Riccardo Realfonzo interviene come coordinatore della consulta economica della FIOM al Congresso della FIOM-CGIL tenutosi a Riccione dal 12 al 15 dicembre 2018. L’analisi mostra quale sia stato il drammatico sottofinanziamento delle politiche industriali nel decennio successivo alla crisi scoppiata nel 2008 ed anche gli effetti negativi delle politiche di deflazione salariale. Occorrerebbe una svolta di politiche industriali e del lavoro che è assente nella nuova manovra del governo in carica.
Congresso FIOM 2018: Relazione su austerità e precarietà di Riccardo Realfonzo
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Cambiamento significa stop ad austerità e precarietà
"Per cambiare il Paese e fermare il declino occorrerebbe dire basta all'austerità e agire profondamente sulle condizioni sociali e del lavoro". La relazione di Riccardo Realfonzo al congresso della Fiom-Cgil (Riccione, 14 dicembre 2018).
Pubblicato da Economia e Politica su Lunedì 17 dicembre 2018
Documento della consulta economica per il Congresso FIOM-CGIL 2018
Sottoinvestimenti, deindustrializzazione e bassa competitività del Mezzogiorno e del Paese. Una vertenza per una nuova stagione di politiche industriali.
Congresso FIOM CGIL Novembre 2018
1. Premessa
Questo documento è stato realizzato dalla Consulta economica della FIOM-CGIL (coordinata da Riccardo Realfonzo), a seguito di numerosi momenti di confronto con le segreterie regionali e i lavoratori organizzati dalla FIOM nel corso del 2018 e nel dialogo continuo con la Segreteria Nazionale che ne ha condiviso i contenuti. Emerge la necessità di una nuova stagione di politiche industriali che, a partire dal Mezzogiorno, ponga le basi per un rilancio dell’industria e dell’intero sistema produttivo del Paese, al fine di arrestare i processi di declino in atto e garantire le condizioni per una crescita occupazionale e una più equa distribuzione dei redditi. Le politiche industriali dovrebbero sostanziarsi in una strategia unitaria, sovraregionale, dotata di finanziamenti ben maggiori rispetto a quelli messi in campo negli ultimi anni e dal governo in carica. Una strategia da attuare mediante nuovi investimenti pubblici in infrastrutture materiali e immateriali, un articolato sistema di incentivi e aiuti alle imprese che permetta loro di compiere un salto tecnologico-dimensionale e che le spinga a investire sulla qualità del lavoro, un adeguato sistema di ammortizzatori sociali che sostenga le imprese e i lavoratori nelle fasi di rallentamento della produzione e nelle crisi industriali. Questa nuova stagione di politiche industriali dovrebbe prendere le mosse dalla consapevolezza del drammatico sottoinvestimento pubblico e privato realizzato dal Paese negli scorsi anni, almeno a partire dalla crisi del 2007-2008. Un sottoinvestimento che ha favorito la deindustrializzazione, ha impoverito drammaticamente l’Italia e ha assecondato i processi di distruzione di capacità produttiva innescatisi dopo la crisi, e che a fine 2017 vede il Paese, e in misura ancora più radicale il Mezzogiorno, ancora molto lontano dai livelli di produzione di dieci anni prima. Della necessità di politiche industriali incisive non vi è consapevolezza nel governo del Paese e per questa ragione è indispensabile che il sindacato apra una vertenza con il governo e chiami a raccolta i lavoratori per esercitare la pressione sociale necessaria in questa direzione. Resta ormai acquisito quanto denunciato a più riprese dalla FIOM e dalla CGIL tutta negli anni passati: le politiche di deregolamentazione del marcato del lavoro e l’attacco al contratto nazionale non hanno prodotto alcun beneficio, né in termini di crescita economica né in termini occupazionali. Piuttosto, la riduzione continua del grado di protezione del lavoro ha determinato una deflazione salariale e ha spinto le imprese a proseguire in un errata ricerca della competitività da bassi costi, aumentando sempre più il numero dei contratti di lavoro a termine a scapito di quelli a tempo indeterminato. Il peggioramento qualitativo dell’occupazione ha rallentato la dinamica della produttività del lavoro e indebolito ancor più la domanda interna di beni di consumo, aggravando ulteriormente la condizione economica del Paese. Al tempo stesso, l’analisi condotta dalla consulta economica e dalle strutture della FIOM concorda nel denunciare il carattere recessivo delle politiche di austerità definite dai Trattati europei, che in questi anni hanno accresciuto il divario tra centri e periferie in Europa, accrescendo la disoccupazione nelle aree periferiche, alimentando processi migratori socialmente costosissimi, e rendendo sempre più diseguale la distribuzione dei redditi in Italia e sull’intera scala europea.
2. L’Italia nei processi di “mezzogiornificazione”
Dieci anni dopo la crisi che ha sconvolto le economie occidentali, il quadro italiano si presenta ancora fortemente negativo, considerato che a fine 2017 l’Italia si trova a realizzare un valore del pil in termini reali inferiore di ben 5,5 punti percentuali rispetto al 2007. All’interno di questa condizione complessiva, vi è poi una realtà meridionale ancora più grave e si registra un ulteriore approfondimento del divario tra Mezzogiorno e Centro-Nord. Infatti, mentre il valore della produzione di beni e servizi del Centro-Nord è inferiore del 4,2% rispetto al 2007, il Mezzogiorno si colloca ben 9,8 punti percentuali più in basso rispetto ad allora.
