Nata nel 1933 a Los Angeles, l’americana Elinor Ostrom dell’Università dell’Indiana è la prima donna ad aver conquistato il premio Nobel per l’Economia [1]. Il riconoscimento le viene assegnato in coabitazione con il connazionale Oliver Williamson, nato a Superior nel 1932 e docente presso l’Università di Berkeley. In apparenza siamo al cospetto di due studiosi molto lontani tra loro. Williamson è un teorico dell’impresa particolarmente innovativo, che tuttavia è rimasto sempre con i piedi ben piantati nel filone tradizionale neoclassico fondato sulla ipotesi di agenti economici egoisti e razionali. Ostrom ha seguito invece un itinerario di ricerca atipico, scandito da pubblicazioni sulla prestigiosa Science e su riviste politologiche più spesso che economiche, e costellato da ricerche empiriche tese a evidenziare quei tipici aspetti “comunitari” del comportamento umano che smaccatamente travalicano gli angusti confini ortodossi dell’homo oeconomicus. Tuttavia, come nota l’Accademia delle scienze di Svezia, entrambi gli studiosi hanno fornito contributi decisivi per «l’analisi delle transazioni economiche che si verificano al di fuori del mercato».
Il principale apporto di Ostrom, al riguardo, consiste in una inedita interpretazione dei meccanismi che governano lo sfruttamento di beni comuni come i laghi, i pascoli, i boschi, e in generale le risorse naturali condivise. Gli studi passati erano dominati da una concezione che va sotto il nome di “tragedia delle proprietà comuni”: per impedire lo sfruttamento indiscriminato e il depauperamento di queste risorse occorrerebbe necessariamente privatizzarle, oppure al limite bisognerebbe sottoporle al controllo del governo. Ostrom contesta questo tipo di conclusioni, ritenendole viziate da una rozza teoria individualista dell’azione umana. In effetti i dati empirici che raccoglie nel corso delle sue ricerche sembrano in varie circostanze darle ragione: soprattutto nelle aree rurali, situate ai margini dello sviluppo capitalistico, può accadere che una gestione comune delle risorse – basata su regole condivise dagli abitanti del luogo e sedimentate nel tempo – risulti più efficiente delle gestioni fondate sulla rigida assegnazione di specifici diritti di proprietà e di controllo a favore dei privati oppure dello Stato. E’ il caso questo dei terreni della Mongolia coltivati in comune, decisamente più produttivi di quelli confinanti della Cina e della Russia, sottoposti a inefficienti sistemi di gestione prima statale e successivamente privata. Ed è anche il caso dei sistemi di irrigazione del Nepal, la cui efficienza sembra esser crollata dopo l’abbandono della gestione in comune da parte degli abitanti, verificatasi a seguito di massicci interventi di ammodernamento da parte del governo in joint venture con alcuni finanziatori esteri. Gli esempi di questo tenore riportati da Ostrom e dai suoi collaboratori sono numerosi. Essi tuttavia non stanno ad indicare che la proprietà comune delle risorse sia sempre preferibile alle gestioni private o statali. Esaminando questi casi la politologa americana ha voluto piuttosto mostrare che in genere la proprietà comune rappresenta l’esito di un plurisecolare processo di evoluzione e di consolidamento di un insieme di regole condivise da una popolazione. Ed è proprio questa lentissima sedimentazione delle norme e delle procedure che sembra garantirne la corretta applicazione e quindi il successo. Alcuni economisti hanno in questo senso provato a interpretare teoricamente i risultati empirici di Ostrom nei termini di quello che viene in gergo definito un “gioco ripetuto”, che da conflittuale diviene col tempo cooperativo. In base a questa visione gli individui sarebbero naturalmente egoisti, ma dopo aver compreso che le loro azioni opportunistiche conducono a risultati fallimentari per tutti, si vedono a lungo andare costretti a cooperare con gli altri. Ostrom però ha fortemente criticato questa chiave di lettura, considerandola un tentativo del mainstream di rinchiudere le sue analisi nei vecchi canoni dell’individualismo neoclassico. Non è un caso che le sue più recenti verifiche di laboratorio siano state centrate sull’obiettivo di mostrare che molte persone sembrano disposte ad accollarsi individualmente elevati costi di monitoraggio pur di garantire che le regole comuni siano applicate e che i trasgressori siano puniti. Un esito, questo, di fronte al quale i costruttori dei tipici modelli neoclassici di comportamento egoistico e massimizzante esprimono un comprensibile imbarazzo.
