Gli economisti deviati e la crisi del capitalismo

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financialHo letto su questa rivista l’articolo di John T. Harvey di cui condivido molte delle idee enunciate, iniziando dal fatto che l’economista Christine Romer, a capo del board del presidente Obama, è purtroppo condizionata dalla sua formazione neoclassica, simile a quella di molti di coloro che hanno contribuito – nell’arco degli ultimi anni, a partire dall’inizio del nuovo millennio – a innescare crisi drammatiche sia sul piano produttivo sia sul piano finanziario. Qualcuno addirittura sostiene che i loro risultati finali siano addirittura peggiori di quelli generati dalla Grande Depressione degli anni ’30, con la differenza che, mentre nel passato, le scelte del presidente Roosevelt e dei suoi collaboratori, come il britannico John M. Keynes o lo statunitense Adolf A. Berle, contribuirono a lanciare politiche pubbliche radicali, oggi non viene formulato nulla di innovativo e vengono soltanto peggiorate le già difficili condizioni economiche.

Il mio intento è quello, invece, di riscoprire il grande insegnamento dei classici, esaltando la loro avversione verso gli economisti  ancorati a schemi molto limitativi, come evidenziato da Adam Smith quando si scagliò contro gli interessi monopolistici o quelli dei fisiocratici francesi, sostenitori esclusivamente del ruolo della natura, oppure dallo stesso David Ricardo che teorizzò infinite possibilità di soluzioni all’interno del commercio internazionale o, infine, da Ferdinando Galiani, oggi poco conosciuto ma che, nel 1751, enunciò le possibilità alternative nella gestione della moneta, a seconda delle differenti circostanze storiche.

Oggi, invece, gli  economisti hanno spesso condizionato in modo negativo le scelte governative, contribuendo ad imporre, alle più prestigiose università dell’Occidente, modelli superati e distorsivi, fondati su schemi teorici astratti e dominati dalla preoccupazione esclusiva di definire i prezzi, tralasciando di cogliere l’importanza dei livelli di redditi o di altre variabili, come le interdipendenze strutturali, che vanno studiate simultaneamente a causa della complessità della realtà odierna. I loro modelli, praticamente, impongono in maniera elementare – già a partire dalla fine della seconda guerra mondiale –  il mantenimento dell’equilibrio, della stabilità e della razionalità. E così che paesi come la Gran Bretagna o gli  Stati Uniti  sono stati progressivamente indeboliti rispetto a quando dominavano quasi tutto il mondo sviluppato, come ha avuto modo di evidenziare già J. Stiglitz nel suo libro Freefall (2010).

Negli Stati Uniti, in particolare, a partire dall’amministrazione Carter, venne insediato a capo della Fed, Paul Volcker, convinto monetarista che indebolì pesantemente – a causa degli alti tassi di interesse da lui praticati − l’economia statunitense, tanto da indurre il nuovo presidente Reagan, a sostituirlo con Alan Greenspan nel 1987.

Seguì l’adozione di una politica monetaria più accomodante: in effetti, qualche anno più tardi, questa decisione convinse Clinton a teorizzare la new economy, nel senso che le operazioni sui mercati finanziari avrebbero assicurato nuovi guadagni anche ai cittadini meno privilegiati, venendo utilizzati nel settore impiegatizio e lavorativo. Gli operatori dei mercati finanziari assicurarono una relativa stabilità per qualche anno, ma a fine mandato presidenziale le vendite dei titoli posseduti finirono per deprezzare le quotazioni, con ricadute preoccupanti sui mercati.

Non c’è dubbio che a dare il via  al preoccupante declino siano state prima di tutto le regole imposte dai marginalisti e dai neoliberisti, a capo sia degli staff della Casa Bianca sia di altri governi occidentali, e anche da molti dei teorici keynesiani, che non furono però in grado di comprendere fino in fondo il grande insegnamento dell’economista di Cambridge.