Le dinamiche cui abbiamo assistito dopo la crisi del 2007-2008 hanno dunque ulteriormente accelerato i processi di divergenza rispetto alle aree centrali di Europa e il declino del Paese. Il dato più evidente di ciò è la progressiva riduzione del peso del pil italiano sul totale dell’Eurozona. Nel 1995 questo valore superava il 19% mentre a fine 2017 si era ridotto a poco più del 15%. L’Italia vive dunque un processo di continuo ridimensionamento della sua economia, rispetto alle aree centrali di Europa e in particolare alla Germania. Si tratta, a bene vedere, di una tendenza che non riguarda solo il nostro Paese. I dati relativi a PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) mostrano che l’insieme di questi Paesi non ha ancora recuperato rispetto alla crisi, mentre invece la Germania è cresciuta addirittura del 12,3% e la Francia dell’8,6%. Questa semplice osservazione conferma la presenza di intensi processi di divergenza in Europa.
Si presenta dunque il quadro di un’Europa a due velocità, e ciò risulta vero anche sul piano occupazionale. L’Italia in questo decennio ha registrato una riduzione dell’occupazione complessiva che ha riguardato soprattutto il Mezzogiorno. Mentre, infatti, nel Centro-Nord il numero di occupati si è ridotto nel periodo 2007-2017 dello 0,8%, la perdita occupazionale al Mezzogiorno è stata pari al 5%. Nello stesso periodo, il numero degli occupati è calato del 5,1% nel complesso dei PIGGS, mentre è cresciuto del 3% in Francia e addirittura del 9,7% in Germania.
La grave condizione di difficoltà italiana e di altri Paesi e regioni periferiche di Europa conferma il fallimento delle tesi liberiste intorno agli effetti dell’unificazione monetaria realizzata in Europa. I sostenitori più ottimisti dell’unificazione monetaria, e in primo luogo la stessa Commissione Europea, ancora oggi sostengono che la moneta unica è capace di innescare processi spontanei di convergenza tra Mezzogiorni e centri di Europa. L’idea è che la sola introduzione della moneta unica – con la cancellazione dei costi e dei rischi di cambio, e la liberalizzazione dei movimenti dei capitali e del lavoro – avrebbe reso più omogeneo lo sviluppo su scala continentale, favorendo investimenti e localizzazioni di imprese nelle aree meno sviluppate. Questo meccanismo riequilibratore dello sviluppo si fonderebbe sulla vecchia “legge” dei “vantaggi comparati”, secondo la quale le aree in ritardo di sviluppo godono di vantaggi rispetto alle aree congestionate centrali, a cominciare dai ridotti costi del lavoro, delle superfici in cui collocare le imprese e in generale dei servizi. In virtù di questi vantaggi, le aree periferiche avrebbero dovuto attrarre massicci investimenti, tali da aumentare l’integrazione produttivo-commerciale con le aree centrali e mettere in moto una crescita più veloce di quella registrata nei centri più sviluppati, diminuendo le disuguaglianze territoriali e realizzando la convergenza.
Tuttavia, i dati dimostrano che questi processi spontanei, guidati dal mercato, non si sono messi in moto, se non parzialmente e sporadicamente, e in questi anni piuttosto si è acuita la divergenza tra aree sviluppate, caratterizzate dall’insediamento di grandi imprese tecnologicamente avanzate e che accumulano avanzi crescenti della bilancia commerciale, e aree arretrate, caratterizzate dalla presenza di piccole-medie imprese con tecnologie tradizionali e che spesso registrano disavanzi della bilancia commerciale. Insomma, come previsto dalla letteratura keynesiana, che tiene conto della presenza di economie di specializzazione e agglomerazione in presenza di rendimenti crescenti, l’eliminazione delle barriere relative al cambio e ai movimenti di lavoro e capitale hanno determinato l’opposto di ciò che afferma la Commissione Europea: tendenze alla centralizzazione dei capitali e alla concentrazione degli investimenti nelle aree centrali, con conseguenti dinamiche di desertificazione economica dei Mezzogiorni. Si tratta dei processi che la letteratura ha definito di “mezzogiornificazione” (utilizzando l’espressione proposta da Krugman).
Il quadro europeo ha naturalmente anche altri elementi di complessità. Basti pensare agli svantaggi che l’Italia ha soprattutto rispetto ad alcuni Paesi dell’est Europa, che praticano politiche di tassazione estremamente basse, allo scopo di attrarre investimenti. Si tratta di pratiche che mostrano tutta la carenza del quadro istituzionale dell’Unione Europea, in cui il dumping fiscale è all’ordine del giorno. O si pensi alla compresenza nell’Unione Europea di Paesi che hanno adottato l’euro e Paesi che hanno mantenuto la loro valuta e che praticano politiche di svalutazione della moneta rispetto all’euro, aumentando così artificiosamente, mediate un dumping del cambio, la loro competitività.
L’inadeguatezza del palinsesto macroeconomico europeo delineato dai Trattati è giunta anche sulle colonne del Financial Times, con il “monito degli economisti” pubblicato nel 2013, nel quale si solleva il rischio di tenuta dell’Eurozona in assenza di riforme del sistema finanziario e della politica monetaria e fiscale che diano vita a un piano di rilancio degli investimenti pubblici e privati, contrastino le sperequazioni tra i redditi e tra i territori, e risollevino l’occupazione nelle periferie dell’Unione.
