Giorgio Lunghini: lo spessore di un intellettuale

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Political and social notes

Giorgio Lunghini | “Nel corso della sua storia l’economia, scienza che non progredisce, si è via via ridotta ad una ‘tecnica di pensiero’ che non fornisce alcun ‘risultato concreto immediatamente applicabile alla pratica.’ Fattasi teoria pura, la teoria economica non comprende più né una teoria della distribuzione, né una teoria della crescita, che sappiano spiegare le disarmonie in cui consistono le leggi di movimento dei sistemi economici reali: costringendo così all’eclettismo o all’improvvisazione”[1].

Così Giorgio Lunghini – che ci ha lasciato ieri 22 Dicembre – apriva nel 1975 la XVI riunione scientifica della Società Italiana degli Economisti.

Lontanissimo dall’eclettismo e dall’improvvisazione, il professor Lunghini si è impegnato lungo tutta la sua vita intellettuale per fare dell’economia politica (e della sua critica) anzitutto un elemento fondamentale della cultura generale[2]. Ha insegnato infatti, con una capacità didattica e divulgativa più unica che rara, che l’oggetto di questa “scienza impropria” non è un rapporto fra cose, ma un rapporto sociale determinato fra uomini[3]. Non lo ha fatto esclusivamente dalla cattedra – alla Statale di Milano, alla Bocconi e a Pavia dove ha fondato uno dei primi dottorati italiani – ma partecipando attivamente e in modo sempre misurato ed intelligente al dibattito politico. Il suo atteggiamento, equilibratissimo anche quando sosteneva ragionamenti scomodi e inattuali, era lo stesso sia che fosse dinanzi ad una platea di militanti, sia che stesse relazionando all’Accademia dei Lincei (di cui era socio per la Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche): spingeva, con garbo e finezza logica, a prendere sempre in seria considerazione i suoi ragionamenti sulla dimensione politica di quelle categorie economiche che il mainstream riduce a parametri (il denaro e le macchine), sulla necessità di pensare il sistema economico come ad una economia monetaria di produzione caratterizzata da instabilità, sull’opportunità di ricondurre al centro del ragionamento il divario fra i bisogni sociali insoddisfatti e la disoccupazione dilagante, sulla necessità di leggere i Classici, primi fra tutti Ricardo, Marx, Keynes e Sraffa. Sulle lezioni per i nostri nipoti ricavabili da questo quartetto aveva scritto nel 2012 un libro di cui era particolarmente soddisfatto: Conflitto crisi incertezza. Le teoria economica dominante e le teorie alternative[4].

Troppi cultori della scienza economica hanno sottovalutato gli insegnamenti di Giorgio Lunghini, anche quando è stato presidente della Società Italiana degli Economisti, nei duri tempi delle riforme concorsuali e dell’introduzione dei criteri di valutazione della ricerca sui quali non ha mai nascosto il suo grande scetticismo. Uno dei suoi insegnamenti più importanti è che tener viva la differenza fra economia politica ed economics consente di poter recuperare punti di vista sommersi e dimenticati ma fondamentali proprio per comprendere e governare il funzionamento del sistema economico in cui viviamo. Un esempio su tutti: se si analizza la produzione come un processo circolare, il problema economico principale diviene il seguente, come si distribuisce il sovrappiù fra le classi sociali che hanno partecipato al processo produttivo? “Se si assume che le sussistenze dei lavoratori siano determinate da circostanze storiche e sociali, oltre che dalle esigenze fisiologiche, si avrà che la quota del prodotto sociale di cui si appropriano rentiers e capitalisti ha natura residuale … . Inoltre si avrà che il saggio dei profitti dipende non dalle condizioni tecniche della produzione (come invece è nella teoria moderna), ma anche, e secondo una relazione inversa, dal saggio di salario. Tra salario e profitto, tra lavoratori e capitalisti (ma anche tra questi e i rentiers) vi è dunque conflitto, non armonia.”[5] In questo orizzonte teorico Lunghini aveva saputo riportare l’attenzione sulla lettura gramsciana del fordismo: “il fordismo risultava dalla necessità di superare il vecchio individualismo economico per giungere alla organizzazione di una economia programmatica, al fine di contrastare la caduta del saggio dei profitti”[6].  La crisi dell’economia programmatica ha a che fare con l’incapacità di prendere quelle decisioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, decisioni che spesso hanno a che fare con la relazione conflittuale fra capitalisti e lavoratori non solo per ciò che concerne la distribuzione dei redditi, ma anche per quanto riguarda la salubrità dell’ambiente, la salute delle persone, l’istruzione e l’ozio (ciò che Giorgio amava chiamare, ricorrendo ad un espressione di Ezra Pound, il “tempo libero liberato dall’ansia”[7]).

