Vengono definiti Neet (Not in employment neither in education nor training). Sono giovani di età compresa fra i 15 e i 24 anni, in età lavorativa, inoccupati, non frequentano scuola o università. Nell’ultimo rapporto ISTAT si legge che la disoccupazione giovanile in Italia ha toccato a novembre il picco più alto dell’ultimo decennio, con un’incidenza superiore alla media europea. Si rileva un tasso di disoccupazione tra i giovani del 28,9% con un aumento di 0,9 punti percentuali rispetto a ottobre e del 2,4% nel confronto con l’anno precedente.
Non vi è dubbio che la crisi ha colpito, e sta colpendo, soprattutto le aree periferiche dello sviluppo capitalistico (Mezzogiorno in primo luogo) e, in queste, le fasce sociali più deboli[1]. In tal senso, la crisi viene sempre più assumendo un carattere generazionale, a fronte del quale le risposte del Governo appaiono decisamente discutibili.
Il problema viene imputato al mancato incontro fra domanda e offerta di lavoro, a sua volta ricondotto a un eccesso di aspettative da parte dei giovani rispetto a una domanda di lavoro, proveniente dalle imprese, orientata essenzialmente al lavoro manuale. Il Ministro Meloni ha efficacemente sintetizzato questa teoria con la considerazione che i giovani italiani soffrono di “inattitudine all’umiltà”, aggiungendo che il Piano per il lavoro che il Governo sta mettendo a punto – basato essenzialmente sul potenziamento del finanziamento dell’apprendistato – costituisce il definitivo “superamento del ‘68”. La linea di politica del lavoro che il Ministro Sacconi si appresta a perseguire viene così chiarita: “Se si dicesse a ogni studente che intende iscriversi a giurisprudenza che per gli avvocati il tasso di disoccupazione è al 30%, e chi lavora guadagna 900 euro al mese, mentre per gli infermieri il tasso di disoccupazione è zero, e lo stipendio di 1600 euro, probabilmente inciderebbe sulle scelte”.
La campagna mediatica di delegittimazione dell’Università pubblica ha già posto un tassello importante nella direzione di ciò che si potrebbero definire politiche per la promozione del lavoro manuale[2]: ci è stato detto che molte lauree sono inutili, che le sedi universitarie sono troppe, che i docenti universitari sono baroni e fannulloni, esclusivamente impegnati nel trovare un posto di lavoro per i propri parenti.
La linea Meloni-Sacconi – ridurre la disoccupazione giovanile rendendo meno istruiti i giovani –poggia su una diagnosi sbagliata, per almeno tre considerazioni.
1) Come attestato nell’ultimo rapporto Almalaurea, la condizione occupazionale e retributiva dei laureati resta migliore di quella dei giovani in possesso di titolo di studio inferiore[3]. In particolare, si registra che, nell’arco dell’intera vita, i laureati presentano un tasso di occupazione di oltre 10 punti percentuali maggiore dei diplomati[4]. Dunque, in linea generale, si può affermare che – a maggior ragione in periodi di crisi – gli individui con più alta scolarizzazione sono meno esposti al rischio di licenziamento rispetto ai lavoratori con più bassa istruzione.
2) L’assunto che i NEET siano individui altamente scolarizzati è smentito dall’evidenza empirica disponibile. In particolare, l’ultimo rapporto ISTAT convalida, per contro, l’ipotesi opposta. In Italia, solo 60 individui su mille, nell’età compresa fra i 20 e i 29 anni, sono in possesso di laurea, a fronte dei 77 in e degli oltre 80 nel Regno Unito e in Danimarca[5]. Stando a questa evidenza, i NEET sono tali non perché ‘eccessivamente’ istruiti, ma perché la domanda di lavoro è bassa, indipendentemente dal fatto che si tratti di domanda di lavoro qualificato o meno.
3) La linea Meloni-Sacconi si basa sulla convinzione che la scolarizzazione abbia l’unica funzione di agevolare l’accesso al mercato del lavoro[6], e che occorra calibrarla sulla base della domanda di lavoro espressa dalle imprese. Merita di essere ricordato che la scolarizzazione diffusa produce effetti sociali ed economici benefici in un orizzonte di medio-lungo termine, anche indipendentemente dal fatto che, nel breve periodo, possano esserci eccessi di istruzione. Fra questi: ad elevati livelli di scolarizzazione è, di norma, associata un’elevata mobilità sociale, un’elevata produttività del lavoro, un’elevata dotazione di ‘capitale sociale’[7] (dunque, maggiore propensione al rispetto delle norme, minore incidenza della criminalità, minore offerta di lavoro nell’economia sommersa[8].
In più, la linea del Governo asseconda un modello di sviluppo che non può che accentuare il problema. Di fatto, essa trova la sua ratio nella constatazione che l’economia italiana è sempre più un’economia periferica, nella quale le imprese, non riuscendo a competere innovando, esprimono una domanda di lavoro poco qualificata. In questo assetto, non è sorprendente il fatto che i salari reali medi sono fra i più bassi nell’ambito dei Paesi industrializzati. Stando all’ultimo rapporto OCSE, si rileva che i salari medi in Italia sono collocati al 23esimo posto su una classifica di 30 paesi. Assecondare questo modello di sviluppo significa contribuire a rendere ancor più periferica l’economia italiana, accentuandone il profilo di un’economia la cui competitività si basa sulla compressione dei costi di produzione: salari e diritti dei lavoratori in primo luogo[9]. Ciò dà luogo a una spirale perversa, in larga misura già in atto. La compressione dei salari accentua i differenziali retributivi rispetto alla media dei Paesi industrializzati, incentivando le emigrazioni (in particolare, le emigrazioni intellettuali e degli individui – giovani – con maggiore potenziale produttivo) con conseguente trasferimento di produttività nelle aree centrali dello sviluppo capitalistico[10]. Ciò dà luogo a un maggior tasso di crescita in quelle aree rispetto ai Paesi periferici (Italia inclusa) e, dunque, a un aumento della domanda di lavoro (qualificato) in quelle aree, a fronte di una riduzione della domanda di lavoro (qualificato) nelle aree periferiche[11]. Ciò porta a un ulteriore aumento dei differenziali salariali e a un ulteriore impoverimento delle aree periferiche. Si osservi che questo meccanismo è generato spontaneamente dalle dinamiche del mercato[12], e che dovrebbe essere contrastato con politiche di segno esattamente contrario rispetto a quelle che il Governo persegue. Ovvero: politiche di promozione del ‘salto tecnologico’ delle imprese italiane, mettendole in condizione di esprimere maggiore domanda di lavoro qualificato e di competere innovando. In tal senso, stabilire che “la cultura non si mangia” (almeno in Italia) significa sancire la progressiva marginalizzazione della nostra economia.