3. I pessimi risultati della politica economica italiana
La delusione rispetto agli effetti “salvifici” dell’unificazione monetaria va di pari passo con i pessimi risultati delle politiche economiche condotte in questi anni In Italia.
Per cominciare, il dualismo crescente tra Mezzogiorno e Centro-Nord in buona parte è l’esito del fallimento della “nuova programmazione per il Mezzogiorno”, che sin dagli anni ’90 del secolo scorso ha sostituito l’intervento straordinario. Secondo la filosofia della “nuova programmazione” non deve essere lo Stato dal centro a coordinare le politiche, con una impostazione dirigistica “dall’alto”, bensì è il mercato che deve creare spontaneamente le soluzioni, dal basso (bottom up), che la politica economica può solo assecondare e velocizzare. L’intervento premiare le “vocazioni locali”, mediante gli strumenti della programmazione negoziata. Ciò ha determinato l’erogazione di incentivi rigettando qualsiasi logica unitaria di politica industriale e generalmente al di fuori di meccanismi di valutazione degli impatti. Una stagione di politiche per il Mezzogiorno che ha clamorosamente fallito. A riguardo, resta una verità storica: il divario tra Mezzogiorno e Centro Nord ha raggiunto il minimo storico quando più intenso è stato l’intervento straordinario e maggiori sono stati gli investimenti diretti pubblici nel Mezzogiorno, ovvero nella metà degli anni ‘70. La realtà è che le politiche bottom up frequentemente hanno dato luogo a distorsioni clientelari ed enormi sprechi, finendo anche per incentivare imprenditori “prendi e fuggi”.
Un’ulteriore constatazione negativa riguarda la quantità e la qualità della spesa per sostenere lo sviluppo del Mezzogiorno. I fondi strutturali europei che avrebbero dovuto velocizzare i processi di convergenza spontanei del mercato sono risultati del tutto insufficienti. Una goccia nell’oceano. È noto che il bilancio comune dell’Unione è molto contenuto, appena l’1% del pil europeo, e solo una parte di esso (circa lo 0,6% del pil dell’Unione) è impegnato per i fondi strutturali. Non va sottaciuto inoltre che i fondi strutturali sono stati spesi tardi e male nel Mezzogiorno. Infatti, complici le logiche bottom up e la responsabilità frammentata nelle diverse regioni, è mancato un coordinamento di macroarea, e dunque una qualunque visione strategica d’insieme sull’utilizzo dei fondi. Ciò ha favorito l’utilizzo per microinvestimenti dal sapore clientelare, che hanno avuto un impatto nullo sulla crescita. L’estrema lentezza della spesa, dovuta alla inadeguatezza delle amministrazioni del Mezzogiorno nel programmare e spendere i fondi, ha ridotto ulteriormente l’efficacia della spesa comunitaria nel Sud. Come se non bastasse, va anche considerato – come spesso è stato rilevato – che i fondi strutturali hanno finito per avere un carattere non aggiuntivo bensì sostitutivo rispetto all’intervento statale ordinario. Le politiche di austerità portate avanti negli scorsi anni dai governi che si sono succeduti, hanno infatti determinato una forte riduzione degli investimenti pubblici finanziati con fondi nazionali.
Gli impatti negativi sulla crescita italiana determinati dalle politiche di austerità di questi anni erano stati ampiamente denunciati dagli economisti keynesiani sin dallo scoppio della crisi. Ed è ben noto che numerosi studiosi, enti di ricerca e persino lo stesso Fondo Monetario Internazionale abbiano ammesso che le loro stime del passato sottovalutavano drammaticamente gli impatti recessivi dei “consolidamenti fiscali” (tagli della spesa pubblica e aumenti della pressione fiscale). Non vi è dubbio che i continui tagli della spesa pubblica e gli avanzi primari (eccessi del prelievo fiscale sulla spesa pubblica, al netto degli interessi sul debito) per i quali l’Italia detiene il primato in Europa, con il disimpegno statale che essi hanno comportato e gli effetti negativi sulla domanda aggregata, abbiano in questi anni fermato il passo all’economia italiana e a tutti quei Paesi europei che sono stati indotti a praticare l’austerità (il caso della Grecia è il più tristemente esemplare). Gli effetti negativi delle politiche di austerità sulla domanda aggregata hanno moltiplicato le crisi aziendali e acuito la depressione. La contrazione della crescita ha anche retroagito sulle entrate fiscali, non permettendo nemmeno di acquisire i risultati di risanamento delle finanze pubbliche che costituivano gli obiettivi di quelle manovre. Abbiamo pertanto assistito a un susseguirsi di clamorosi fallimenti delle previsioni elaborate dai tecnici del governo e riportati nei documenti ufficiali. Il caso più grave è costituito dalla stima degli effetti dei drastici tagli previsti dal “Salva Italia”, varato dal governo Monti. Ebbene, stando alle previsioni elaborate da quel governo nell’aprile 2012, nell’anno successivo il pil avrebbe dovuto crescere dello 0,5% e il rapporto debito/pil ridursi al 117%. I dati reali successivamente registrati ci dicono invece che il “Salva Italia” fece precipitare il pil dell’1,9% e portò il rapporto debito/pil al 132%.
