Fiscal Compact | Nel corso degli ultimi 20 anni la direzione seguita a livello europeo è stata quella di una crescente rigidità nelle regole fiscali anche oltre quanto già previsto dal Trattato di Maastricht del 1992, fino ad arrivare, nel marzo del 2012, al Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione Economica e Monetaria, noto come Fiscal Compact e firmato da tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, esclusi il Regno Unito e la Repubblica Ceca. Come è noto, il Fiscal Compact prevede il rispetto di due regole principali in materia di finanza pubblica: (i) un sostanziale pareggio di bilancio, o più precisamente, il divieto per il deficit strutturale del settore pubblico di superare lo 0,5% del Pil nel corso di un ciclo economico; e (ii) che il rapporto debito pubblico/Pil scenda ogni anno di un ventesimo della distanza tra il suo livello effettivo e la soglia-obiettivo del 60% prevista nel Trattato di Maastricht.
Per quanto dal 2012 la Commissione Europea abbia concesso ai diversi Stati, tra cui l’Italia, deroghe alle regole imposte dal Fiscal Compact, ci si può chiedere – anche alla luce di alcune proposte di riforma che ne prospettano un inasprimento in vista di una possibile politica fiscale europea[2] – cosa accadrebbe se si imponesse ai singoli Stati anche solo il puntuale rispetto delle regole fiscali finora previste. In particolare, ci si può chiedere quali effetti diverse regole di politica fiscale potrebbero avere sull’andamento del rapporto debito pubblico/Pil. Come si vedrà, qualora si ammetta che il trend del reddito dipende dalle variazioni nelle componenti autonome della domanda aggregata, una politica fiscale restrittiva che segua le regole del Fiscal Compact non determinerà necessariamente una riduzione di quel rapporto. Inoltre, anche qualora tale riduzione fosse alla fine ottenuta, ciò avverrebbe a costo di consistenti perdite di ricchezza netta del settore privato ed un sostanziale impoverimento della popolazione.
Il presente articolo è organizzato come segue: (i) nel paragrafo 1 verranno discussi i risultati di lavori empirici che hanno analizzato gli effetti delle recenti politiche fiscali restrittive; (ii) nel paragrafo 2 verrà presentata una simulazione circa l’evoluzione del rapporto debito pubblico/Pil qualora il tasso di crescita del reddito sia considerato costante ed indipendente dalle politiche fiscali implementate; (iii) nel paragrafo 3 l’analisi è estesa al caso in cui si considerino gli effetti sul Pil derivanti dalla politica restrittiva; (iv) nel paragrafo 4 viene rimossa l’ipotesi di indipendenza degli investimenti rispetto alla politica fiscale adottata; (v) il paragrafo 5 conclude.
1.La crisi del 2007 e gli effetti del fiscal compact
A base del Fiscal Compact e delle posizioni della Commissione Europea vi è l’idea che i deficit fiscali si traducano in una riduzione degli investimenti privati ed abbiano un effetto negativo sulle potenzialità di crescita del sistema economico. Diverso è il punto di vista keynesiano: in economie che normalmente funzionano al di sotto dei loro livelli di piena occupazione, la spesa pubblica avrà un effetto espansivo sul reddito sia direttamente che per effetto dell’aumento degli investimenti privati che l’incremento di spesa pubblica e quindi del reddito potrà determinare.
Nella filosofia a base delle prescrizioni della Commissione europea, l’effetto negativo di politiche fiscali espansive deriverebbe in primo luogo dalle ripercussioni che si ritiene esse avranno sul costo del servizio del debito pubblico. Quando tali politiche non siano finanziate con emissione di moneta – di cui è fatto esplicito divieto nei trattati istitutivi della Banca Centrale Europea – esse determinerebbero infatti un aumento dei tassi di interesse spiazzando così la spesa privata. I valori dei moltiplicatori fiscali risulterebbero pertanto bassi o persino negativi, e si manifesterebbe di conseguenza un aumento del rapporto debito pubblico/Pil e dunque ulteriori pressioni al rialzo sui tassi di interesse per il maggior rischio associato al debito sovrano. Anche solo una stabilizzazione di quel rapporto potrebbe allora ottenersi unicamente con avanzi primari tali da compensare la crescente spesa per interessi. Inoltre, solo politiche fiscali restrittive in grado di abbassare il rapporto debito pubblico/Pil e con ciò i tassi dell’interesse potrebbero effettivamente liberare risorse per la crescita e l’occupazione – ed avere così, almeno nel medio periodo, un carattere espansivo.[3]
Come previsto da autori di ispirazione Keynesiana, l’applicazione di questa idea dell’austerità espansiva ha portato ad aumenti piuttosto che a riduzioni del rapporto debito-pubblico Pil nei paesi costretti ad adottare politiche di consolidamento fiscale, e ciò in particolare nel corso della crisi dei debiti sovrani del 2009-2010. Come ammesso anche dal Fondo monetario internazionale,[4] i moltiplicatori fiscali sono risultati di fatto più elevati di quelli precedentemente stimati e dunque gli effetti negativi sul reddito e sulle entrate fiscali dei tagli di spesa maggiori di quelli inizialmente previsti. Born, Müller, e Pfeiffer (2015) hanno calcolato che in periodi di “stress fiscale” i tagli di spesa riducono la produzione di circa un punto percentuale per un periodo prolungato determinando al tempo stesso (almeno per un certo periodo) un aumento del rapporto debito pubblico-Pil e dello spread sui tassi di interesse dei titoli di Stato a lungo termine.[5] Analogamente, Hall (2012) ha sottolineato come dalla crisi finanziaria del 2008 le riduzioni dei disavanzi pubblici siano state correlate ad un calo del Pil a differenza di quanto sostenuto dai teorici dell’austerità espansiva, con la conseguenza (cf. anche Batini, Callegari e Melina, 2012) che l’austerità non ha generato il risparmio fiscale atteso. Il costo del consolidamento fiscale e l’inefficacia delle misure di austerità sono risultati d’altra parte maggiori nelle economie che presentano moltiplicatori fiscali relativamente più elevati come i paesi dell’Europa meridionale (cfr. Sanchez e Sebastian 2013), determinando in questi paesi una forte caduta dell’occupazione. Come sottolineato anche da Truger (2013), assumendo un valore del moltiplicatore pari a 1, dal 2009 al 2012 il consolidamento fiscale ha portato ad una perdita del Pil del 3,5% per la media dell’area dell’euro rispetto allo scenario base senza misure di consolidamento, con notevoli differenze tra paesi: le perdite risulterebbero pari al 4,3% in Italia, al 5,7% in Spagna, al 10,3% in Portogallo, al 13,7% in Grecia ed al 14,8% in Irlanda.
