L’Europa malata e le riforme necessarie | Riccardo Realfonzo

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Political and social notes

Crisi economica europea 2019 | L’Eurozona cresce poco, registra elevata disoccupazione e soprattutto al suo interno si accentuano sempre più gli squilibri macroeconomici. Pensare che le colpe siano da addebitare alla moneta unica è una spiegazione tanto semplice quanto errata. Gran parte dei problemi è infatti imputabile alle regole delle politiche monetarie e fiscali. Se non cambiano queste regole l’esperienza della moneta unica cesserà. Per evitare queste esito disastroso occorre proseguire nel percorso di unificazione europea, passando alla fase dell’unione politica e fiscale.
«L’obiettivo di una piena unione monetaria ed economica è irraggiungibile senza un’unione politica; e quest’ultima presuppone integrazione delle politiche fiscali e non già armonizzazione delle politiche fiscali». Nicholas Kaldor, 1971

 

1.Bassa crescita, elevata disoccupazione, squilibri crescenti tra centri e periferie

L’Europa così com’è non funziona. Per quanto la Commissione Europea si affanni a sostenere l’assetto attuale delle istituzioni e delle regole europee, vi sono moltissime buone ragioni per criticare il palinsesto macroeconomico disegnato a partire dal Trattato di Maastricht. Il punto è che l’Unione Monetaria Europea, cui oggi aderiscono diciannove Paesi, tende a crescere poco, registrando elevati valori della disoccupazione, e soprattutto al suo interno si accentuano sempre più gli squilibri macroeconomici. La crisi scoppiata nel corso del 2008 ha messo ancora più in evidenza, rispetto a quanto già osservato negli anni precedenti, l’assenza di adeguate politiche anticicliche e la tendenza all’inasprimento dei processi di divergenza tra i Paesi. Per queste ragioni, i costi dell’adesione all’eurozona per molti Stati membri sono diventati sempre più elevati.

Per verificare quanto appena osservato, iniziamo col prendere in esame il coefficiente di variazione del tasso di crescita del Pil pro capite, che misura la disomogeneità nei tassi di crescita tra i Paesi dell’eurozona. Tanto maggiore è il coefficiente tanto più disomogenea è la crescita nell’area euro.

Figura 1 Coefficiente di variazione del tasso di crescita del Pil

Fonte: elaborazioni su dati Ameco – Commissione Europea

Come si osserva, il coefficiente passa da 0,28 a 0,41, con un’accelerazione negli anni successivi alla crisi. Ciò significa che dal 1990 a oggi non si è avuto alcun riscontro positivo alla tesi ottimistica di quanti hanno sostenuto lo specifico processo di unificazione monetaria che è stato attuato, a iniziare dalla Commissione Europea, secondo cui l’introduzione dell’euro avrebbe alimentato una crescita sostenuta e sempre più omogenea in Europa. Tutto sarebbe dipeso dal fatto che con l’adesione alla moneta unica sarebbero cadute le barriere al commercio tra i paesi membri dell’unione, dovute principalmente ai costi di transazione legati ai tassi di cambio e alla percezione dei rischi connessi alle possibili variazioni dei tassi (il cosiddetto rischio di cambio). Con il venire meno di quelle barriere, e con la liberalizzazione dei movimenti dei capitali e del lavoro, si sarebbero intensificati gli scambi commerciali e le diverse specializzazioni territoriali, con il risultato di una accelerazione della crescita soprattutto a beneficio delle regioni in ritardo di sviluppo. Ciò avrebbe determinato l’attivazione di processi spontanei di convergenza (catching up) tra Mezzogiorni e centri di Europa. Questo meccanismo riequilibratore si sarebbe fondato sulla vecchia “legge” dei “vantaggi comparati”, secondo la quale le aree in ritardo di sviluppo godono di vantaggi rispetto alle aree congestionate centrali, a cominciare dai ridotti costi del lavoro ma anche delle superfici in cui collocare le imprese e in generale dei servizi. In virtù di questi vantaggi, le aree periferiche avrebbero dovuto attrarre massicci investimenti, tali da aumentare l’integrazione produttivo-commerciale con le aree centrali e mettere in moto una crescita più veloce di quella registrata nelle aree centrali d’Europa.