I dati relativi alla spesa per consumi finali delle Pubbliche Amministrazioni dallo scoppio della crisi ad oggi mostrano che i tagli hanno riguardato il Mezzogiorno ancora più del resto del Paese. Nel Sud, infatti, i consumi finali delle pubbliche amministrazioni si sono contratti del 10,8%, mentre la riduzione nel Centro-Nord è stata del 6,3%.
A ben vedere, anche il “Piano Industria 4.0”, avviato nel 2017 e inizialmente finanziato con 10 miliardi di euro in un triennio, ha ripercorso gli errori del passato. Secondo stime effettuate dalla SVIMEZ, il Piano non solo non è adeguatamente finanziato ma si rivela essenzialmente funzionale allo sviluppo delle regioni del Centro-Nord, il cui sistema produttivo dovrebbe assorbire circa il 90% delle risorse complessive. Certo, in questi anni non sono mancate proposte di intervento da parte dei governi (dai tagli IRAP alle decontribuzioni, dalla Nuova Sabatini all’iperammortamento e al superammortamento legati a Industria 4.0, dal Masterplan ai Patti per il Sud alla introduzione delle Zone Economiche Speciali, sino alla fondazione del ministero per il Mezzogiorno e della Agenzia di Coesione), ma su tutto hanno prevalso certamente gli impatti negativi dell’austerità e l’assenza di una politica industriale organica.
Un altro fallimento annunciato della politica economica italiana ha riguardato le deregolamentazioni del mercato del lavoro. È ben noto che negli anni passati le cause della bassa competitività e della scarsa produttività del lavoro in Italia sono state spesso ricondotte a presunte inefficienze del mercato del lavoro. Una tesi che si è rivelata ampiamente erronea. Le politiche di deregolamentazione nel nostro Paese sono state molto intense, più che altrove in Europa, al punto che l’indice di protezione del lavoro calcolato dall’OCSE si è ridotto in Italia di oltre il 40%. E nonostante ciò non abbiamo registrato alcun vantaggio in termini occupazionali o di produttività del lavoro. Disponiamo piuttosto di molti studi che mostrano come al crescere della fessibilità del mercato del lavoro i tassi di disoccupazione aumentino e che evidenziano addirittura una relazione di segno negativo tra flessibilità e produttività.
Le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro non hanno agito positivamente sull’occupazione o sulla produttività e hanno piuttosto impattato negativamente sul livello dei salari, accelerando la discesa della quota del pil che va ai redditi da lavoro, determinando una situazione sociale esplosiva, fatta di precarietà e lavoratori poveri. La parte della produzione nazionale che remunera i lavoratori si è ridotta drasticamente, addirittura di dieci punti percentuali rispetto ai valori degli anni ’60 del secolo scorso. Una redistribuzione al contrario, dai salari ai profitti e alle rendite. Le politiche di flessibilità del mercato del lavoro determinato una crescita significativa dei contratti di lavoro a termine, che nel Mezzogiorno hanno progressivamente raggiunto il 20% del totale e nel Centro-Nord il 15%. Poiché in Italia la differenza tra i livelli salariali supera il 30% a favore naturalmente dei contratti di lavoro a tempo indeterminato, si comprende come mai la crescita dei contratti a termine abbia avuto un effetto di deflazione salariale. E così si spiegano anche in certa misura le pesanti differenze salariali tra Mezzogiorno e Centro-Nord registrate dall’Istat: la retribuzione media annua dei lavoratori italiani nel Centro-Nord supera di poco i 21mila euro, contro i circa 15mila del Mezzogiorno. Le dinamiche di deflazione salariale non hanno avuto effetti positivi sulla crescita italiana. Come infatti è stato recentemente confermato, in Italia la crescita è normalmente trainata dai salari (wage led), cioè è tanto più apprezzabile quanto più elevata è la quota dei salari sul pil. D’altronde, i salari rappresentano certo un costo per le imprese, ma sono anche una indispensabile fonte di domanda. Se si riducono i salari, anche la domanda di beni di consumo si ridimensiona e con essa gli stessi ricavi delle imprese. E in Italia, la spinta delle esportazioni legata al basso costo del lavoro non riesce storicamente a compensare il deficit di domanda di beni di consumo conseguente ai bassi salari.
In questo quadro deludente e recessivo, la mancanza di una credibile politica industriale nel decennio successivo alla crisi del 2007-2008 è confermata dalla scarsità delle risorse che sono state dedicate agli investimenti pubblici, agli incentivi alle imprese e agli ammortizzatori sociali.
Gli investimenti pubblici complessivi sono letteralmente crollati dopo la crisi e il divario tra Italia ed Europa si è ulteriormente ampliato. Infatti, nel 2007 gli investimenti pubblici totali erano già inferiori alla media europea, ma in misura relativamente contenuta, pari a tre decimi di punto di pil. Viceversa, nel 2017 gli investimenti italiani si sono fermati al 2% del pil contro il 2,7% della media europea, mentre ad esempio in Francia raggiungevano il 3,4% del pil e la Germania aumenta gli investimenti del 15%. A ciò si aggiunge che la spesa pubblica italiana in un settore decisivo come la ricerca e sviluppo resta ai minimi termini: siamo solo al diciassettesimo posto in Europa con un timido 0,56% del pil, contro una media europea dello 0,71%.
