi patrimoni.
3) Politiche salariali espansive, in primis in Germania, sono essenziali per sostenere la domanda, ridurre le iniquità sociali, riequilibrare gli squilibri nelle partite correnti. Questo implica che la BCE persegua un target di inflazione più elevato, assegnando agli effetti positivi della redistribuzione salariale su domanda e crescita maggiore importanza rispetto ai possibili effetti inflazionistici (peraltro di sollievo ai soggetti pubblici e privati indebitati). [13] Poiché può essere impervio imporre regole salariali alla Germania, crediamo che si debba agire soprattutto sul punto 2 relativamente al rilancio di politiche macroeconomiche espansive; con una banca centrale “tollerante” un aumento dei salari reali non potrà che seguire dalla ripresa dell’occupazione.
4) Poco notato è che le politiche di stabilizzazione di cui al punto 2 sono anche in grado di assicurare la stabilizzazione dei debiti esteri sul PIL: vale a dire con bassi tassi di interesse e la ripresa economica, il rilancio della domanda è possibile anche nei paesi con squilibri di parte corrente senza aggravarli, semplicemente stabilizzandoli. Naturalmente, la stabilizzazione degli squilibri con l’estero richiede anche politiche europee coordinate di rilancio della domanda.
Infine abbiamo anche bisogno di uffici studi europei che effettuino un “fine tuning” delle proposte utilizzando (o ricreando) modelli previsionali basati sulla domanda aggregata. E’ chiaro che tutta la modellistica esistente – Antonella Palumbo l’ha analizzata criticamente – sbaglia le previsioni, e pour cause, è tutta supply side e basata sulla funzione di produzione, ruolo credibilità, equivalenza ricardiana ecc. (ma questo risulta evidentemente utile nella misura in cui produce bugie).
Abbiamo naturalmente bisogno di fare tante altre cose, a livello nazionale ed europeo, in primis politiche industriali che prevedano una presenza pubblica cambiando anche in questo caso la legislazione sulla concorrenza europea (toh, Monti!), la quale è però probabilmente aggirabile in varie forme a un governo che volesse rifare un po’ di IRI (per esempio togliendo la prima “S” a IRISBUS). Si guardi perché Obama ha vinto l’Ohio: il salvataggio pubblico dell’industria dell’auto.
La carta di riserva
Fatto tutto questo, ci rimane da studiare e per vari motivi l’ipotesi di rottura. In primo luogo perché dobbiamo chiarirci come questa possa avvenire coi minori danni possibili tenuto conto di tutte le circostanze prevedibili (noi che usciamo, altri che ci seguano, Germania che esce, ecc). Ciò perché abbiamo bisogno di giocarci questa carta a un tavolo di trattativa europeo. In secondo luogo perché dobbiamo essere in grado di fronteggiare evenienze che non determiniamo noi, e dobbiamo sapere che fare (forse la Banca d’Italia ci ha già pensato, ma di loro, specie con Ignazio Visco che è più “ortodosso” dei predecessori, c’è poco da fidarsi). L’unico elemento che esprimo qui è che l’ipotesi di rottura deve avvenire nell’ambito di un accordo internazionale che salvi l’Unione Europea, consenta una rinegoziazione ragionevole dei debiti, e ci consenta di stabilizzare rapidamente l’economia in un sentiero di crescita.
La politica in fondo
Qual è la possibilità che tale programma, definibile Obama-Bernanke, passi? Beh, intanto ci si deve credere, e questo sarebbe già un bel passo. Poi in sede europea si deve andare con la carta di riserva. L’obiezione è che prima ancora di parlare di tavolo europeo, tali idee trovano resistenza in Italia, a cominciare dall’ala moderata del PD. Io credo che il fallimento dell’austerità sia un argomento che possa cominciare a convincere qualcuno. Forse proprio nell’’ala moderata del PD ci sono le resistenze più forti. Per ragioni storiche che non è questa la sede per analizzare, la sinistra italiana ha infatti subito l’influenza profonda della teoria dominante. Di qui la sua lacerazione, ad esempio, fra un debito pubblico spesso demonizzato e la comprensione (ahimè non da tutti) che austerità e crescita costituiscono un ossimoro. Se non ci libera la mente dai precetti della teoria dominante (quelli che si annidano in ogni angolo della nostra mente) si perde la capacità di analisi economiche e proposte limpide. Qui io trovo una ragione delle difficoltà correnti del PD stretto fra austerità e difficoltà di una proposta alternativa convincente.