No all’austerità fiscale. I pericoli della deflazione e gli argomenti per la finanza funzionale

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Political and social notes

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Che cosa si può fare in poco più di 18 mesi nel mondo alla rovescia della politica internazionale! Nel novembre del 2008, dopo che nel settembre/ottobre del 2008 gran parte dei mercati finanziari internazionali furono salvati dai governi a colpi di miliardi di dollari, i Paesi del G20 si riunirono a Washington non già per discutere della necessità di ricorrere alla spesa pubblica in disavanzo, giacché questo era ormai un fatto compiuto a seguito della crisi iniziale dei subprime del 2007-2008 e del vasto salvataggio messo in atto per evitare che il settore bancario potesse cadere in un abisso finanziario. Piuttosto i leader dei Paesi del G20 si riunirono nel novembre 2008 per discutere di come coordinare una strategia di “stimolo fiscale”, al fine di evitare un profondo collasso della spesa privata che alla fine del 2008 sembrava essere un’inevitabile conseguenza della crisi finanziaria.

Una rapida occhiata alla Figura 1 consente di rilevare un drammatico cambio di rotta della politica di bilancio dei Paesi occidentali dopo il 2007. Invece di perseguire politiche di “sana finanza”, con la quale molti governi provarono a risanare i propri deficit o a perseguire avanzi come si può vedere dopo il 2001, tutti questi paesi si tuffarono in considerevoli deficit di bilancio dopo il 2007 (si veda la parte ombreggiata della Figura 1).

Figura 1: Saldi di bilancio pubblico (effettivi/previsti) in termini percentuali sul PIL, Totali Paesi OCSE, Area Euro, Paesi G7 dal 1991 al 2010 (FONTE OCSE)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Al recente meeting del G20 di Toronto di fine giugno 2010, si è assistito a una completa modifica dell’agenda politica. I leader si sono congedati vittoriosamente dall’ultimo summit dopo essersi accordati praticamente all’unanimità sui punti promossi dal primo ministro, Stephen Harper, e dagli altri falchi anti-deficit, come David Cameron e Angela Merkel ad esempio. In base al documento del G20, questi leader si sono impegnati a portare avanti manovre di bilancio finalizzate a ridurre i propri deficit di almeno il 50 per cento entro il 2013 e a stabilizzare e ad avviare una riduzione dei rapporti debito/PIL entro il 2016, il tutto in nome della stabilizzazione macroeconomica. Sebbene ci sia stato un dibattito sulla tempistica della “strategia di uscita”, sulla questione dell’austerità di bilancio “c’è uno spietato consenso tra le parti”, come ha sottolineato Barack Obama (http://imarketnews.com/node/15595). E’ difficile pensare come l’elite politica internazionale possa “consentire” a deflazionare “spietatamente” l’economia mondiale alla luce delle proteste pacifiche contro l’austerità nelle strade di Toronto. Comunque, quando gli si chiede in che modo l’economia possa essere stabilizzata e ricondotta su di un sentiero di crescita sostenuto e desiderabile, questi leader si richiamano agli effetti positivi della riduzione dell’eccessivo peso del debito pubblico sulla crescita, enfatizzando la necessità di un suo controllo e della sua sostenibilità finanziaria e rimarcando la necessità di puntare al settore privato per promuovere la crescita.

Mentre è tautologicamente vero che i livelli di debito pubblico possono essere stabilizzati e ridotti solo se le entrate incominciano a superare le uscite, non è così ovvio che gli alti livelli di debito pubblico frenano la crescita e che il settore privato si espanderà a seguito dei tagli di spesa e/o di aumenti di tasse. A ben vedere, i fatti a partire dalla settimana successiva al summit del G20 mostrano segnali preoccupanti che si pongono in netto contrasto con ciò che i leader del G20 hanno previsto come risultati delle loro proposte politiche. In effetti, già a partire da quella settimana (successiva al meeting del G20), i prezzi nelle principali borse del Nord America sono scesi rapidamente e le previsioni di crescita sono state riviste al ribasso per diversi paesi, come per la China che punta sulle esportazioni come motore della crescita. Nonostante le recenti raffinate previsioni del FMI, sussistono nei mercati internazionali reali timori per una recessione “double-dip” [una recessione a w], simile a quella del 1937, timori che si rafforzano a seguito delle decisioni prese a Toronto alla fine di giugno. Le aspettative dei mercati circa le prospettive future di crescita non sono state positivamente influenzate dall’accordo del G20. Al contrario, le politiche di austerità concordate in un’economia mondiale che sta lottando per rimanere in piedi potrebbero spingere molti paesi sull’orlo del precipizio, in quanto la contrazione del settore pubblico potrebbe influenzare negativamente la crescita attraverso i noti effetti keynesiani sul moltiplicatore e sull’acceleratore. Questo perché il deficit di bilancio del settore pubblico non è un buco nero finanziario che assorbe credito e risorse diversamente utilizzabili per progetti di investimento privato; ma, al contrario, la spesa in disavanzo genera risparmio nel settore privato attraverso il processo di generazione del reddito.