Dal punto di vista degli incentivi alle imprese ci troviamo a cospetto di un dato ancora più disarmante. Dal 2007 ad oggi l’Italia ha ridotto significativamente gli aiuti alle imprese, mentre la media dei paesi europei, la Francia e soprattutto la Germania li hanno considerevolmente aumentati. È interessante anche notare la differenza di comportamento dei Paesi nel 2008, anno culmine della crisi. Germania, Francia e la media dei Paesi europei aumentavano considerevolmente gli aiuti alle imprese, limitando così l’ondata di fallimenti, mentre in Italia gli aiuti rimanevano stabili, per poi successivamente diminuire. Nel 2017 la spesa italiana è risultata meno di un terzo della media europea. Infatti, lo Stato ha speso solo lo 0,22% del pil per aiuti e incentivi alle imprese, contro lo 0,69% della media europea. Contemporaneamente, la Germania ha speso addirittura sei volte in più rispetto all’Italia, portando gli aiuti alle imprese all’1,3% del suo pil.
Si pensi che per raggiungere la medesima quota europea degli investimenti sul pil, l’Italia avrebbe dovuto spendere 12 miliardi in più nel solo 2017, e addirittura 21 miliardi in più se avesse voluto raggiungere il livello francese. Viceversa, se avesse voluto raggiungere la medesima quota europea degli aiuti di Stato sul Pil, nel 2016 (ultimo anno per cui sono disponibili i dati ufficiali) l’Italia avrebbe dovuto spendere 7,9 miliardi in più, e addirittura 18 miliardi in più se avesse voluto raggiungere lo standard tedesco. Si tratta di valori elevatissimi che dimostrano il drammatico sottoinvestimento pubblico in investimenti e politiche industriali, che dura ormai da molti anni e ha messo in ginocchio il tessuto produttivo del Paese. Si comprende bene che, a cospetto di queste differenze tra spesa italiana e media europea, che anche le risorse originariamente stanziate per Industria 4.0 (appena 10 miliardi disponibili tra il 2017 e il 2020) sono largamente insufficienti, oltre che da ripensare sul piano della strategia complessiva insieme ai vari strumenti messi in campo, anche perché in certa misura penalizzanti per il Mezzogiorno.
Altro capitolo decisivo per sostenere l’apparato produttivo del Paese è quello degli ammortizzatori sociali, indispensabili per non disperdere professionalità e competenze in presenza di crisi industriali o rallentamento dell’attività lavorativa. I dati ufficiali dimostrano che anche gli ammortizzatori sociali sono ampiamente sottofinanziati in Italia rispetto alla media europea. L’Italia ha speso infatti nel 2016 circa lo 0,9% del pil contro una media europea di circa l’1,5%. In questo caso, la minore spesa rispetto alla media europea è stata di oltre 10 miliardi nel solo 2016 (ultimo anno per cui sono disponibili i dati ufficiali).
Il ritardo accumulato dal Paese negli scorsi anni in tema di sostegno alla crescita economica e spinta all’ammodernamento del nostro apparato produttivo e infrastrutturale è dunque enorme. Non è certo un caso che la competitività del nostro apparato produttivo e dei nostri territori si sia ridotta gravemente in questi anni.
4. La bassa competitività del sistema produttivo italiano
Per valutare la competitività del Paese occorre distinguere le due componenti fondamentali: la competitività dell’apparato produttivo locale e la competitività del contesto territoriale. Con la prima si intende la capacità del sistema produttivo in senso stretto di reggere la concorrenza internazionale, mentre con la seconda ci si riferisce alla qualità del territorio in cui le imprese si trovano ad operare, con riferimento alle infrastrutture, ai servizi, alla qualità della funzione pubblica, alle dinamiche di mercato.
Le analisi che abbiamo condotto (sulla base degli indicatori sviluppati dal Rapporto sulla competitività della Scuola di Governo del Territorio) permettono di chiarire che l’intero Paese ha perso posizioni rispetto alla media europea in termini di competitività del sistema produttivo, e che soprattutto le regioni del Mezzogiorno hanno bassi e bassissimi livelli di competitività. Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte e Friuli-Venezia Giulia risultano essere le regioni con i più significativi livelli di competitività del Paese, mentre tutte le regioni del Mezzogiorno occupano le posizioni più basse e generalmente in ulteriore calo (la graduatoria si chiude con Puglia, Sardegna, Sicilia e Calabria).
Prendiamo le mosse dalla dimensione media delle imprese. Come numerosi studi dimostrano, al crescere delle dimensioni crescono anche la possibilità di sfruttare economie di scala, la capacità di introdurre innovazioni tecnologiche e il potere contrattuale nei confronti del sistema creditizio e dei fornitori. Inoltre, le piccole imprese tendono a essere relativamente meno produttive perché generalmente gestite in modo meno efficiente ed esposte a favoritismi familiari. Le piccole imprese assumono frequentemente lavoratori meno qualificati e fanno poca formazione, oltre a pagare salari più bassi e affrontare un rischio di fallimento più elevato. Per queste ragioni, un sistema produttivo caratterizzato da piccole e piccolissime imprese si rivela tendenzialmente poco competitivo. Ebbene nel confronto con i dati europei risulta confermato il “nanismo” delle imprese italiane. Basti sottolineare che il numero delle imprese con oltre 250 addetti sul totale delle imprese in Italia risulta essere un quinto del corrispondente valore tedesco e circa la metà di quello francese. Al tempo stesso, le imprese con meno di nove addetti sono in Italia addirittura il 95% del totale, contro l’82% della Germania. L’analisi conferma inoltre che le regioni del Mezzogiorno hanno una dimensione media d’impresa ridottissima, di soli due addetti, la metà del dato medio registrato al Nord (pari a 3,67 addetti). Si tratta di valori particolarmente bassi, tenuto conto che il valore medio europeo è di 5,9 addetti. In effetti la dimensione media delle imprese italiane risulta essere maggiore solo di quelle presenti in Grecia, Slovacchia, Repubblica Ceca e Portogallo.
