Uno studio sugli effetti salariali e distributivi della permanenza o dell’uscita dall’euro. Il pericolo di una “grande inflazione” in caso di uscita, evocato da Draghi, non trova riscontri adeguati. Ma anche l’opinione secondo cui gli effetti salariali e distributivi di un abbandono dell’euro non dovrebbero destare preoccupazioni è smentita dalle evidenze empiriche. Se si vuole salvaguardare il lavoro, la critica della moneta unica deve essere accompagnata da una critica del mercato unico europeo.
Negli ultimi cinque anni la Germania ha conseguito una crescita del Pil di quasi tre punti percentuali, a fronte di una caduta superiore ai sette punti in Italia. Si tratta di una divaricazione che non ha precedenti dal secondo dopoguerra. Giovedì scorso, gelando gli ottimisti al governo, Eurostat ha confermato la tendenza: confrontando il Pil del primo trimestre 2014 rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente, si rileva una crescita superiore ai due punti percentuali in Germania e una ulteriore diminuzione di mezzo punto in Italia.[1] Semmai ve ne fosse stato bisogno, siamo di fronte all’ennesima conferma del “monito degli economisti” pubblicato sul Financial Times nel settembre scorso: le politiche di austerity e di flessibilità del lavoro non riescono a ridurre le divergenze tra i paesi membri dell’Eurozona, ma per certi versi tendono persino ad accentuarle.[2]
L’allargamento della forbice macroeconomica tra i paesi dell’euro tiene vivo il dibattito sulla sostenibilità futura dell’Unione monetaria europea e sulle implicazioni di una sua possibile deflagrazione. Ma se un paese abbandonasse l’eurozona quali sarebbero gli effetti sul potere d’acquisto dei salari e sulla distribuzione del reddito tra salari e profitti? Come talvolta accade, anche su questo tema si sono formate due opposte fazioni di ultras. I sostenitori dell’uscita dall’euro senza se e senza ma confidano nella opinione di quei commentatori secondo i quali «l’esperienza storica non presta particolare supporto alle preoccupazioni» riguardanti i salari e la distribuzione dei redditi.[3] Di contro, gli apologeti della permanenza nell’euro a tutti i costi hanno sostenuto che una uscita dalla moneta unica determinerebbe un crollo inesorabile del potere d’acquisto delle retribuzioni, che sarebbe avvalorato dalla previsione di Mario Draghi secondo cui «i paesi che lasciano l’eurozona e svalutano il cambio creano una grande inflazione».[4]
Quale di queste visioni contrapposte trova conferme nei dati? Uno sguardo alle passate crisi valutarie può aiutare a rispondere. In due studi di prossima pubblicazione su Rivista di Politica Economica e su European Journal of Economics and Economic Policy, abbiamo selezionato i casi di crisi valutaria che si sono verificati nell’arco di oltre un trentennio, a partire dal 1980. Dai 28 episodi individuati è emerso un quadro decisamente più complesso rispetto alle semplificazioni delle opposte tifoserie in campo.[5]
In primo luogo, il pericolo di una “grande inflazione” evocato da Draghi non trova riscontri adeguati. Guardando l’intero campione di episodi, il tasso d’inflazione mediano dell’indice dei prezzi al consumo in effetti aumenta di quattordici punti percentuali, passando dal 10,6 percento nell’anno prima della crisi al 24,6 nell’anno della svalutazione. Si tratta di un incremento rilevante. Tuttavia, se si confrontano i valori mediani nei cinque anni prima della crisi con quelli relativi ai cinque anni successivi alla crisi, l’aumento dell’inflazione è più modesto: meno di tre punti, dal 16,0 al 18,9 percento. Ma soprattutto, se si escludono i paesi meno sviluppati dal campione e si concentra l’attenzione sui soli paesi ad alto reddito procapite, la crescita dell’inflazione nell’anno della crisi risulta decisamente più contenuta: poco più di due punti percentuali, dal 4,5 al 6,7 percento. Inoltre, confrontando i cinque anni precedenti alla crisi con i cinque successivi, si scopre che nei paesi ad alto reddito l’inflazione tende addirittura a diminuire, dal 6,4 al 4,1 percento. Dunque, almeno per quanto riguarda l’Italia e i paesi relativamente più ricchi, lo spauracchio più volte evocato secondo cui lasciando l’euro saremmo costretti a far la spesa con una carriola piena di soldi svalutati, non trova conferme nell’evidenza storica.