Questi risultati sono in linea con quelli di Das e El Husseuiny (2018) che – utilizzando dati per 175 paesi dal 2000 al 2014 – hanno evidenziato come tagli della spesa pubblica potrebbero portare ad un più alto rapporto deficit pubblico/Pil per circa la metà dei paesi di tutto il mondo. Gli studi che evidenziano moltiplicatori fiscali vicini a o maggiori dell’unità sono d’altra parte ormai numerosi, sia con riferimento alla spesa pubblica complessiva che nel caso degli investimenti pubblici.[6] La conclusione che se ne trae è che, al contrario di quanto previsto dall’austerità espansiva, il rispetto del Fiscal Compact non potrebbe che avere pesanti conseguenze sul benessere della popolazione. Ciò si verificherebbe anche qualora si ipotizzasse costante il tasso di crescita del Pil reale a fronte degli interventi di consolidamento fiscale. Come mostrato da Gattei e Iero (2014), anche sotto questa ipotesi occorrerebbe infatti nel caso dell’Italia realizzare e mantenere per vent’anni un avanzo primario in media del 4,4%, il che ovviamente, come sottolineano gli autori, non potrebbe che determinare ricadute sulla dinamica del Pil, oltre che implicare un forte ridimensionamento della spesa sociale e degli investimenti pubblici. L’analisi che segue rappresenta un approfondimento dei calcoli di Gattei e Iero: ciò che si mostrerà è che, tenendo conto del possibile impatto del consolidamento fiscale sull’andamento del reddito, il rapporto debito pubblico-Pil potrà persino aumentare piuttosto che diminuire rendendo l’aggiustamento verso i valori previsti dal Fiscal Compact praticamente impossibile in un definito orizzonte temporale.
2.La simulazione del rapporto debito pubblico/Pil nel caso di tasso di crescita del reddito costante
Volendo effettuare una simulazione dell’andamento del rapporto debito pubblico-Pil in presenza di diverse politiche fiscali alternative, si è in primo luogo quantificato, per il periodo di tempo che va dal 2018 al 2035, l’avanzo primario necessario a conseguire l’obiettivo del Fiscal Compact di ridurre ogni anno di un ventesimo lo scostamento tra il peso del debito pubblico sul Pil dell’anno precedente e il parametro indicato dal Trattato di Maastricht del 60%, tenendo presente che il saldo complessivo dei conti pubblici non può salire al di sopra di un deficit strutturale dello 0,5% del Pil. Questa politica è stata considerata come restrittiva (R) rispetto alla politica vigente (A) per la quale, invece, si è considerato costante, dal 2018 al 2035, il rapporto deficit pubblico-Pil registrato nel 2017 pari a 2,3 punti percentuali. Per analizzare l’evoluzione nel tempo del rapporto tra debito pubblico e Pil nominale si è utilizzata con riguardo al debito pubblico la relazione:
Bt=B t-1(1+i) – APt (1)
e per il reddito:
Yt=Y t-1 (1+g)(1+π) (2)
dove B t-1 ,Bt e Y t-1 ,Yt, rappresentano il Pil nominale e l’ammontare del debito pubblico rispettivamente al tempo t-1 e al tempo t, g rappresenta il tasso di crescita reale del Pil, π il tasso di inflazione, i il tasso di interesse medio sul debito pubblico, e infine APt indica l’avanzo primario dei conti pubblici al tempo t. L’evoluzione del rapporto tra debito pubblico e Pil nominale si può simulare una volta definita la base di partenza al tempo zero, che nel nostro caso coinciderà con i dati del 2017, ipotizzando i valori futuri di quattro parametri: il tasso di interesse medio sul debito pubblico, l’avanzo primario dei conti pubblici, il tasso di crescita reale del Pil e l’inflazione. In particolare, nella nostra analisi si è preso inizialmente in considerazione il seguente scenario:
- un tasso di crescita del Pil reale dell’1,502%, costante dal 2018 al 2035;[7]
- un tasso di inflazione dello 0,6291% costante dal 2018 al 2035;[8]
- un tasso medio di interesse sul debito del 2,8% per il 2018, del 2,7% per il 2019, del 2,8% per il 2020 e del 2,9% per il 2021 (come riportato nel DEF 2018) che viene proiettato fino al 2035.