Tuttavia, i dati dimostrano che questi processi di convergenza spontanei, guidati dal mercato, non si sono messi in moto, se non sporadicamente, e in questi anni piuttosto si è acuita la divergenza tra aree sviluppate, caratterizzate dall’insediamento di grandi imprese tecnologicamente avanzate e che accumulano avanzi crescenti della bilancia commerciale, e aree arretrate, caratterizzate dalla presenza di piccole-medie imprese con tecnologie tradizionali e che generalmente registrano disavanzi della bilancia commerciale. Insomma, come previsto da un’ampia letteratura, che affonda le radici negli scritti di Gunnar Myrdal e John Maynard Keynes, e che assume la presenza di economie di specializzazione e agglomerazione in presenza di rendimenti crescenti, l’eliminazione delle barriere relative al cambio e ai movimento di lavoro e capitale hanno determinato processi di centralizzazione dei capitali e concentrazione degli investimenti nelle aree centrali, con conseguenti dinamiche di desertificazione economica dei Mezzogiorni. Si tratta dei processi che la letteratura internazionale contemporanea ha definito di “mezzogiornificazione”, utilizzando l’espressione proposta dal premio Nobel Paul Krugman.

I processi di divergenza tra centri e periferie sono risultati ancora più marcati a seguito della crisi del 2008. Per verificare questa affermazione, prendiamo in considerazione l’andamento del pil, ponendo il valore registrato nei diversi Paesi considerati pari a cento a fine 2007, l’anno precedente lo scoppio della crisi. Si osserva che il prodotto interno lordo dei Paesi periferici si è allontanato sempre di più dalla media dell’eurozona e soprattutto da Paesi come la Germania e la Francia. Infatti, a fine 2018 la Germania e la Francia registravano una crescita rispettivamente del 15% e del 10% rispetto al 2007, mentre la Grecia scontava un pil inferiore a quello del 2007 del 24% e l’Italia del 4%; dal canto loro altri Paesi europei, come il Portogallo e la Spagna, registravano una crescita largamente inferiore alla media dell’Unione monetaria (8,5%), fermandosi rispettivamente all’1% e al 5%. Da sottolineare che nello stesso periodo gli Stati Uniti hanno registrato una crescita del 19%.

Figura 2. Il Pil nell’Eurozona

Fonte: mie elaborazioni su dati Ameco – Commissione Europea

A conclusioni non diverse si giunge prendendo in considerazione il mercato del lavoro. Qui consideriamo per semplicità i tassi di disoccupazione di alcuni Paesi dell’eurozona a partire dalla fine del 2007. Come si osserva inizialmente i valori dei tassi non erano molto distanti tra loro, intorno alla media europea del 7,5%. A fine 2018 il tasso di disoccupazione dell’eurozona nel suo insieme risulta cresciuto di un punto percentuale e soprattutto si assiste a una esplosione della divergenza. Mentre il tasso di disoccupazione tedesco si è sensibilmente ridotto rispetto alla fine del 2007 (scendendo al 3,5%), alcuni Paesi registrano ancora tassi di disoccupazione a due cifre (Grecia 19,6%, Spagna 15,6%, Italia 10,7%).

Figura 3. Tasso di disoccupazione nell’eurozona

Fonte: mie elaborazioni su dati Ameco – Commissione Europea

Tutte queste evidenze mostrano che l’unificazione monetaria ha impattato in modo asimmetrico in Europa dal momento che la disomogeneità dello sviluppo ne rappresenta il suo tratto dominante.

2.Una unione valutaria per nulla ottimale

Che cosa non ha permesso all’Europa di funzionare? Le critiche – anche da parte di alcuni premi Nobel per l’economia – si sono appuntate verso i caratteri del processo di unificazione monetaria e il quadro di regole adottato. Tra i critici, taluni concentrano i loro strali verso la moneta unica come causa di tutti gli squilibri europei. Ma si tratta di una spiegazione semplicistica, così come semplicistico sarebbe il rimedio al male, ovvero l’abbandono dell’euro.