La ridottissima dimensione delle imprese italiane va di pari passo con la diffusione di modelli di governance in molti casi desueti. I modelli organizzativi più complessi tipici delle società di capitale sono ritenuti generalmente più efficienti di quelli che solitamente caratterizzano le società di persone. Solitamente, infatti, le società di capitali hanno una struttura aziendale più articolata, che permette una netta divisione dei compiti e delle responsabilità, oltre ad essere maggiormente propense a separare la proprietà dal management, facendo ricorso a manager di esperienza. In Italia la quota delle società di capitali sul totale delle imprese non supera il 18%. Un dato che nel Mezzogiorno si ferma al 16%.
Ma il tessuto produttivo italiano e meridionale è affetto anche da altri problemi. Le imprese presenti in Italia, e nel Mezzogiorno in particolare, investono pochissimo in ricerca e sviluppo. La ricerca riveste un ruolo fondamentale nel sistema economico: grazie ad un’attività di ricerca efficiente è possibile introdurre innovazioni di prodotto e di processo che stimolano la competitività delle imprese di un territorio. La spesa in ricerca e sviluppo delle imprese meridionali è pari a circa 233 euro per dipendente nel 2016, un terzo della cifra, comunque bassa nel confronto europeo, spende in media dalle imprese del Nord (678 euro).
Da un lato, le difficoltà legate alla crisi economica hanno ridotto la propensione delle imprese a investire in spese in conto capitale ma, dall’altro, è anche vero che molte imprese non riescono a cogliere le opportunità di incentivi e finanziamenti offerti dalle norme. La Svimez rileva infatti che sono soprattutto le piccole e medie imprese del Mezzogiorno a non sapere sfruttare i finanziamenti messi disposizione. Le imprese del Mezzogiorno trovano maggiore difficoltà a intercettare determinate opportunità per ragioni riconducibili principalmente alle ridotte dimensioni aziendali, alla bassa specializzazione produttiva e alla scarsa diffusione di una cultura dell’innovazione.
La bassa spesa in ricerca e sviluppo rappresenta una delle maggiori strozzature allo sviluppo dell’economia italiana. Considerando il complesso della spesa pubblica e privata, in media in Paesi dell’Unione Europea spendono l’1,9% del pil. Il dato sale naturalmente per i Paesi più avanzati: la Germania arriva a spendere il 2,9% del pil e la Francia il 2,2. L’Italia è lontanissima, fermandosi a una spesa dell’1,3% del pil.
Al tempo stesso le imprese del Mezzogiorno sembrano credere ancora meno di quelle del Centro-Nord nella qualità del lavoro, considerati gli scarsi investimenti in formazione professionale e la ridotta quota di dipendenti laureati e/o specializzati presenti nelle aziende. Nel Mezzogiorno la quota percentuale di imprese che fa formazione è appena del 22%, ben dieci punti percentuali in meno rispetto alla quota pur bassa nel confronto internazionale registrata dalla imprese del Nord (31,7%). La percentuale di persone in età compresa tra 25 e 64 anni coinvolte in attività di formazione è molto diversa tra i Paesi europei, e purtroppo significativamente bassa in Italia. Nelle quattro settimane precedenti l’indagine condotta dall’Eurostat nel 2017, nei 28 Paesi dell’Unione Europea il 10,9% dei lavoratori era stato coinvolto in attività di formazione (il dato raggiunge l’11,4% nell’Eurozona). Un dato che sale molto in alcuni Paesi, come la Francia dove raggiunge il 18,7%. Purtroppo in Italia il valore si attesta al 7,9%.
Un altro fattore della scarsa competitività del sistema produttivo italiano è relativo alla qualità del lavoro impiegato nelle imprese. Ad esempio emerge che il ricorso a lavoratori laureati in Italia è ben inferiore alla media europea. Nel Sud la percentuale di assunzione di dipendenti laureati è appena del 7,4%. Un valore estremamente basso, che si eleva all’11,1% nel Nord e al 11,7% nel Centro. Si tratta di un dato che di per sé fornisce una spiegazione convincente di quell’aspetto della drammatica piaga migratoria dal Sul verso il Nord, ma anche dall’Italia nel suo insieme verso l’estero, definita “fuga dei cervelli”.
La bassa dimensione media delle imprese, la ridotta spesa per nuove tecnologie, lo scarso investimento nella qualità del lavoro sono certamente correlati al dato della produttività del lavoro (come rapporto tra il valore aggiunto e il numero di occupati dipendenti delle imprese). Il valore aggiunto realizzato in media da ogni occupato nel Mezzogiorno nel 2016 (ultimo anno per cui è disponibile il dato) è pari a circa 52 mila euro, molto distante dagli oltre 66 mila euro per occupato registrato nel Nord. Tanto per cambiare, il dato medio italiano è basso nel confronto con la media europea e in particolare con Germania e Francia.