Considerando l’obiettivo della politica restrittiva (R) di una riduzione ogni anno di un ventesimo tra lo scostamento del debito sul Pil dell’anno precedente e il parametro del 60%, e considerando che il deficit del settore pubblico non può superare lo 0,5%, si può simulare l’avanzo primario necessario per conseguire l’obiettivo previsto dal fiscal compact nei diversi scenari ipotizzati.[9] Lo stesso esercizio di simulazione è stato poi ripetuto considerando una politica che, come detto, abbiamo definito politica vigente (A), dove invece si è considerato costante dal 2018 al 2035 il rapporto deficit Pil registrato nel 2017 pari a 2,3 punti percentuali, da cui deriverà ogni anno un determinato avanzo primario.
Nell’Appendice 1 sono riportati i risultati completi dell’analisi di simulazione della politica restrittiva (R) e della politica vigente (A) (Tabella A1.1 e A1.2). Per agevolare l’analisi dei risultati ottenuti, nella Tabella 1 si riporta solo il confronto degli andamenti dei rapporti debito pubblico/Pil e avanzo primario/Pil nel caso della politica (R) e della politica (A) senza considerare per ora i possibili effetti negativi sul reddito prodotti da una minor spesa pubblica.
Per soddisfare i vincoli richiesti dal Fiscal Compact (politica R) nel periodo considerato (2018-2035) l’avanzo primario in rapporto al Pil medio risulterebbe essere pari al 3,2 %. L’entità dell’avanzo primario (in termini di Pil) risulterebbe in progressiva discesa a partire dal massimo previsto per il 2018 (4,4% del Pil per un ammontare pari a 77,838 miliardi) (Tabella 1).[10]Alla fine del periodo da noi considerato (2035) l’avanzo primario richiesto per il rispetto delle regole del fiscal compact dovrebbe ancora attestarsi al 2,2% (pari a 54,531 miliardi), un livello più elevato di quello attuale (1,5% per un ammontare di 25,94 miliardi). Il rapporto debito pubblico/Pil nel 2035 risulterebbe inoltre essere pari all’88,54%, valore che è superiore al valore “soglia” del 60%. Sarebbero quindi richiesti ulteriori sforzi negli anni successivi in termini di un maggior prelievo fiscale ed una minore spesa pubblica. Nello scenario delineato il rapporto debito/Pil risulterebbe essere inferiore al valore “soglia” del 60% soltanto a partire dal 2064.[11]
Con riferimento alla politica A possiamo notare come mantenendo costante il rapporto deficit pubblico/Pil al 2,31% l’avanzo primario medio risulta essere pari all’1,3% nel periodo 2018-2035. Al tempo stesso, il rapporto debito/Pil risulta essere decrescente perché il denominatore del rapporto (il Pil nominale) nelle ipotesi fatte cresce più velocemente nel tempo rispetto al numeratore (lo stock di debito), passando in particolare da un valore di 131,81% nel 2017 ad un valore di 124,96% nel 2035 (Tabella 1). Confrontando gli andamenti dei rapporti debito pubblico/Pil nel caso della politica vigente (A) e nel caso della politica restrittiva (R), si nota come, in ogni periodo, la politica restrittiva (R) determina rapporti debito pubblico/Pil più bassi rispetto alla politica vigente (A). La politica restrittiva (R) determina infatti nel 2018 un minor rapporto debito pubblico/Pil pari a 128,22% (contro il valore di 131,36% della politica A), fino ad arrivare al 2035 dove si realizza un valore di 88,54%, (contro il valore di 124,96% della politica A (Tabella 1). Il risultato è ovviamente raggiunto con avanzi primari significativamente maggiori che nel caso della politica vigente, e dunque con tagli alla spesa sociale e agli investimenti pubblici maggiori di quelli attualmente previsti.[12]
Tabella 1. Rapporto debito pubblico/Pil ed avanzo primario per la politica vigente (A) e per la politica restrittiva (R) nell’ipotesi di tasso di crescita costante
3.Il confronto tra politiche alternative nel caso di effetto della politica restrittiva (R) sul tasso di crescita del reddito reale
Possiamo a questo punto domandarci cosa accadrà all’andamento del rapporto debito pubblico/Pil nel caso in cui si considerino gli effetti sul Pil derivanti dalla politica restrittiva, per verificare in particolare se, nei casi da noi considerati, sussistano le condizioni per effetti perversi sul rapporto debito/Pil. Per semplicità assumeremo in prima istanza l’indipendenza degli investimenti rispetto alla politica fiscale per poi introdurre anche tale effetto. Per poter considerare l’andamento del rapporto debito/Pil nelle due politiche dobbiamo definire sia il numeratore che il denominatore del rapporto rispettivamente nella politica A e nella politica R. Riprendendo le relazioni (1) e (2), nel caso della politica A avremo:
BAt= BAt-1 (1+i)- APt (3)
YAt=YA t-1 (1+g)(1+π) (4)
dove BAt-1 ,BAt e YA t-1 ,YAt rappresentano lo stock di debito e il Pil che si avrebbero con la politica A rispettivamente nel periodo t-1 e nel periodo t, g rappresenta il tasso di crescita reale del Pil e π il tasso di inflazione come mostrati nella tabella A1.1 e A1.2, mentre APt indica l’avanzo primario del periodo t. Per calcolare il rapporto debito pubblico/Pil prodotto dalla politica restrittiva (R) si sono invece utilizzate le relazioni (cfr. Ciccone, 2002 e 2013):
BRt=BAt– (1-mz) ∑ s=t s=1 ∆GRs (1+i) t-s (5)
YRt=YAt – m∆GRt (6)
dove BRt, BAt e YRt , YAt rappresentano lo stock di debito e il Pil che si avrebbero rispettivamente con la politica restrittiva R e con la politica A, m= 1/ (1- c(1-z))è il valore del moltiplicatore keynesiano,[13] c è la propensione media e marginale al consumo del settore privato, z è l’aliquota fiscale media e marginale, i è il tasso medio sul debito e ∆GRs rappresenta la variazione di spesa pubblica che si realizza attuando la politica restrittiva (R) rispetto allo scenario vigente (A). Lo stock di debito nel caso della politica restrittiva sarà al tempo t minore che nel caso della politica vigente sia per i maggiori avanzi primari ottenuti dal tempo s = 1 al tempo t grazie alle riduzioni di spesa pubblica ∆GRs al netto delle minori entrate fiscali mz ∆GRs sia per la minore spesa per interessi derivante dalla riduzione dello stock di debito pubblico.[14] Analogamente il reddito al tempo t nel caso della politica restrittiva sarà minore di quello nel caso della politica vigente A per un ammontare pari alla variazione di reddito – m∆GRt derivante dalla politica fiscale restrittiva.
Nella nostra analisi si ipotizzeranno un valore della aliquota fiscale media e marginale di 0,43 e diversi valori del moltiplicatore m: un valore del moltiplicatore pari a 1,8, un valore del moltiplicatore pari a 0,95 ed un valore del moltiplicatore pari a 1,55.[15] Riguardo al tasso di interesse i, continueremo a prendere in considerazione i valori riportati nel DEF 2018 (come mostrato dalle tabelle A1.1 e A2.1), mentre per ∆GRt si è fatta l’ipotesi che l’ammontare di riduzione della spesa pubblica sia quello definito dalla differenza tra gli avanzi primari calcolati in corrispondenza delle due diverse politiche alternative (A) e (R) nello scenario di tasso di crescita costante del Pil. [16] Affinché si possa verificare una riduzione del rapporto debito pubblico-Pil, la riduzione proporzionale che il reddito subisce per effetto della politica restrittiva deve essere inferiore alla riduzione proporzionale che il debito subisce per effetto della politica restrittiva. Si dovrà cioè avere che:
(∆YRt)/(YAt) < (∆BRt)/(BAt )
Quindi, affinché la politica restrittiva non produca effetti perversi sull’andamento del rapporto debito pubblico Pil si deve realizzare la condizione:
dove, seguendo Ciccone (2013), chiamiamo il membro che compare a destra della diseguaglianza (7) “soglia di inversione” per ogni periodo t ipotizzato, perché, fintanto che BtA/YtA risulta superiore a tale soglia, il rapporto debito pubblico/Pil BtR/YtR associato alla politica restrittiva R si troverà al di sopra del rapporto debito pubblico/Pil risultante dalla politica A. Quindi fino a quel momento l’effetto della politica restrittiva potrebbe essere “perverso”, avere cioè un segno opposto rispetto a quello atteso. Soltanto quando il rapporto debito/Pil derivante dalla politica A risulta essere inferiore al valore della soglia di inversione, il rapporto debito/Pil prodotto dalla politica restrittiva R risulterà essere inferiore al rapporto debito/Pil prodotto dalla politica A e quindi la politica restrittiva risulterà essere efficace nel ridurre il rapporto debito pubblico/Pil.
Nella Tabella 2 vengono mostrati i risultati dell’analisi di simulazione considerando gli effetti sul Pil della riduzione di spesa pubblica. Si può notare come i risultati ottenuti differiscano a seconda del valore del moltiplicatore utilizzato, e che, fintanto che il rapporto debito/Pil prodotto dalla politica A risulta essere maggiore del valore della soglia di inversione come sopra definita ed evidenziata nella tabella, il rapporto debito pubblico/Pil prodotto dalla politica R risulta essere maggiore rispetto al rapporto debito/Pil che si avrebbe attuando la politica vigente A (Tabella 2).