Le ricerche di Williamson si concentrano invece sui motivi per i quali le imprese nascono e si espandono. L’idea di partenza è che in un ipotetico sistema di pura concorrenza, del tutto privo di imperfezioni e asimmetrie, non vi sarebbe alcun bisogno di costituire un’impresa: la produzione potrebbe avvenire attraverso contratti di volta in volta stipulati tra i vari agenti economici, siano essi capitalisti, manager o lavoratori. Come ha ironicamente affermato Paul Samuelson, in un simile idealtipico scenario «non avrebbe proprio nessuna importanza chi assume chi: al limite potremmo anche immaginare che il lavoro assuma il capitale» [2]. Se tuttavia si ammettono costi di transazione, incompletezza dei contratti e incertezza sul futuro, i meri scambi di mercato possono rivelarsi inadeguati alla risoluzione delle controversie tra gli agenti. Ecco allora che sorge la necessità di costituire un’impresa, vale a dire una organizzazione basata non più sul libero scambio ma sulla gerarchia. Naturalmente, precisa Williamson, anche i rapporti gerarchici possono dar luogo a inefficienze, determinate da una gestione arbitraria delle risorse da parte di chi comanda. Tuttavia, ogni volta che i costi degli scambi risultino superiori ai costi derivanti dal controllo gerarchico, il rapporto di potere interno all’impresa tenderà a sostituirsi al rapporto di mercato tra soggetti formalmente indipendenti. Una spinosa implicazione di politica economica di questa visione è che anche le fusioni e le acquisizioni tra imprese dovrebbero esser considerate una conseguenza naturale dell’obiettivo di minimizzare i costi di transazione. La grande impresa cioè decide di fagocitare le altre anziché trattare con loro semplicemente perché mira a superare le incertezze e le inefficienze tipiche degli scambi di mercato. Sulla base di questa teoria, Williamson è dunque giunto alla conclusione che le imprese di grandi dimensioni esistono perché sono efficienti, e possono quindi garantire un maggior benessere per tutti, capitalisti, lavoratori e consumatori. Egli in effetti ammette che l’enorme centralizzazione di capitale che le caratterizza può consentir loro di esercitare pressioni lobbistiche per controllare i mercati ed eliminare qualsiasi concorrenza. A suo parere tuttavia tali “distorsioni” andrebbero semplicemente regolate, mentre bisognerebbe assolutamente evitare un ritorno alle vecchie politiche anti-trust che imponevano limiti secchi alla crescita dimensionale delle corporations [3].
Sebbene non vi sia unanime consenso sulla loro piena validità empirica [4], gli studi di Williamson hanno indubbiamente contribuito a una più accurata comprensione dei processi di espansione delle imprese, e più in generale della centralizzazione dei capitali. Così come le ricerche di Ostrom hanno senz’altro fornito importanti elementi di conoscenza per una gestione sostenibile dei beni comuni, e in particolare delle risorse ambientali. Se tuttavia si guardano tali apporti nell’ottica di un aggiornato materialismo storico, non si può fare a meno di rilevare in essi alcune fragilità di fondo. Riguardo ad Ostrom, c’è da dire che fin dai tempi degli studi di Marx sui devastanti effetti delle enclosures, il problema per i materialisti storici non è mai stato quello di esaminare i danni prodotti dalla distruzione delle proprietà comuni, ma è stato invece di comprendere quali immani forze riuscissero inesorabilmente a disintegrare le forme primitive di organizzazione comunitaria delle risorse, del tutto indipendentemente dalle devastazioni economiche e sociali che quelle stesse forze provocavano. In effetti negli ultimi tempi Ostrom sembra aver preso coscienza del rischio di una interpretazione per così dire “conservatrice” e “nostalgica” delle sue analisi, e si è quindi impegnata ad effettuare ricerche sulla gestione dei beni comuni non più soltanto nei vecchi ambiti rurali e pre-capitalistici, ma anche in settori estremamente avanzati, come ad esempio quello della conoscenza. In questo nuovo ambito tuttavia le sue conclusioni sono per forza di cose divenute ben più articolate e controverse. E’ chiaro infatti che il campo della conoscenza scientifica e tecnologica è attraversato più di ogni altro da continue innovazioni che sconvolgono il quadro delle relazioni economiche e sociali, e che rendono dunque molto improbabile l’affermarsi di quei lunghi processi di sedimentazione delle regole indispensabili per l’affermarsi “dal basso” di forme di gestione “comune” delle risorse. Ecco perché, contro tutte le apparenze, il nucleo dell’analisi di Ostrom sferra implicitamente un duro colpo a quei teorici delle moltitudini che proprio nell’ambito della conoscenza vorrebbero addirittura poter individuare i semi dello sviluppo spontaneo di nuove forme di comunismo. Riguardo poi alle analisi di Williamson sulle modalità di costituzione e di sviluppo dell’impresa, suscita molte perplessità l’idea che queste si fondano su una scelta ottimale tra scambio di mercato e gerarchia interna all’azienda. In realtà sia lo scambio che l’impresa ineriscono al medesimo rapporto di dominio: quello del capitale sul lavoro, che potrà poi esprimersi nell’una o nell’altra forma a seconda delle diverse contingenze e convenienze (non è un caso che le centralizzazioni del capitale avvengano spesso in concomitanza con poderosi processi di esternalizzazione di alcune parti dell’attività produttiva) [5]. Tali critiche naturalmente non possono gettare nell’ombra le importanti novità contenute nelle ricerche dei Nobel 2009 per l’Economia. Ad Ostrom e Williamson va senza dubbio riconosciuto il merito di aver aperto squarci nel buio oltre la siepe del mercato, al riparo del quale i vecchi teorici dell’equilibrio generale neoclassico preferivano invece chiudersi in un ostinato silenzio. Bisogna però al tempo stesso riconoscere che anche quest’anno ci ritroviamo alquanto lontani dai tempi in cui l’aria di Stoccolma veniva infiammata dal vento della critica della teoria economica. E’ questo un dato incoraggiante per una disciplina dalla quale molti si attendevano nientemeno che una via d’uscita dalla Grande Crisi? Osiamo francamente dubitare.