Occorre ricordare che l’ultimo presidente americano a perseguire politiche di sostegno del sistema produttivo del suo paese fu Richard Nixon, indirizzato fortemente dal suo Segretario di Stato Kissinger, aprendosi al commercio internazionale con la Cina e con l’Unione Sovietica. Poi, un “provvidenziale” impeachment pose fine al consolidamento dell’economia statunitense, che finì per privilegiare, invece, investimenti finanziari e numerose guerre lunghe e costose. Tali scelte furono adottate anche dai paesi europei, e ciò si tradusse in uno smantellamento progressivo del sistema industriale dell’Occidente, con le imprese produttive, soprattutto più innovative, purtroppo cedute a capitali stranieri, in particolare cinesi. Non è più sufficiente oggi elogiare il ruolo della Silycon Valley o di qualche altra eccezione di carattere marginale; esse non sono più in grado, da sole, di sostenere l’intera economia mondiale, come a suo tempo già sostenuto da E. Todd, nel suo libro Dopo l’impero (2002).

Il mancato stimolo alla crescita delle attività produttive ha finito, nel tempo, con il  privilegiare ulteriormente quelle finanziarie, fondate su un sofisticato complesso di modelli molto articolati tra loro, ma purtroppo costruiti sul nulla.

Questo sistema, non più legato alle attività reali della produzione, si è tradotto in scelte teoriche astratte non fondate su ipotesi valide, e nelle quali hanno finito per trionfare gli analisti che hanno creato potenzialità di investimenti: questi ultimi, anche se gestiti in modo egregio, hanno però garantito elevatissimi utili solo a coloro che erano già molto ricchi, impoverendo pesantemente, invece, i meno avveduti. Così  mentre i privilegiati guadagnavano moltissimo, guidati nelle scelte di acquisti o vendite, gli altri investitori perdevano a dismisura, indebitandosi fortemente e creando condizioni di forte instabilità dei mercati. Masse enormi di denaro (circa 500mila miliardi di dollari) venivano accumulate negli anni: mentre gli Stati Uniti e la Gran Bretagna smantellavano il loro sistema industriale, i loro mercati borsistici disponevano di risorse di 10 o addirittura 20 volte maggiori dei Pil dei loro paesi. Mentre esplodevano la disoccupazione e la povertà, e si registrava la caduta delle quotazioni degli immobili, una sparuta minoranza di grandi privilegiati, grazie ai sotterfugi e agli imbrogli degli operatori della finanza, accumulava quantità enormi di ricchezze: questa arroganza può ancora portare al rischio che si possano verificare, nel prossimo futuro, e come già previsto sempre da  Stiglitz,  massicci cedimenti di questi mercati.

Purtroppo non ha retto la speranza di sostenere operazioni speculative su tali titoli, poco credibili nella sostanza. E’ proprio questo il timore di coloro che non credono in questo tipo di manovre non fondate su strutture reali. Le minacce di tali crolli, come è stato spiegato  da pochi analisti ben informati, sono molto elevate e le conseguenze preoccupanti, dato che i paesi capitalistici occidentali sono privi di una effettiva struttura produttiva in grado di affrontare la crisi e di far ripartire la crescita.

E’ mia convinzione che le scelte sbagliate condotte da economisti “deviati” da modelli astratti e avulsi dalla realtà, stiano contribuendo a minacciare il mantenimento dello stesso sistema capitalistico, così come inteso nel mondo occidentale. Questi anni di crisi, che hanno progressivamente indebolito tutte le prospettive di crescita del nostro sistema economico (e i dati positivi dell’attuale economia statunitense sembrano un po’ sopravvalutati) non hanno indotto gli economisti a intervenire per modificare radicalmente i loro insegnamenti. Continuare a proporre modelli di stabilità è deleterio quando – in realtà –sempre più frequentemente si diffondono condizioni di disequilibrio. Inoltre, di fronte ai crolli dei mercati borsistici, come possiamo ancora illuderci che si ritrovino i vecchi equilibri? Così come appare illusorio parlare di una razionalità  dei soggetti economici che spesso non sono più in grado, data la complessità dei mercati, di operare in modo corretto.

D’altra parte, dato il ripetersi, come in questi giorni, di crolli di Borsa e il permanere di criticità molto gravi, gli economisti non possono continuare a riproporre  modelli teorici  che non rispondono più alle nuove realtà dei nostri tempi: con essi e con le loro astrattezze non si può pensare di  risolvere le crisi.

*Ordinario di economia internazionale nell’Università di Torino

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