Quello che i leader del G20 e i loro consiglieri economici non riescono a comprendere è il semplice fatto contabile in base al quale ciò che appare come spesa in un settore (ad esempio, il settore pubblico) è necessariamente un’entrata o reddito per un altro settore (ad esempio, il settore privato) e ciò che appare come spesa netta (o deficit di bilancio) per un settore deve essere inevitabilmente risparmio netto positivo (o surplus finanziario) per un altro settore. Ne segue che, indipendentemente da come sono finanziate, le spese generano reddito, e il risparmio del settore privato altro non è che una contropartita dei deficit del settore pubblico. Ciò significa che la formazione di un surplus netto di bilancio nel settore pubblico va a distruggere reddito netto o risparmio nel settore privato. Possiamo ora riprendere la Figura 1 tracciando anche il risparmio netto del settore privato per tutti i Paesi. Per facilità di esposizione si riportano nella Figura 2 sia i saldi del settore privato sia i saldi del settore pubblico, considerando gli Stati Uniti e aggregando i Paesi dell’Euro zona. La sola ragione per la quale queste due serie non sono letteralmente una lo specchio dell’altra è perché non abbiamo preso in considerazione il saldo di conto corrente che potrebbe fluttuare considerevolmente nel tempo e offuscare notevolmente la relazione simmetrica tra le due serie.

Figura 2: Saldi di bilancio pubblico e privato per l’Euro zona e per gli USA in termini percentuali del PIL, 1991-2010 (FONTE OCSE)

Come possono le prospettive di minori redditi e minori risparmi del settore privato incoraggiare la crescita? Ciò che si può immaginare, se sarà realmente implementata la politica di austerità, è il catastrofico effetto della riduzione della spesa sulla produzione del settore privato, con effetti deflazionistici sui redditi (salari e profitti) e un più basso livello di occupazione. Le politiche necessarie non sono quelle che frenano la crescita ma quelle che la sostengono su basi più stabili. Come è stato rilevato da Keynes: “è l’espansione il momento buono per l’austerità [..], non la recessione” (vedi http://bostonreview.net/BR35.3/kirshner.php). Le politiche associate alle idee keynesiane sono state storicamente definite come politiche di finanza funzionale e con successo sono state implementate durante i primi anni del dopoguerra per ottenere il pieno impiego, prima dell’assalto monetarista. Dagli anni settanta del secolo scorso molte generazioni di giovani economisti hanno avuto poche o nessuna occasione di conoscere le teorie keynesiane e sono state portate a ritenere che non ci fossero alternative alla dottrina neoclassica del “rigore finanziario”, che era già caduta in discredito negli anni trenta del secolo scorso.

E’ per questo che la recente lettera firmata da oltre 200 economisti italiani rappresenta un segnale di reale speranza. In essa si afferma che yes we can, possiamo pensare ad alternative positive all’austerità e al taglio della spesa. Per salvare l’Euro zona dalle sue stesse contraddizioni, occorre perseguire politiche sin qui messe al bando da quella erronea dottrina neoclassica, che gli autori della lettera definiscono “liberista”, e che trova applicazione nell’attuale struttura istituzionale dell’Unione Monetaria Europea. La lettera riconosce correttamente che l’Europa può tornare a crescere attraverso una politica di espansione della domanda trainata dalla spesa pubblica, in particolare dai paesi in surplus dell’UME. Essa si sofferma, inoltre, sulla necessità di un piano di sviluppo finalizzato al pieno impiego attraverso l’investimento pubblico, come lo stesso Keynes argomentava negli anni trenta. Questa tesi, però, si trova in netto contrasto con le politiche imposte in Europa, che determinano una deflazione interna.

Ironicamente, il solo pseudo “attivismo” fiscale nell’UME viene perseguito dalla BCE – una istituzione tecnocratica e i cui responsabili non sono eletti democraticamente -il cui ruolo si è evoluto al punto che essa ora sta acquistando titoli del debito pubblico; ma tali acquisti non vengono effettuati al fine di finanziare gli investimenti pubblici e consentire il raggiungimento di obiettivi di sviluppo bensì esclusivamente per fornire la liquidità necessaria a prevenire l’insolvenza, come avvenuto per la Grecia. Questo è il peggiore degli scenari possibili. In nome del “rigore di bilancio”, l’attuale struttura istituzionale impedisce alle legittime autorità di politica fiscale (quindi ai governi nazionali) di perseguire politiche espansive, vincolate come sono dai parametri del Trattato di Maastricht e dal Patto di Stabilità e Crescita che finiscono per aggravare i problemi di liquidità dei c.d. Paesi GIIPS[1]. Dall’altra parte, la BCE è stata ora obbligata ad assumere il ruolo di un “pompiere” recalcitrante, che estingue i fuochi regionali generati dal corto circuito dovuto allo stesso Trattato istitutivo dell’UME, che ha creato una banca centrale sovranazionale sulla base dei principi neoclassici. L’Europa necessita di ridefinire le sue stesse istituzioni per evitare di affossarsi in uno stato di stagnazione economica permanente, tutto in nome della moneta unica.

 

*Professore di Economia, Università di Ottawa, direttore dell’International Journal of Political Economy

 

[1] Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna.

 

[Traduzione a cura della redazione di Economia e Politica]

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