D’altro canto, gli episodi esaminati rivelano che le uscite da regimi di cambio associate ad aumenti temporanei e relativamente contenuti dell’inflazione, possono comunque indurre cambiamenti rilevanti dei salari reali e della distribuzione dei redditi. Osservando l’intero campione di episodi, abbiamo calcolato che le crisi valutarie sono correlate a una riduzione media del salario reale di 5,0 punti percentuali nell’anno dell’uscita, che viene riassorbita solo dopo cinque anni; inoltre, le crisi risultano correlate a una caduta media della quota salari – cioè della quota di reddito nazionale spettante ai lavoratori subordinati – che non subisce inversioni di rotta e che dopo cinque anni ammonta a 5,5 punti percentuali. Guardando i soli paesi ad alto reddito la situazione non è molto migliore: in media il salario reale cade di 4,0 punti nell’anno dell’uscita dal regime di cambio, anche se dopo cinque anni recupera e supera di 1,7 punti il livello pre-crisi; la quota salari continua a cadere e dopo cinque anni risulta diminuita di 5,2 punti percentuali rispetto al livello pre-crisi. Infine, sia per quanto riguarda il salario reale che la quota salari, dopo l’uscita gli andamenti di queste variabili si collocano su un sentiero nettamente inferiore rispetto a quello precedente all’abbandono dell’area valutaria. Chi ha sostenuto che non ci dovremmo preoccupare troppo degli effetti salariali e distributivi di una eventuale uscita dall’euro farà bene a ridare uno sguardo alle evidenze storiche.
Oltretutto questi sono dati medi. Tra paese e paese la variabilità delle dinamiche può essere anche molto elevata. Ciò significa che la risposta dei salari reali e della quota salari dipende anche dai sistemi di contrattazione e dalle politiche economiche adottate. Se al momento dell’uscita dall’area valutaria un paese lascia sguarnite le retribuzioni, e magari affida la fluttuazione della moneta nazionale alle famigerate “libere forze del mercato”, il rischio è che si assista a una caduta dei salari ancor più accentuata. Per citare due esempi opposti, nel 2002 l’Argentina affrontò l’abbandono della parità con il dollaro con una politica salariale espansiva, che comportò un notevole incremento delle retribuzioni e della quota salari. Al contrario, dopo l’uscita dallo SME del 1992 l’Italia adottò una politica salariale restrittiva che in cinque anni contribuì a una riduzione del salario reale di 3 punti percentuali e a un crollo della quota salari di 6,3 punti. In definitiva, stando alle evidenze disponibili, possiamo affermare che in assenza di opportune politiche di salvaguardia dei lavoratori subordinati, gli effetti salariali e distributivi di una uscita dall’euro potrebbero rivelarsi significativi e duraturi, in misura anche più accentuata rispetto ai dati medi. Questi effetti, peraltro, non sembrano giustificati in termini di efficienza economica: il nostro studio contrasta la tesi ortodossa secondo cui la ripresa del Pil sarebbe tanto maggiore quanto maggiore sia la riduzione dei salari reali causata dalla svalutazione. Se esiste una correlazione tra gli andamenti dei salari reali e del Pil dopo una crisi valutaria, essa al limite ci dice che il Pil aumenta quando i salari reali aumentano, e non viceversa.[6]
La nostra analisi sottolinea però anche un altro aspetto. L’indagine sui costi di un eventuale abbandono della moneta unica dovrebbe sempre essere effettuata in termini comparati, ossia confrontandoli con i costi che già si sostengono all’interno dell’eurozona. Da questo punto di vista occorre tener presente che dal 2009 stiamo assistendo a fenomeni di deflazione salariale che in alcuni paesi periferici dell’Unione hanno già raggiunto dimensioni importanti: in cinque anni i salari reali medi lordi sono diminuiti del 2,2 percento in Italia, del 3,8 in Portogallo, del 3,9 in Irlanda, del 5,4 in Spagna e sono crollati del 22 percento in Grecia; la quota salari è diminuita di appena 0,3 punti percentuali in Italia, ma è caduta di 4,2 punti in Spagna, di 4,4 punti in Portogallo, di 5,7 punti in Irlanda ed è precipitata di 7,7 punti in Grecia.