I cultori del pensiero critico, che sono spesso influenzati dalla contingenza del momento, o sono conquistati dall’illusione che una particolare congiuntura politica possa aprire scorciatoie verso tempi migliori, troveranno negli scritti di Giorgio un’acutezza analitica e un senso pratico che potrebbe aiutarli a programmare: “ci sono eccellenti ragioni teoriche, oltre che pratiche, per non credere al principio del laissez faire e per aderire alla Filosofia sociale di un autore, Keynes, non marxista ma più radicale di qualsiasi economista contemporaneo: i difetti più evidenti della società economica in cui viviamo sono l’incapacità a assicurare la piena occupazione e una distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito; occorre dunque una redistribuzione, per via fiscale, della ricchezza e del reddito, un governo della moneta inteso all’eutanasia del rentier e una socializzazione di una certa ampiezza del processo di accumulazione del capitale. Dunque occorre non un minore, ma un maggiore intervento dello Stato.”[8]

Chi, come me, ha vissuto con grande speranza l’esperienza dei movimenti alter-globalisti, tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000,  proprio mentre aveva la fortuna di dialogare con Giorgio nelle aule universitarie o in qualche circolo culturale a Milano, oggi dovrebbe tornare con grande onestà a riflettere su una sua critica breve, garbata ed incisiva: “i contestatori semplicemente si ribellano a questa globalizzazione e si oppongono al suo governo a-democratico e ai suoi effetti. Nessun uomo di buona volontà potrebbe contestarne le ragioni e le istanze; ma proprio per questo è ingenua e rischiosa la loro speranza di affermarle contrapponendo il modello relazionale alle forme strutturate di organizzazione, anziché cercare una integrazione tra i due modi di fare politica. La reazione può essere, anziché lo Stato sociale, una nuova legge sui poveri (che, come si sa, prevedeva che sotto forma di elemosina la parrocchia integrasse il salario nominale fino alla somma minima richiesta per la pura e semplice vegetazione dell’operaio); oppure quella suscitata dai Ludditi: ‘la distruzione in massa di macchine nei distretti manifatturieri inglesi durante i primi quindici anni del secolo XIX offrì, sotto il nome di movimenti dei Ludditi, il pretesto per violenze ultrareazionarie al governo antigiacobino d’un Sidmouth, Castlereagh, ecc.’”[9]

 

*Università degli Studi di Bergamo

 

[1] G. Lunghini, La crisi dell’economia politica e la teoria del valore, Feltrinelli, 1977, p. 5.

[2] Occorre a tal proposito ricordare lo splendido Dizionario di Economia Politica in 16 volumi, da lui curato con la collaborazione di Mariano D’Antonio, per Boringhieri tra il 1982 e il 1990.

[3] Questo è il filo rosso individuabile in tutti i suoi interventi e in particolare in G. Lunghini, Scritti Lincei 1995-2015, Atti della Accademia Nazionale dei Lincei, Bardi Edizioni, 2015

[4] G. Lunghini, Conflitto Crisi Incertezza. La teoria economica dominante e le teorie alternative, Bollati Boringhieri, 2012.

[5] G. Lunghini, “Sraffa e il contesto”, Atti dei Convegni Lincei 200, 2004, ora in G. Lunghini Scritti Lincei 1995-2015, Atti della Accademia Nazionale dei Lincei, Bardi Edizioni, 2015, p. 301.

[6] G. Lunghini, “Cambiamento tecnico e bisogni sociali”, Atti dei Convegni Lincei 172/1, 2001, ora in G. Lunghini Scritti Lincei 1995-2015, Atti della Accademia Nazionale dei Lincei, Bardi Edizioni, 2015, p. 229.

[7] G. Lunghini, “With usura contra natura”, prefazione a E. Pound, L’ABC del’economia e altri scritti, Bollati Boringhieri, 1994.

[8] G. Lunghini, “Uno Stato no global”, il manifesto, 31 agosto 2001.

[9] G. Lunghini, “Uno Stato no global”, il manifesto, 31 agosto 2001.

 

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