Il capitalismo fra la pentola delle bolle e la brace della stagnazione

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Political and social notes

Il presagio di una tendenziale stagnazione del capitalismo è stata avanzato in un intervento al FMI dall’eminente economista di Harvard ed ex segretario al Tesoro americano Larry Summers. Il funesto vaticinio ha scatenato molti commenti nella blogsfera internazionale ed è stato prontamente sottoscritto da Paul Krugman nel suo popolare blog sul New York Times e da Simon Wren-Lewis, un altro influente blogger e macroeconomista a Oxford. In sintesi Summers ha argomentato che il capitalismo può evitare una stagnazione secolare solo se riesce a riprodurre bolle borsistiche o immobiliari simili a quelle che l’hanno sostenuto nel recente passato, sfociate tuttavia nella crisi finanziaria. Come in altre occasioni durante la crisi gli economisti mainstream si accorgono tardi e maldestramente di ciò che gli economisti critici da sempre denunciano.

Per cominciare, la discutibile spiegazione di Summers e colleghi della tendenziale stagnazione secolare del capitalismo è che ciò sia attribuibile al calo demografico e citano al riguardo un influente divulgatore di Keynes di prima generazione, Alvin Hansen. Questi economisti, pur vagamente keynesiani, spiegano così le tendenze secolari del capitalismo rifacendosi alla teoria neoclassica. E questa teoria ritiene che l’economia cresca in piena occupazione al tasso di crescita delle forze di lavoro purché i salari siano flessibili. Questo non appare credibile per chi ritenga sbagliati i fondamenti teorici di quella teoria. Una versione più keynesiana di questa tesi è che una popolazione crescente implichi più domanda di abitazioni e beni di consumo. Ma anche qui non v’è una relazione necessaria, sennò l’Africa sarebbe ricchissima.

Bizzarramente Summers e colleghi attribuiscono al calo demografico anche la diminuzione del tasso di interesse “naturale”, quello al quale la domanda aggregata sarebbe tale da assicurare la massima occupazione compatibile con inflazione costante. Ma al di là delle confusioni teoriche, comunque sorprendenti in star della teoria dominante, la loro opinione è che il tasso di interesse “naturale” di equilibrio sarebbe attualmente negativo, cosicché risparmiatori subirebbero una perdita sui risparmi che li indurrebbe a consumare di più. Allo scopo di far prevalere nei mercati tassi di interesse negativi, le banche centrali dovrebbero dunque tenere i tassi di interesse nominali a zero cercando di generare inflazione o aspettative di inflazione sì da scoraggiare l’accumulo di risparmi che, poco o nulla remunerati, sarebbero erosi dall’aumento dei prezzi. Il risultato sarebbero tassi di interesse reali negativi (nominalmente si ottiene zero mentre l’inflazione mangia il capitale). Anche la BCE sta cercando timidamente di farlo, ma con scarse probabilità di successo. Infatti difficilmente l’inflazione può risvegliarsi se la spesa non riparte; ma consumi e investimenti rimarranno depressi fin tanto che le aspettative sono di una caduta e non di un aumento dei prezzi. Un cane che si morde la coda. Per questo Krugman ritiene che un’aggressiva politica fiscale sia l’unica strada percorribile, favorita peraltro dai bassi tassi a cui gli Stati potrebbero indebitarsi se sostenuti dalle proprie banche centrali.

Che economisti di questa rinomanza indichino nella deficienza della domanda aggregata di lungo periodo la causa della tendenziale stagnazione del capitalismo è certamente apprezzabile. Lo fanno coi mezzi che la loro povera dottrina gli fornisce. Che il problema del capitalismo sia la domanda aggregata è invece pane quotidiano degli economisti critici i più solidi dei quali si rifanno, per spiegarla, alla teoria della distribuzione del reddito degli economisti Classici e di Marx. La maggiore diseguaglianza distributiva aggrava, secondo questi economisti, la deficienza di domanda aggregata. Infatti i capitalisti e i loro attaché non spendono per beni di lusso e investimenti che parte del sovrappiù di cui si appropriano. Questa dimensione sfugge quasi completamente a Summers e colleghi. E’in questo contesto che si spiega invece bene il ruolo recente delle bolle finanziarie nello spingere le classi lavoratrici a spendere di più in quanto i risparmi già accumulati – tipicamente a fini pensionistici – si rivalutano rendendo superfluo ulteriore risparmio. E si spiega anche il ruolo di forti stimoli all’indebitamento delle famiglie per sostenere i consumi, incluso l’acquisto agevolato dell’abitazione con conseguente sviluppo di bolle edilizie in cui l’aumento del valore delle abitazioni funge da ulteriore stimolo a indebitamento e consumi.. Che il capitalismo finisca per dover essere guidato da bolle speculative e indebitamento di famiglie o di intere nazioni (in quest’ultimo caso al servizio degli interessi mercantilisti delle élite di alcuni paesi come la Germania), bolle e debiti che culminano in crisi finanziari, non è una sorpresa per gli economisti critici. E’ il capitalismo, bellezza.

Sorpresi appaiono invece Summers e compagni che la crescita pre-crisi guidata dal debito e dalle bolle si sia svolta senza che l’inflazione abbia rialzato la testa (a parte, ovviamente, l’inflazione nei valori borsistici). Per spiegarlo basterebbe rifarsi a quello che Bellofiore e Halevi hanno definito la traumatizzazione del lavoro, ovvero l’incapacità dei sindacati americani di sfruttare la crescita per ottenere miglioramenti salariali in seguito alle bastonate subite a colpi di disoccupazione e trasferimento in Asia delle produzioni durante gli anni 1980 e 1990. L’importazione di beni di consumo a basso costo dai paesi emergenti ha fatto il resto. Summers e colleghi sono anche sorpresi della posizione controcorrente della banca centrale svedese (quella che finanzia e assegna i cosiddetti premi Nobel per l’economia) che mantiene i tassi di interesse elevati pur in presenza di aspettative deflazionistiche, preoccupata che politiche più espansive possano dare innesco a nuove bolle speculative, proprio quello che le altre banche centrali sembrano desiderare. Al riguardo già Keynes nella Teoria Generale criticò Roberston per aver sostenuto l’idea che per assicurare la stabilità dei prezzi si dovesse mortificare la ripresa attraverso più elevati tassi di interesse, una posizione definita “pericolosa e immotivatamente disfattista”.

Summers e compagni hanno dunque toccato un tasto dolente del capitalismo, la sua necessità di far affidamento su meccanismi perversi per sostenere la domanda aggregata. Questo conferma che il capitalismo è un sistema perverso. Lo è fondamentalmente perché basato sulla diseguaglianza che deprime la domanda aggregata producendo miseria a fronte del potenziale benessere (naturalmente ci sono altri motivi etici, ecologici ecc. per cui il capitalismo è perverso, qui ne evidenziamo uno). Anche noi economisti genuinamente keynesiani dovremmo ricordarci che se, da un lato, ci si deve battere per un capitalismo più giusto e dunque meglio funzionante, dall’altro è sulla prospettiva di un sistema più razionale, quello socialista, che si dovrebbe ritornare con serietà a riflettere.

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