Tra i molti problemi che dovrebbe affrontare il sistema universitario italiano, quello delle procedure dei “concorsi” di prima e seconda fascia, sembrerebbe, a priori, uno dei meno importanti. Questi concorsi, infatti, riguardano, in massima parte promozioni di docenti ultraquarantenni e ultracinquantenni che già insegnano all’università. Certamente le promozioni sono molto importanti per i diretti interessati, le loro famiglie, i loro amici ed i loro sostenitori accademici. Ma non sembra proprio che abbiano la stessa importanza per gli studenti o la società in generale. L’esito del concorso può modificare lo “status” e lo stipendio dei vincitori, ma non la loro funzione di docenti all’interno del sistema universitario. Inoltre, normalmente, tutti i candidati ragionevoli usufruiscono di diverse opportunità di competere per ottenere una promozione. L’esito di un concorso che a qualcuno appare “ingiusto” è spesso corretto in un concorso successivo. Per fare un esempio (apertamente reso pubblico dall’interessato in
www.renatobrunetta.it/documenti/new/2e.pdf) il Ministro Renato Brunetta, non promosso ad ordinario in un concorso molto controverso degli anni novanta, ebbe modo di far valere i suoi meriti in un concorso successivo.
Eppure sono i “concorsi”, specialmente quelli di prima fascia, che infiammano l’animo degli interessati e dei loro sostenitori, e che danno luogo a discussioni, che assumono il carattere di vere e proprie guerre di religione.
Dobbiamo osservare, a questo punto, che sarebbe un gran brutto segno se tutti fossero d’accordo in un ambito così opinabile come è quello dei giudizi sul valore dei contributi scientifici. Vorrebbe dire che prevale un “pensiero unico” difficilmente compatibile con il vero progresso della scienza e della cultura. Un giudizio ragionevolmente sicuro sul valore di un contributo scientifico può essere dato, con poche eccezioni, a distanza di diversi decenni dal conseguimento del risultato. Non è un caso che i premi Nobel vengano spesso attribuiti a settuagenari per risultati conseguiti quando erano trentenni. I giudizi sul valore di contributi recenti sono invece più incerti e quindi più discutibili.
Una discussione accesa sugli esiti dei concorsi è quindi fisiologica, ed anche opportuna, se ristretta all’ambito degli esperti. E’ anche naturale che questi esiti possano essere previsti e criticati in anticipo da chi è interno al sistema. Infatti le valutazioni concorsuali riguardano “pubblicazioni” che sono appunto pubbliche, e le diverse opinioni in merito alla validità delle ricerche possono trovare maggiore o minore credito nella comunità scientifica destinata ad esprimere le commissioni. Per quanto strano possa sembrare a chi non riflette sulla natura di un concorso universitario, è ben possibile che l’esito di un concorso, o di una analoga valutazione per una promozione in ambito internazionale, sia noto con grande anticipo rispetto al suo svolgimento.
E’ invece un’anomalia, credo solo italiana, che un professore, deluso dal prevedibile esito di concorsi per la sua disciplina, si appelli al governo perché blocchi attraverso lo strumento del decreto legge (che la Costituzione riserva ai “casi straordinari di necessità ed urgenza”), oggi con la fiducia convertito in legge, i concorsi già banditi ed in procinto di essere svolti per tutte le discipline, anche quelle per le quali egli non può sapere nulla. Ancora più strano è che il governo si affretti, nel giro di pochi giorni, ad accogliere l’appello e che il parlamento assecondi senza molte obiezioni questa stranezza. Perché di questo stiamo parlando: di un provvedimento che, sui concorsi universitari, recepisce l’appello di Francesco Giavazzi, un simpatico economista di Milano. Questa legge dovrebbe infatti passare alla storia come legge Gelmini-Giavazzi dai nomi del ministro proponente e del professore suggeritore.
Veniamo ora però al merito della legge, dopo questa necessaria introduzione. Cominciamo con un aspetto positivo. L’innovazione di prevedere solo professori di prima fascia nelle commissioni per i concorsi di ricercatore, è certamente positiva. E’ sperabile che, in tal modo, questi concorsi, che sono gli unici veri strumenti per il reclutamento, acquistino un carattere nazionale e internazionale. Il commissario designato dalla facoltà dovrà confrontarsi con due colleghi dello stesso rango. Saranno quindi incoraggiate le domande provenienti da chi non appartiene alla stretta cerchia degli allievi del “membro interno” della commissione. Forse si scateneranno “guerre di religione” (un buon segno, come ho già detto) anche per questi concorsi, che finora erano stati avvolti da un clima di omertà, in base al principio “cujus regio ejus religio”, applicato a piccoli feudi accademici. Certo, sarebbe stato meglio eliminare anche l’ipotesi di un “membro interno” delle commissioni, come è da anni richiesto da una associazione sindacale (ANDU) che raccoglie molti ricercatori universitari. Ma sicuramente è stato fatto un passo avanti.
