La crisi economica in corso è stata acuita dalle fragilità che caratterizzano il sistema istituzionale dell’Unione Monetaria Europea. Le cattive teorie economiche su cui le politiche monetarie e fiscali europee sono disegnate hanno svolto un ruolo rilevante. Tuttavia, nel caso italiano, le criticità risultano accresciute da un sistema produttivo già caratterizzato da profonde difficoltà[1]. Queste sono legate principalmente alla crescente incapacità di sviluppare all’interno del sistema produttivo nazionale le innovazioni tecnologiche necessarie a mantenere una posizione di rilievo sui mercati internazionali. A partire dalla fine degli anni ’80 in poi l’incremento degli investimenti privati si è tradotto, nella maggior parte dei casi, in un incremento delle importazioni dall’estero che non si è accompagnata ad una ripresa delle esportazioni sufficiente ad evitare un incremento del disavanzo commerciale; in queste condizioni di ritardo tecnologico, laddove si potessero realizzare politiche espansive sul lato della domanda, queste non si tradurrebbero automaticamente in opportunità di crescita. In altri termini, l’aumento dei beni strumentali impiegati dalle imprese può costituire un vincolo estero e può innescare un processo di riduzione del reddito nazionale[2]. La quota degli investimenti in macchinari[3] sul PIL è una variabile che continua ad assumere un ruolo importante nella spiegazione dei tassi di crescita. Ma attenzione a proporre un generico aumento degli investimenti! Infatti l’evoluzione qualitativa dei beni di investimento – che si traduce in processi produttivi che necessitano di un minore impiego dei beni strumentali tradizionali – è diventata sempre più importante, è cioè cresciuta la rilevanza del progresso tecnico disembodied[4].
Ogni cambiamento nella composizione dei beni strumentali, indotto ad esempio dall’evoluzione tecnologica, ha conseguenze sui processi produttivi in cui essi sono impiegati, dunque anche sulla composizione dei beni di consumo finali. Immaginiamo di trovarci dinanzi a due sistemi economici, il sistema A e il sistema B, caratterizzati da una bilancia commerciale in pareggio: le importazioni sono uguali alle esportazioni. Se nel sistema B, grazie alla ricerca e sviluppo, vengono diffusi beni strumentali in grado di sostenere una produzione a più bassi costi e in grado al contempo di incidere anche sulla stessa evoluzione dei beni di consumo, vi saranno due conseguenze: i nuovi beni di consumo prodotti in B potrebbero sostituire i beni di consumo che B importava da A. Inoltre i nuovi beni strumentali prodotti in B saranno richiesti dalle imprese impegnate in A per preservare la propria competitività. In assenza di un incremento delle conoscenze sviluppate in A, si verrà così a generare un peggioramento della bilancia commerciale in A e un miglioramento della bilancia commerciale in B. Il vincolo tecnologico assume così le caratteristiche di un vincolo commerciale. In un’area economica che utilizza un’unica moneta e che non prevede meccanismi di riequilibrio fiscale o commerciale, la dinamica appena illustrata risulta incorreggibile.
Nel corso degli ultimi 25 anni (1987-2012) i principali Paesi industrializzati in Europa hanno contratto gli investimenti in rapporto al PIL. A ciò è corrisposta una crescita del rapporto fra la ricerca e sviluppo e il PIL e più in particolare del rapporto fra la ricerca e sviluppo delle imprese (BERD) e il PIL, che indica un progressivo spostamento della specializzazione produttiva su settori innovativi a più elevata intensità di ricerca. Questa importante trasformazione si inquadra nel più generale processo di sviluppo che ha coinvolto le economie più avanzate a partire dal secondo dopoguerra, portando alla ribalta il ruolo della ricerca scientifica e della innovazione tecnologica, prefigurando una nuova divisione internazionale del lavoro basata sulla produzione di beni high-tech.
Cosa ha comportato l’interazione tra progresso tecnico e l’evoluzione della domanda originata dalla crescita dei redditi pro-capite verso beni e servizi a maggior contenuto tecnologico?
Ha delineato i contorni di una dinamica strutturale tendente a sollecitare la redistribuzione della produzione da settori caratterizzati da una domanda in termini relativi in declino, verso altri invece in espansione e caratterizzati dalla presenza di nuovi prodotti. Non tutti i Paesi manifestano gli stessi andamenti, ma il quadro generale è quello di un rafforzamento della spesa in ricerca e sviluppo parallela a una riduzione degli investimenti in macchinari[5]. Solo per fare alcuni esempi, la Finlandia è caratterizzata da una netta riduzione della quota degli investimenti in macchinari sul PIL (circa l’8% nel 1987, di poco inferiore al 4% nel 2011) e da un contestuale netto aumento della quota BERD sul PIL (dall’1% a circa il 3% nello stesso periodo); la Germania mantiene un livello della quota BERD sul PIL di poco inferiore al 2%, che appare sufficiente a garantire una tendenza decrescente del rapporto investimenti in macchinari/PIL (da circa il 7% a circa il 5% nel periodo considerato). Anche la Francia è caratterizzata da una riduzione della variabile investimenti in macchinari/PIL (dal 4,5% nel 1987 a circa il 3,5% nel 2010) e da una costanza della quota BERD/PIL di poco inferiore all’1,5%.