La dinamica asfittica della produttività del lavoro e la continua riduzione del peso italiano nel commercio internazionale sono proseguiti a dispetto delle politiche di flessibilità del mercato del lavoro che – come si è già osservato – non hanno prodotto alcun beneficio. Da tutto ciò emerge con chiarezza che il problema di competitività del tessuto produttivo italiano non è connesso alle regole del mercato del lavoro o alla dimensione dei salari. Resta dunque la conclusione che il deficit di competitività dell’apparato produttivo è legato alle caratteristiche del modello di specializzazione produttiva che si rivela antiquato e inadeguato. Un modello di specializzazione fondato su una competitività da bassi costi, caratterizzato da imprese troppo piccole, con modelli di governance spesso superati, che investono poco in ricerca e nuove tecnologie, che non puntano sulla qualità del lavoro.
5. Il deficit infrastrutturale del contesto territoriale
L’analisi dei fattori di competitività territoriale conferma che anche su questo piano l’intero Paese ha perso posizioni rispetto alla media europea e che soprattutto le regioni del Mezzogiorno hanno livelli di competitività territoriale particolarmente bassi. Friuli-Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Veneto e Lombardia risultano essere le regioni con i più significativi livelli di competitività, mentre tutte le regioni del Mezzogiorno occupano le posizioni più basse e generalmente in ulteriore calo (la graduatoria si chiude con Campania, Puglia, Sicilia e Calabria). In particolare, è la dotazione di infrastrutture materiali e immateriali del Mezzogiorno, e dell’intero Paese nel suo insieme, a non reggere adeguatamente la concorrenza internazionale.
D’altronde si tratta di dati ben noti. Stando agli ultimi dati disponibili prodotti dalla Banca Mondiale sulla qualità delle infrastrutture (Logistics Performance Index) la Germania si colloca a primo posto, la Francia al quindicesimo e l’Italia solo al ventunesimo. Sempre sul piano delle infrastrutture dei trasporti anche l’Istat conferma queste conclusioni. Siamo tra i paesi dell’Unione a più bassa intensità autostradale e disponiamo inoltre di una rete ferroviaria in termini di chilometri per abitante molto al di sotto della media europea e siamo seguiti solo da Regno Unito, Portogallo, Grecia e Paesi Bassi.
Tra i dati peggiori relativamente all’indicatore di competitività territoriale, in particolare nel Mezzogiorno, si rilevano la qualità della funzione pubblica, la difficoltà di accesso al credito bancario, l’inadeguatezza del sistema infrastrutturale e logistico, la carenza di domanda sia da parte del settore pubblico sia di quello privato.
Per quanto attiene ai servizi pubblici locali, si evidenzia che la qualità media nel Mezzogiorno è di gran lunga inferiore a quella del Centro-Nord e, ciò è vero in misura particolare per i servizi pubblici locali (trasporti locali, rifiuti, acqua, distribuzione del gas e asili nido). Questi differenziali tendono a permanere nel tempo e derivano da squilibri sia nei livelli di spesa sia nel grado di efficienza nell’utilizzo delle risorse. Una indagine europea sulla qualità della pubblica amministrazione suddivide l’Unione Europea in 206 regioni e colloca le regioni del Sud d’Italia tra le peggiori 30, con la Campania che si classifica addirittura al 202° posto. Si tratta di un risultato che, come rileva la Svimez, dipende anche dalla circostanza che sugli oltre 3 milioni di addetti nella pubblica amministrazione, solo 530mila si trovano nel Sud, mentre oltre 800mila sono nel Nord (circa 30 addetti ogni mille abitanti nel Nord contro 26 addetti ogni mille abitanti al Sud).
Tra gli aspetti che impattano gravemente sulla competitività territoriale, rendendo difficile l’attrazione di investimenti esteri, vi sono anche le questioni legate ai tempi della giustizia e alla diffusione della criminalità. Circa i tempi della giustizia civile, l’Italia registra gravissimi ritardi rispetto al resto d’Europa. Per i procedimenti civili e commerciali, il tempo medio stimato dalla Commissione Europea per i tre gradi di giudizio in Italia è di 2.949 giorni, contro i 1.216 della Francia, i 976 della Spagna e i 799 della Germania. Ma il dato Italiano arriva a superare i 5.000 giorni (oltre 15 anni) in alcune province del Mezzogiorno. In merito alla diffusione della criminalità, è ben noto che le imprese italiane e straniere temono particolarmente la criminalità organizzata di tipo mafioso, che ormai interessa in forme diverse l’intero Paese. La criminalità organizzata riduce la capacità di crescita dell’economia in vario modo, sia per le estorsioni che tende a imporre al sistema delle imprese, sia per l’alterazione complessiva del sistema economico-concorrenziale. Tra gli indicatori più significativi a riguardo vi è appunto quello relativo alle estorsioni, che mostra da un lato un fenomeno ben più intenso rispetto alla media europea e dall’altro l’estrema gravità nella città metropolitane del Mezzogiorno, ma anche la rilevante diffusione del fenomeno a Milano, Bologna e Torino.