A differenza di quanto si aveva nella simulazione precedente con tasso di crescita del prodotto costante nel tempo (si veda Tabella 1), considerando il valore del moltiplicatore di 1,8 la politica restrittiva (R) per 7 anni (fino cioè al 2024) determina un rapporto debito pubblico/Pil maggiore rispetto al caso della politica vigente (A). Soltanto dall’anno 2025 il rapporto debito pubblico/Pil prodotto dalla politica A (128.44%) diventa maggiore del rapporto debito pubblico/Pil prodotto dalla politica R (128.31%). I risultati sono diversi nel caso in cui si considera un moltiplicatore di 1,55 e di 0,95 dove il numero di anni in cui la politica restrittiva determina un effetto perverso sull’andamento del rapporto debito pubblico/Pil si riduce rispettivamente a 5 e 2 anni (Tabella 2).
Tabella 2: Soglia di inversione e debito pubblico/Pil nel caso della politica (A) e della politica (R) nell’ipotesi di effetti sul Pil della riduzione della spesa pubblica e diversi valori del moltiplicatore m.
È importante a questo punto sottolineare come la riduzione del rapporto debito/Pil della politica R, rispetto a ciò che si sarebbe avuto con la politica A, è ottenuta attraverso una riduzione sia dello stock di debito che del prodotto interno lordo, con lo stock di debito che diminuisce proporzionalmente di più del Pil dopo un certo numero di periodi a causa dell’azione cumulativa sia dei tagli alla spesa che degli interessi più bassi.[17] Gli effetti perversi sul rapporto debito/Pil sono quindi la manifestazione di un cambiamento nel livello di trend della produzione, causati dalla modifica restrittiva nella politica fiscale, e dovrebbero essere tenuti distinti da qualsiasi tipo di conseguenze a breve termine dovute a circostanze temporanee o alle reazioni degli agenti a tale politica. Qualora poi la politica fiscale restrittiva dovesse tener conto dello scostamento dai suoi obiettivi originari (nel 2018 il rapporto debito pubblico/Pil obiettivo del Fiscal Compact risulta essere pari a 128,22 (Tabella A1.1)), dovrebbero prevedersi ulteriori tagli di spesa con ulteriori effetti negativi sul reddito.
4.Il confronto tra politiche alternative nel caso di effetto negativo sugli investimenti privati della politica fiscale restrittiva (R)
Fino ad ora nella nostra analisi si è assunto che gli investimenti privati non si modificassero a seguito della politica fiscale adottata. Rimuoviamo ora tale ipotesi di indipendenza degli investimenti rispetto alla politica fiscale adottata per tener conto che i minori livelli di spesa pubblica, generando minori livelli di domanda e di reddito, potrebbero influire negativamente sulle spese per investimenti del settore privato e quindi sui livelli di domanda e di reddito dei periodi successivi. In altri termini, ipotizziamo in base al principio dell’acceleratore che gli investimenti siano influenzati dall’andamento della domanda aggregata piuttosto che dal tasso di interesse come nelle tradizionali funzioni di investimento.
Indichiamo con ΔIsR la riduzione (considerata come algebricamente positiva) degli investimenti privati lordi che nel generico periodo s risultano essere associati alla politica fiscale R rispetto a quelli che si sarebbero potuti avere nel medesimo periodo con la politica A. Ipotizziamo in particolare che
ΔIsR =k*m* ΔGsR (8)
dove il valore di k utilizzato nell’analisi risulta essere di 0,3[18] e definiamo, in questa nuova situazione, sia il numeratore che il denominatore del rapporto rispettivamente nella politica A e nella politica R. Per calcolare il rapporto debito/Pil prodotto dalla politica A abbiamo considerato di nuovo le relazioni (3) e (4) della precedente sezione, mentre per il calcolo del rapporto debito pubblico/Pil prodotto dalla politica restrittiva abbiamo utilizzato le relazioni[19]:
BRt= BAt – (1-mz) ∑ t s=1 ΔGsR (1+i)t-s + mz ∑ t s=1 ΔIsR (1+i)t-s (9)
YRt= YAt – m (ΔGtR + ΔItR) (10)
La soglia di inversione in ciascun periodo come sopra definita risulta ora determinata dalla relazione
in cui si tiene conto al numeratore dell’effetto sul debito delle minori entrate fiscali derivanti dalla riduzione degli investimenti dal periodo s = 1 al periodo t, e al denominatore dell’effetto sul reddito della diminuzione degli investimenti a seguito della politica R.[20]
Nella Tabella 3 vengono mostrati i risultati dell’analisi di simulazione dove si è ipotizzato che le variazioni degli investimenti avvengano dal primo periodo (2018). Si nota come ancora una volta i risultati ottenuti differiscano a seconda del valore del moltiplicatore utilizzato e che, fintanto che il rapporto debito/Pil prodotto dalla politica A risulta essere maggiore del valore della soglia di inversione, il rapporto debito pubblico/Pil prodotto dalla politica R risulta essere maggiore rispetto al rapporto debito/Pil che si avrebbe attuando la politica vigente A.
Dalla Tabella 3 è possibile vedere come, nel caso di valori del moltiplicatore di 1,55 e di 1,8, il rapporto debito/Pil prodotto dalla politica A risulta essere maggiore del valore della soglia di inversione in ciascun periodo analizzato, e quindi il rapporto debito pubblico/Pil prodotto dalla politica R risulta sempre essere maggiore rispetto al rapporto debito/Pil che si avrebbe attuando la politica vigente A nell’orizzonte temporale considerato 2018-2035.