Diversamente dagli altri Paesi, l’Italia manifesta un ristagno della quota BERD/PIL, che resta sempre al di sotto dell’1% e che non tende mai a crescere, accompagnandosi ad una crescita della quota investimenti in macchinari/PIL nel periodo che va dal 1992 sino al 2008.
Nella Figura 1 mettiamo in relazione investimenti in macchinari e la BERD per vedere in quale misura la dinamica dell’investimento è correlata alla dinamica strutturale del sistema produttivo in funzione del grado di specializzazione in settori ad alta intensità di ricerca. Maggiore è il rapporto BERD/investimenti in macchinari, più il processo di accumulazione risulta essere knowledge intensive e viceversa.
Di particolare interesse è la performance della Finlandia con un rapporto BERD/investimenti sempre al di sopra del 10% che è tendenzialmente crescente sino a raggiungere l’80%, diversamente dall’Italia che ha un rapporto stabilmente al di sotto del 10%. All’interno di questi due estremi troviamo tutti gli altri Paesi analizzati, che comunque registrano una crescita del suddetto rapporto, in particolare la Germania e la Spagna.
L’Italia è un caso limite, ma rappresentativo del nuovo paradigma: è il Paese che più di altri ha investito in beni strumentali, ma allo stesso tempo è anche il Paese con la peggiore crescita del PIL.
L’economia italiana si contraddistingue per un rapporto BERD/investimenti assolutamente stagnante, che porta il Paese da un lato a mantenere elevata la quota di beni strumentali necessari alla produzione, dall’altro a far sì che la domanda di beni strumentali sia sempre meno soddisfatta dalla produzione interna, a fronte di una specializzazione produttiva dinamicamente sempre più lontana dalla frontiera tecnologica e perciò insufficiente a mobilitare adeguate competenze tecnologiche[6].
Fig. 1 – Andamento del rapporto BERD/Investimenti in Macchinari (1987-2011)
Fonte: elaborazioni su dati OCSE
Il ruolo del modello di accumulazione e della sua capacità di incorporare i processi di innovazione tecnologica non può prescindere dal livello di sviluppo in cui si colloca un determinato Paese. Infatti, a partire dagli anni ’80, la crescita degli scambi commerciali internazionali risulta essere alimentata in maniera crescente dalle produzioni high-tech (passando da una quota del 15% di fine anni ’80 ad una quota dell’ordine del 30% negli anni ’90[7]), ed è rispetto a queste che si è andata sempre più misurando la capacità competitiva delle economie avanzate. La tenuta della capacità produttiva dei diversi Paesi rispetto al vincolo estero si è andata così definendo in base alla capacità di esportare nei mercati dei prodotti high-tech, tenuto conto che la diffusione dei processi di innovazione ha portato contestualmente anche ad una maggiore domanda di questi beni e ad un aumento delle relative importazioni.
Diversamente da quanto avvenuto nell’ambito dei maggiori paesi industrializzati, a partire dagli anni ’80, e in tempi più recenti in una significativa schiera di Paesi nord europei, in Italia l’aumento dell’intensità tecnologica delle importazioni manifatturiere non ha infatti trovato un adeguato bilanciamento nell’aumento dell’intensità tecnologica delle esportazioni. I deficit commerciali del Paese nelle produzioni high-tech derivano dunque da uno scompenso strutturale tra domanda di tecnologia – coerente con quella degli altri ad industrializzazione avanzata – ed offerta di tecnologia, ed il loro accentuarsi nel lungo periodo non è che un esito del peggioramento di questo scompenso. La dipendenza dei processi innovativi dall’uso di beni strumentali, che sono la componente maggioritaria delle produzioni high-tech, ha naturalmente aggravato tale scompenso.
Considerata la natura particolare della crisi italiana, una richiesta di sostegno indiscriminato agli investimenti risulterebbe controproducente: dato il sentiero di sviluppo su cui si colloca l’Italia, contribuirebbe alla crescita del disavanzo commerciale italiano. Si tratta invece di comprendere la dinamica strutturale del sistema e di riprogrammare la struttura produttiva del Paese. Occorre entrare nel merito di cosa produrre, di come farlo e per chi, sollecitando una modifica della specializzazione produttiva verso settori a più alta intensità di ricerca e sviluppo. Solo la produzione di beni innovativi in grado di indirizzare un cambiamento tecnologico che vada oltre i confini nazionali può ridurre in modo durevole il disavanzo commerciale del Paese[8]. Questo è ciò che si dovrebbe intendere per politica industriale.
* Stefano Lucarelli, Dipartimento di scienze aziendali, economiche e metodi quantitativi, Università di Bergamo; Daniela Palma, ENEA-UTT (Unità Trasferimento Tecnologico); Roberto Romano, Dipartimento contrattazione della CGIL Lombardia con incarichi di studio e ricerca.