Diverso è invece il giudizio sulle innovazioni introdotte per i concorsi di prima e seconda fascia. Non parlo del passaggio dal sistema elettivo (per i 4/5 delle commissioni) al sistema misto, di elezioni seguite da sorteggio. Questo passaggio potrebbe modificare le dinamiche interne delle comunità scientifiche dando luogo a diverse aggregazioni, alleanze e competizioni. I risultati, almeno a medio termine, non sarebbero modificati di molto: dipenderebbero, come sempre, dal livello dei candidati e, poiché stiamo parlando, in massima parte, di candidati “interni”, dal livello raggiunto dalla comunità scientifica di riferimento. Del resto abbiamo già avuto per quasi venti anni commissioni scelte in base a questo sistema misto.
Il problema, invece, è che, sul piano tecnico, le disposizioni della legge Gelmini-Giavazzi non stanno in piedi. Per ogni concorso già bandito di prima e seconda fascia (considerati assieme) bisognerebbe eleggere 12 professori ordinari. Dall’insieme complessivo degli eletti verrebbero sorteggiate le commissioni. La Camera, nel ratificare il decreto, si è accorta che l’elezione di un così alto numero di professori poteva risultare impossibile per un piccolo settore, e ha saggiamente disposto che quando il numero dei professori ordinari è insufficiente, si proceda direttamente al sorteggio. Non ha però fatto il passo ulteriore di prevedere il sorteggio anche nel caso in cui il numero dei professori ordinari è sufficiente, ma non si raggiunge un numero sufficiente di eletti. Facciamo il caso di un settore scientifico disciplinare che conosco bene: quello dell’Analisi Matematica. In questo settore i professori ordinari e straordinari sono 280, godrebbero dell’elettorato passivo 231 professori (tolti cioè 30 straordinari e 19 membri interni). Con 15 concorsi di seconda fascia e 4 di prima, già banditi, bisogna eleggere 228 professori. Possono 280 elettori eleggerne 228? A priori nulla lo vieta. Ma la partecipazione al voto per le commissioni di concorso si è attestata nel passato al 60%. E’ improbabile comunque che votino più di 200 professori. Si vota in genere per colleghi noti. Chi è noto ad una persona sarà noto anche a due o tre altre persone. In pratica i voti, quando espressi, si concentreranno su un centinaio di persone note. Eppure secondo la legge almeno 228 persone dovrebbero essere votate per essere sorteggiate. La stessa situazione si verifica, in misura più o meno grave in tutti i settori della matematica, e presumibilmente in molti altri settori. Chi è responsabile di questo pasticcio? Certamente non il professore ispiratore. Non solo egli aveva originariamente chiesto il puro sorteggio ma è così lontano dal rendersi conto del problema, che ha proposto che non siano eletti per il sorteggio professori che non sono più molto attivi nella ricerca.
Possiamo dire che è responsabile il Ministro? Anche lei aveva portato in Consiglio dei Ministri la proposta di puro sorteggio. E’ responsabile dunque il Ministro Brunetta che, a quel che si è saputo, avrebbe chiesto, in Consiglio dei Ministri, di introdurre la elezione prima del sorteggio? Ma Brunetta ha fatto una proposta politica che doveva essere messa a punto sul piano operativo dai tecnici. Allora è colpa dei tecnici? Quali tecnici? E come, se il decreto, approvato un venerdì, doveva essere pubblicato dalla Gazzetta Ufficiale prima di lunedì, per bloccare, secondo gli ordini impartiti dal prof. Giavazzi, le elezioni delle commissioni?
Ritorniamo quindi alle considerazioni iniziali. Un simpatico professore, un po’ superficiale, ha tutto il diritto di pensare che la mancata promozione dei suoi allievi o dei candidati da lui sostenuti, configuri un “caso straordinario di necessità ed urgenza” ai sensi dell’art. 77 della Costituzione, per il quale sia opportuno e costituzionalmente lecito, intervenire con un decreto-legge, ed ha certamente diritto di esprimere questo parere su un quotidiano. In un paese normale, però, il Governo dovrebbe agire con continuità secondo una politica chiara non soggetta ad improvvisazioni, sostenuta da analisi tecniche sulle effettive possibilità di applicare le disposizioni che si propongono.
Gli errori della legge Gelmini-Giavazzi in tema di concorsi saranno corretti in qualche modo. Ma la lezione dovrebbe essere appresa e meditata. Le risse concorsuali dei professori sono fisiologiche, ma non dovrebbero interferire nell’attività legislativa. Inoltre, visto che non esiste un sistema di concorsi a prova di errore, il Ministro dovrebbe vigilare perché siano sempre assicurate le possibilità di correggere gli inevitabili errori, attraverso successive opportunità offerte ai candidati perdenti. In altre parole, indipendentemente dal sistema di formazione delle commissioni, dovrebbe essere assicurato un flusso costante (anche se modesto) di concorsi per promuovere il personale docente. E’ quello che, miracolosamente, è avvenuto negli ultimi dieci anni, dopo anni di arbitrarie sospensioni dei concorsi. Speriamo che la legge Gelmini-Giavazzi non sia un segnale che si vuole interrompere questo flusso.
*Professore ordinario di analisi matematica nell’Università “La Sapienza” di Roma.