Nel caso di m = 1,8 la riduzione degli investimenti risulta essere così marcata da rendere il valore della soglia di inversione negativo. La politica fiscale restrittiva produce quindi permanentemente effetti perversi sull’andamento del rapporto debito pubblico Pil. Le variazioni nel livello degli investimenti sono così marcate da fare in modo che la riduzione del reddito derivante dalla politica restrittiva risulti essere maggiore rispetto alla riduzione dello stock del debito pubblico, vanificando in questo modo gli sforzi di politica fiscale. Dalla Tabella 3 si può notare infatti che si parte da un valore nel 2018 della politica R di 144,52% (contro il valore di 131,36% della politica A), fino ad arrivare ad un valore di 135,42% nel 2035 (contro il valore di 124,96% della politica A).
Tabella 3: Soglia di inversione e debito pubblico/Pil per la politica A e la politica R nel caso in cui si considerino gli effetti sugli investimenti (dal 2018) della politica fiscale restrittiva ipotizzando diversi valori del moltiplicatore m.
Nel caso di m=1,55 le variazioni degli investimenti sono molto marcati, ma tali da non rendere la soglia di inversione negativa; questo fa si che gli effetti perversi sul rapporto debito pubblico/Pil non risultino essere permanenti, ma ne allungano l’intensità rispetto al caso in cui non si considerino gli investimenti dipendenti dalla politica fiscale adottata. In particolare, il rapporto debito pubblico Pil prodotto dalla politica R risulterebbe essere inferiore rispetto a quello prodotto dalla politica A solo a partire dal 2050 (dati non mostrati). A tale proposito ricordiamo come nel caso di investimenti esogeni, per un valore di m=1,55 la politica restrittiva produceva effetti perversi fino al 2022 (Tabella 2). Nell’arco di tempo da noi analizzato la politica restrittiva R produce rapporti debito pubblico/Pil sempre maggiori di quelli che si sarebbero avuti attuando la politica A: si parte da un valore del 2018 con la politica restrittiva di 141,34% (contro il valore di 131,36% con la politica A), fino ad arrivare ad un valore di 126,76% (contro il valore di 124,96% con la politica A) (Tabella 3).
Per m=0,95 la riduzione degli investimenti risulta essere tale da generare un valore della soglia elevato e crescente. Il numero di anni in cui la politica restrittiva determina un effetto perverso sull’andamento del rapporto debito pubblico/Pil aumenta però di un solo anno rispetto al caso in cui gli investimenti si considerino esogeni. Infatti, nel caso di investimenti esogeni (Tabella 2) il rapporto debito pubblico/Pil prodotto dalla politica A (130,48%) diventa maggiore di quello prodotto dalla politica R (128,59%) nel 2020, mentre considerando gli investimenti dipendenti dalla politica fiscale adottata il rapporto debito pubblico/Pil prodotto dalla politica A (130,05%) diventa maggiore del rapporto debito pubblico/Pil prodotto dalla politica R (128,62%) a partire dal 2021 (Tabella 3).
5.Conclusioni
Con il presente lavoro si è voluto mettere in evidenza come, quando si ammetta che il trend del reddito sia determinato da quello della domanda aggregata, gli effetti prodotti da persistenti avanzi pubblici tesi a ridurre il rapporto debito pubblico/Pil saranno diversi da quelli considerati in un approccio teorico tradizionale e tali da generare andamenti ‘perversi’ di quel rapporto. Ovviamente, l’analisi qui svolta risulta essere frutto di tutta una serie di assunzioni e semplificazioni, ed i risultati ottenuti essere sensibili ai valori attribuiti in particolare ai moltiplicatori fiscali. Essa però esemplifica quanto accaduto in Italia dopo la crisi dell’autunno del 2011 quando si sono avviate politiche di restrizione fiscale per riportare il rapporto di indebitamento sotto la soglia del 3% senza che ciò determinasse una riduzione del rapporto debito Pil ma anzi un suo incremento da 120,7 nel 2011 a 133 nel 2013 (cfr. Paternesi e Stirati, 2018). Per quanto infatti altri fattori possano avere in quegli anni concorso a rallentare la crescita del Pil, una politica fiscale restrittiva, se migliora il bilancio dello Stato, determina una riduzione del reddito e può dunque avere effetti perversi sul rapporto debito pubblico/Pil.
Qualora quindi la Commissione Europea imponesse nei prossimi anni il puntuale rispetto delle regole previste nel Fiscal Compact, i costi sociali e quelli in termini di potenzialità di crescita del sistema economico potrebbero risultare molto elevati e soprattutto non implicare necessariamente un miglioramento del rapporto debito pubblico/Pil. Una riforma dell’architettura istituzionale europea tesa a garantire maggiori spazi di manovra fiscale[21] o alternativamente trasferimenti di reddito verso i paesi cui fosse richiesto un forte consolidamento fiscale, e/o una riforma concordata[22] tra paesi nel regime monetario, appare dunque l’unica strada percorribile per evitare un declino del paese ed un impoverimento crescente della popolazione.