Queste tendenze non rappresentano solo un riflesso della recessione. Esse sono anche il frutto di una precisa dottrina, che altrove abbiamo definito di “precarietà espansiva”. Secondo questa visione, sarebbe possibile accrescere la competitività e la connessa solvibilità dei paesi periferici dell’Unione a colpi di ulteriore flessibilità del lavoro e conseguenti riduzioni dei salari, nominali e reali.[7] Stando a questa ricetta, l’Italia in un certo senso sarebbe addirittura in ritardo, nel senso che dovrebbe cercare di adeguarsi più rapidamente alle cadute salariali che già si registrano negli altri paesi periferici dell’Unione. Il recente Jobs Act, del resto, trova la sua ragione di fondo non certo nella fantasiosa pretesa di creare direttamente occupazione, ma proprio nel tentativo di adeguarsi alla linea deflazionista prevalente in Europa.[8]
Quali risultati ci si può attendere da questa linea d’azione? Il caso della Grecia ci pare emblematico: nello stesso periodo in cui attuava una spaventosa deflazione salariale, questo paese ha fatto registrare nuove cadute del reddito nazionale e un aumento conseguente dei rapporti tra debito estero e debito pubblico da un lato e reddito dall’altro. Il caso greco, si badi, è estremo ma non rappresenta un’eccezione logica. Come Fisher e Keynes ben sapevano, e come oggi ricorda lo stesso Krugman, la riduzione dei salari non necessariamente corregge gli squilibri ma anzi può accentuarli, e può portare dritti verso una deflazione da debiti.[9] Ciò nonostante, negli indirizzi delle istituzioni e dei governi europei non si intravede il benché minimo ripensamento. Gli interessi prevalenti, in Germania e non solo, sono avversi a qualsiasi inversione di rotta, che sia ad esempio basata su uno “standard retributivo europeo”[10] o che sia pure solo fondata su una generica politica di reflazione. Si insiste pertanto con l’idea perniciosa che la corsa al ribasso dei salari porterà in equilibrio l’Unione. La conseguenza è che gli effetti perversi delle tendenze deflazioniste proseguiranno. Di questo passo, il “monito degli economisti” prevede che la deflagrazione dell’attuale eurozona prima o poi sarà inevitabile.
L’implicazione è chiara: a lungo andare, come è già avvenuto in altri paesi, la reiterazione delle politiche di deflazione salariale potrebbe provocare anche in Italia una caduta dei salari reali e della quota salari persino superiore a quella che potrebbe scaturire dall’abbandono della moneta unica. Ma l’accentuazione della deflazione salariale in un paese grande come l’Italia potrebbe avere effetti ancor più destabilizzanti sulla tenuta complessiva dell’Unione. La conclusione ha un che di ironico: i salari potrebbero subire una doppia decurtazione, in un primo momento dovuta alla deflazione dentro l’eurozona e in un secondo momento dovuta alla svalutazione fuori dall’Unione. Se così davvero andasse, per i lavoratori sarebbe una vera beffa.
In linea di principio non è affatto detto che debba per forza andare in questo modo. Abbiamo già osservato che i paesi che hanno gestito le crisi valutarie tramite politiche di salvaguardia delle retribuzioni hanno fatto registrare dinamiche dei salari e delle quote distributive molto migliori degli altri. Ma al di là degli andamenti salariali si può anche trarre una riflessione più generale. Seguendo Althusser, potremmo dire che la crisi di un’area valutaria costituisce un tipico esempio di crocevia, di “congiuntura” del processo storico che può esser governata secondo modalità alternative tra loro, ognuna delle quali può avere ben diverse ripercussioni sui diversi gruppi sociali in gioco. A tale riguardo, torna utile recuperare le riflessioni di quegli studiosi che, dopo un travagliato percorso intellettuale, giunsero alla conclusione che al fine di salvaguardare i lavoratori le fluttuazioni del cambio dovrebbero esser sostituite da una politica di controllo degli scambi di capitali e di merci.[11] Chi la consideri un’indicazione fuori dal tempo storico farà bene a notare che dal 2008 sono state adottate ben 700 nuove misure protezionistiche a livello mondiale.[12] E’ la riprova delle difficoltà di tenuta dell’attuale modello globale di accumulazione e della sperimentazione in atto di regimi di sviluppo almeno in parte diversi. Con l’eccezione degli eredi della tradizione del movimento operaio novecentesco, di questa tendenza sembrano essersene accorti tutti.
La lezione che possiamo trarre, per l’attuale fase politica, è chiara. Al di là della grancassa mediatica, le divergenze macroeconomiche in atto segnalano che occorre prepararsi a una prospettiva di deflagrazione dell’eurozona. Al tempo stesso, bisogna riconoscere che non vi è molta differenza tra i retori europeisti che propongono di preservare l’eurozona a colpi di deflazione salariale e i gattopardi che esortano ad abbandonare la moneta unica ma non osano mettere minimamente in discussione il mercato unico europeo. Gli uni e gli altri, dopotutto, costituiscono il prodotto di un liberoscambismo manicheo che ha avallato in questi anni una indiscriminata libertà di circolazione internazionale dei capitali e delle merci e che ha già fatto tanti danni. Nel crocevia che stiamo attraversando, la critica del liberoscambismo non dovrebbe esser lasciata in esclusiva alle forze reazionarie. Tale critica può esser declinata in senso progressivo e potrebbe costituire la premessa per una svolta di politica economica favorevole al lavoro.
*Università del Sannio, **Università di Bergamo