6. Per una nuova stagione di politiche industriali
Il quadro sopra descritto è desolante. Il sistema Paese presenta un apparato produttivo in cui certamente non mancano qualità imprenditoriali e imprese di successo, sostenute da una forza lavoro qualificata. Tuttavia, l’analisi ci consegna un sistema industriale fragile, fatto di imprese molto piccole, con sistemi gestionali troppo improntati al capitalismo familiare, che spesso non competono sulla qualità del prodotto e sulle innovazioni, che non credono nella qualità del lavoro, che tendono a misurarsi generalmente sul piano della compressione dei costi e dei diritti. Inoltre, le imprese si trovano a operare in un contesto territoriale inadeguato, povero di infrastrutture materiali e immateriali all’altezza della concorrenza internazionale. E, come si osservato, il Paese tende a scivolare sempre più in basso, dove la condizione disastrosa del Mezzogiorno sembra essere il destino dell’intera Italia. Né evidentemente possono consolare i recenti avanzi della bilancia commerciale, che sono il prodotto di una dinamica delle importazioni estremamente contenuta perché legata alla decrescita sperimentata dal Paese rispetto al 2007.
Siamo dunque a cospetto di un deficit di competitività molto grave che richiede una nuova stagione di politiche industriali incisive. Una strategia articolata e complessiva, che punti ad ammodernare le infrastrutture del Paese e spinga il sistema delle imprese a compiere un salto tecnologico-dimensionale tale da innescare la crescita, aumentare l’occupazione, sostenere il lavoro stabile, di qualità, adeguatamente remunerato. Una condizione indispensabile, questa, anche per alimentare la domanda interna e sostenere lo sviluppo economico e sociale. A questo scopo, occorrerebbe un ripensamento delle strategie tale da superare anche la parcellizzazione dei centri decisionali, anche per ciò che concerne l’utilizzo dei fondi europei. E naturalmente servirebbero molte più risorse per gli investimenti pubblici diretti, per gli aiuti alle imprese, per gli ammortizzatori sociali rivolti ai lavoratori che operano in imprese in crisi, che conoscono fasi di rallentamento delle attività produttive. In particolare, un piano di investimenti pubblici diretti risulterebbe particolarmente rilevante, considerato il grave gap infrastrutturale. Ed è chiaro che un simile piano dovrebbe prendere le mosse proprio dal Mezzogiorno. D’altronde diversi studi dimostrano che l’impatto sulla crescita di questo tipo di investimenti sarebbe particolarmente elevato ed altrettanto elevato sarebbe l’impatto occupazionale, non solo sul Mezzogiorno ma sull’intero Paese dal momento che è ormai dimostrato che la spesa nel Sud attiva una domanda che in larghissima parte si rivolge proprio alle imprese del Centro-Nord.
Qualunque vero “governo del cambiamento” non potrebbe limitarsi a sostenere la domanda ma dovrebbe puntare alla riqualificazione dell’offerta di merci e servizi del Paese, in grado di migliorare l’apparato produttivo, attrarre investimenti e contrastare le delocalizzazioni. Una strategia che dovrebbe prendere le mosse proprio dal Mezzogiorno, considerato l’elevato moltiplicatore degli investimenti realizzati in questa area del Paese, e gli ampi benefici che tutto il sistema produttivo italiano trarrebbe da essi, considerato che l’aumento della domanda interna al Mezzogiorno si rivolge in grandissima parte proprio alle imprese del Centro-Nord.
Tuttavia, anche la manovra che il governo attuale delinea per il 2019, interessante sul piano della inversione di tendenza che prova a imprimere sul piano della finanza pubblica, si presenta gravemente deficitaria sul terreno decisivo del rilancio competitivo. È infatti positivo provare a interrompere le politiche di austerità, aumentando il deficit e riducendo l’avanzo primario, in contrasto con le direttive della Commissione Europea. Ed è corretto provare a sostenere la domanda aggregata con l’introduzione, socialmente opportuna, del reddito di cittadinanza (da giudicare poi in sede di concreta attuazione). Ma sul versante decisivo degli investimenti pubblici, degli incentivi alle imprese e degli ammortizzatori sociali il quadro appare estremamente deludente, compromettendo gli stessi obiettivi di crescita definiti dal governo per il 2019. Non vi è alcun salto di qualità e quantità rispetto alle politiche del passato. Tra gli elementi di politica industriale ci sarebbero la riduzione Ires per chi reinveste gli utili in beni strumentali e nuova occupazione, però con contestuale abrogazione dell’ACE (Aiuto alla Crescita Economica); l’abrogazione dell’imposta sul reddito dell’imprenditore (IRI) che nelle intenzioni del governo sarebbe superata dall’introduzione della flat tax, che però si presenta come un provvedimento non già a favore delle imprese quanto dei piccoli professionisti detentori di partita iva; una proroga ma con importi ridotti del superammortamento e dell’iperammortamento; un piccolo incremento (intorno ai due decimi di punto di pil) degli investimenti a livello nazionale e al livello territoriale, in quest’ultimo caso con utilizzo non meglio chiarito di avanzi di amministrazione degli esercizi precedenti.
Un quadro di interventi che appare confuso, ben lontano dal delineare una nuova strategia organica di politica industriale e che di fatto continua a mettere in campo risorse del tutto insufficienti. In tal modo non è certo possibile affrontare i problemi di competitività dell’industria e dell’intero apparato produttivo italiano, che stanno condannando al declino il sistema Paese e il Mezzogiorno alla desertificazione economica. La FIOM e l’intera CGIL non possono che mobilitarsi e avviare una vertenza sindacale con il governo per rilanciare la competitività del Paese.