*Università degli Studi Roma Tre
Appendice 1
Tabella A1.1 Risultati simulazione (politica restrittiva R)
*bt=bt-1-(bt-1-60%)/20; **Tasso di crescita del Pil reale + Tasso di inflazione; *** Spesa per interessi (t) / Stock debito (t-1)
Tabella A1.2 Risultati simulazione (politica vigente A)
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[2] Per una sintesi delle diverse proposte di riforma dell’architettura istituzionale europea cfr. Pisani-Ferry, J. (2018).
[3] Come sostenuto da Schaltegger and Weder (2012; 2014) utilizzando dati panel per 21 paesi OCSE dal 1970 al 2009, si dovrebbero effettuare ampi aggiustamenti fiscali basati su tagli alla spesa per determinare tassi di interesse a lungo termine notevolmente più bassi ed un significativo aumento degli investimenti privati.
[4] Cfr IMF (2012) e Blanchard O.J. e Leigh D. (2013), che riportano valori dei moltiplicatori tra 0.7 e 1.5 dalla crisi del 2007-08, mentre precedentemente erano stimati dal Fondo monetario internazionale approssimativamente pari a 0.5.
[5] Un taglio dei consumi pubblici dell’1% del Pil aumenterebbe gli spread di circa 80 punti base per almeno un anno ed un calo significativo nei rendimenti dei titoli pubblici si manifesterebbe solo dopo circa 6 trimestri. I risultati sono robusti anche per sotto-campioni specifici. Se invece il consumo pubblico viene ridotto durante periodi espansivi, gli spread diminuiscono di circa 20 punti base. Anche in questo caso l’effetto risulta essere persistente.
[6] Oltre ai lavori già citati, cfr. Gechert, S. (2015). Sugli investimenti pubblici cfr. anche Deleidi M., Iafrate F. e Levrero E.S. (2019).
[7] Si tratta dello stesso valore del tasso di crescita reale del Pil del 2017. Data la recente caduta del Pil reale, tale stima tende a sottostimare l’aggiustamento fiscale richiesto.
[8] Il valore ipotizzato corrisponde al tasso di inflazione del 2017.
[9] Sottolineiamo che in questo caso stiamo imponendo il puntuale rispetto, in ogni anno, dei due criteri di valutazione dei vincoli sul debito e sul deficit, ignorando le metriche di giudizio previste dalla Commissione Europea durante il percorso di aggiustamento (backward looking, forward looking e la relazione tra debito e Pil strutturale).
[10] L’esistenza di un avanzo primario implica un prelievo fiscale superiore al valore dei servizi erogati dalla pubblica amministrazione. Tenendo presente che nel 2017 l’avanzo primario si è attestato all’1,5% del Pil (per un ammontare pari a 25,943 miliardi) (Tabelle A1.1 e A1.2), per portare l’avanzo primario alle dimensioni richieste per il soddisfacimento delle regole imposte dal fiscal compact sarebbe quindi necessaria una manovra di rilevante entità, ossia un aumento della pressione fiscale e/o una riduzione della spesa pubblica.
[11] Non mostriamo questi dati perchè già solo i risultati fino al 2035 mostrano il maggior prelievo fiscale e la minore spesa pubblica necessari per il rispetto del Fiscal Compact, che non potrebbero che avere degli effetti negativi sulla dinamica del Pil, ovvero essere tali da non consentire che esso cresca al tasso ipotizzato dell’1,5% annuo come nello scenario per ora ipotizzato.
[12] Come già detto, seppure più lentamente, anche nel caso della politica vigente (A) si verifica un calo del rapporto debito pubblico/Pil, la cui dinamica, come è noto, se il deficit pubblico non è finanziato con moneta, è definita dal confronto tra il tasso di crescita del Pil nominale yt da un lato, e la somma del tasso di interesse it e del rapporto tra deficit primario e stock del debito pubblico dt dall’altro. I valori ipotizzati sono infatti tali che yt > it + dt.
[13] Si ipotizza che tutto il consumo sia dipendente dal reddito e che non vi siano imposte autonome dal reddito. Si assume inoltre che tutti gli effetti che il moltiplicatore ha sul reddito si esauriscano nell’ambito dello stesso periodo t. Il livello del reddito sarà allora definito dalla relazione Yjt= m (Itj + Gtj) , per j = A, R a seconda della politica considerata.
[14]Avremmo infatti che BAt= Bt-1 (1+i)+ GAt –zm(GAt + IAt) e BRt= Bt-1 (1+i)+ GRt –zm(GRt + IRt) , per cui, definendo la differenza tra i due livelli di spesa al tempo t nell’ipotesi di politica A e politica R come ΔGtR= GtA– GtR e ΔItR= ItA– ItR , e considerando l’andamento per più periodi e che per ora ΔItR= 0, si ricava la relazione (5) di cui sopra riguardo al debito con la politica R rispetto al debito che si sarebbe ottenuto con la politica A.
[15] Per il valore dell’aliquota media pari a 0,43 si è fatto riferimento al dato fornito dall’OECD (2017). Per il valore del moltiplicatore Keynesiano di 1,8 si è fatto riferimento alle stime dei moltiplicatori fiscali effettuate da Pusch (2012), dove l’approccio utilizzato è quello delle tavole input-output. È bene sottolineare come per queste stime si considera un’economia aperta e si tiene quindi conto del contenuto delle importazioni richiesto dalle diverse tipologie di spesa finale. Infine, per i valori del moltiplicatore di 0,95 e di 1,55 si è fatto riferimento alle stime dei moltiplicatori fiscali effettuate da Gechert (2015) il quale – utilizzando 104 lavori empirici dal 1992 al 2012 per un totale di 1064 osservazioni dei valori del moltiplicatore – ottiene diverse stime dei moltiplicatori, con riferimento alle diverse voci di spesa e di entrata del settore pubblico: spesa pubblica per investimenti (INVEST), pressione fiscale (TAX), trasferimenti al settore privato (TRANS), spese militari (MILIT), spesa per consumi (CONS) e occupazione nel settore pubblico (EMPLOY). La stima dei valori di 0,95 e di 1,55 è ottenuta da Gechert considerando i soli valori cumulati, non distinguendo tra le varie componenti di spesa (per il valore di 0,95) e considerando la spesa pubblica per investimenti (per il valore di 1,55).
[16] Implicitamente si sta ipotizzando che la politica restrittiva sia ottenuta non aumentando le imposte, ma riducendo il termine G, inteso in questo caso come spesa pubblica per consumi e investimenti più i trasferimenti alle famiglie.
[17] Il Pil al denominatore del rapporto si riduce comunque proporzionalmente di meno dello stock di debito al numeratore del rapporto sia perché le variazioni di spesa pubblica ipotizzate sono via via decrescenti (come si può vedere dalla prima colonna della Tabella 2, che mostra le variazioni di spesa pubblica nelle due diverse politiche in ciascun periodo t), sia perché lo stock di debito risente dell’azione cumulativa non solo dei tagli alla spesa, ma anche degli interessi più bassi (come mostrato dalla seconda colonna della Tabella 2 che riporta le variazioni cumulate di spesa pubblica nei diversi periodi t e la riduzione nella spesa per interessi che ne deriva in ciascun periodo t).
[18] Il valore attribuito a k deriva da una stima della funzione degli investimenti in Italia dal 1961 al 2017. Cfr. G. Ciaffi, M. Deleidi, E.S. Levrero (2019). Per una conferma della rilevanza dell’andamento della domanda aggregata nella determinazione degli investimenti cfr. tra gli altri Barkbu, B., Berkmen, S., Lukyantsau, P., Saksonovs, S., Schoelermann, H. (2015); e Lewis C., Pain N., Strasky J., Menkyna F, (2014).
[19] La relazione (10) è immediata. Riconsiderando la nota 14, la relazione (9) tiene conto che adesso la minore spesa pubblica riduce il deficit e quindi il debito pubblico rispetto alla politica A in misura inferiore al suo ammontare per la riduzione delle entrate del settore pubblico derivante dall’effetto negativo sul reddito non solo della diminuzione della spesa pubblica ma ora anche della spesa per investimenti.
[20] Il confronto con la medesima condizione non considerando variazioni nei livelli dell’investimento privato mostra che la soglia di inversione subisce con gli investimenti dipendenti dalle variazioni di reddito due importanti modificazioni: a) al denominatore compare ora, in aggiunta al valore della minor spesa pubblica, il valore dei minori investimenti privati. Questo riduce, ceteris paribus, il valore della soglia; b) vi è un termine negativo – z=(∑ t s=1 ΔIsR(1+i)t-s)/(ΔGtR + ΔItR ) che, se sufficientemente grande, può imprimere alla soglia un andamento decrescente, in questo caso non necessariamente ristretto a un intervallo limitato di tempo. Ovviamente la dimensione di questo effetto negativo sui valori della soglia dipende dalla dimensione delle riduzioni nei flussi di investimento privato che la politica fiscale R indurrebbe rispetto alla politica fiscale A. La riduzione degli investimenti privati provoca in altri termini due effetti: (i) innalza i valori del rapporto debito reddito associati alla politica R in ciascun dato periodo, semplicemente per il fatto che livelli di reddito più basso generano minori entrate per il settore pubblico; e (ii) riduce i valori della soglia di inversione.
[21] Come sottolineato da Realfonzo (2019) sarebbe necessario in questo caso disporre di un bilancio dell’Unione Europea più ampio, da utilizzare per politiche territoriali redistributive, con meccanismi tali da incrementare le entrate e ridurre le spese nei Paesi che conoscono shock positivi, e contemporaneamente ridurre la pressione fiscale e aumentare la spesa pubblica nei Paesi che subiscono shock negativi. Dovrebbe poi costituirsi un debito pubblico europeo per finanziare spese per investimenti in infrastrutture materiali e immateriali da effettuare nelle aree che hanno un ritardo di sviluppo rispetto alle zone centrali.
[22] Si parla qui di riforma concordata per i problemi che un paese incontrerebbe con una decisione unilaterale di uscita dall’euro anche alla luce della crescente proporzione di debito pubblico non ridenominabile in valuta nazionale. Cfr. Levrero (2012) e Guglielmi, Minenna, Signani e Suarez (2017).