Certo, l’eurozona ancora oggi non costituisce un’area valutaria ottimale, nel senso che per alcuni Paesi l’adesione alla moneta unica ha comportato un insieme di svantaggi maggiore rispetto ai benefici che ne sono derivati. E l’Italia è tra questi.

In realtà, ben prima della sigla del Trattato di Maastricht non mancavano studi che evidenziavano che l’eurozona non avrebbe costituito un’area valutaria ottimale, essenzialmente perché i Paesi promotori avevano caratteristiche fondamentali dell’economia nonché condizioni della finanza pubblica profondamente differenti. Ebbene, secondo la teoria delle aree valutarie ottimali una unificazione monetaria realizzata da Paesi profondamente diversi tende a non funzionare, per la ragione che qualunque evento esterno (da un aumento del costo delle materie prime all’insorgere di una crisi nelle relazioni commerciali internazionali) colpisce i Paesi dell’unione in modo differenziato, producendo effetti molto diversi, anche di segno opposto, che tendono ad accentuare le divergenze. In sostanza, gli effetti di shock esogeni tendono ad avere impatti asimmetrici. La tesi ottimistica favorevole all’unificazione, portata avanti dalla Commissione Europea, è stata sempre favorevole all’unificazione sulla base dell’idea che l’introduzione dell’euro avrebbe favorito l’integrazione commerciale tra i Paesi e progressivamente ridotto le differenze tra loro, e quindi le probabilità stesse che si presentino shock asimmetrici. Per questa ragione, la Commissione ha costantemente spinto nella direzione della maggiore integrazione, eliminando le barriere alla circolazione dei capitali e del lavoro, uniformando le regole dei mercati, inclusi quelli finanziari e del credito bancario, adottando una politica monetaria comune e soprattutto regole comuni per le politiche della finanza pubblica. Ed è l’insieme di queste politiche che non ha funzionato, non semplicemente l’euro.

Che l’introduzione di una moneta unica possa creare degli svantaggi ai Paesi aderenti è cosa assodata tra gli economisti. La ragione principale risiede nel fatto che con la moneta unica spariscono i tassi di cambio tra i Paesi aderenti. E l’eliminazione dei tassi di cambio non è cosa di poco conto, tutt’altro. La teoria economica e l’esperienza storica mostrano che in presenza di squilibri tra Paesi, le oscillazioni di mercato dei tassi di cambio funzionano almeno parzialmente da stabilizzatore automatico. Ad esempio, l’enorme avanzo commerciale tedesco, che oggi ha ampiamente superato il 7% del pil di quel Paese, non sarebbe possibile se la Germania avesse ancora il marco. Infatti, in presenza di un simile gigantesco squilibrio il marco inevitabilmente si apprezzerebbe e con ciò le esportazioni tedesche diverrebbero più costose, mentre le importazioni sarebbero rapidamente più a buon mercato per i tedeschi. E ciò riporterebbe la bilancia commerciale tedesca verso l’equilibrio. Nella situazione attuale questo meccanismo di aggiustamento è disattivato, e anzi la bilancia commerciale tedesca è in attivo anche perché il valore dell’euro è mitigato dalle condizioni delle bilance con l’estero degli altri paesi dell’Unione Monetaria, certo meno aggressive di quella tedesca. La presenza dell’euro impedisce quindi ai Paesi che sperimentano un disavanzo della bilancia commerciale, o in generale una fase negativa del ciclo, di svalutare per sostenere le esportazioni e riattivare la crescita.

Naturalmente tra gli svantaggi dell’euro vi è il fatto che la politica monetaria è unica per tutta l’eurozona. Ciò significa principalmente che il tasso ufficiale di sconto, o tasso di rifinanziamento (che in sostanza rappresenta il costo che sopportano le banche nel momento in cui si rifinanziano presso la Banca Centrale), non può che essere lo stesso per l’intera eurozona. Ciò comporta naturalmente un serio problema, perché quanto maggiori sono le differenze tra i Paesi tanto più è probabile che essi abbiano bisogno di politiche differenziate del costo del credito. Naturalmente, se ogni Paese avesse la propria valuta, conservando quindi la sovranità monetaria, potrebbe praticare una politica monetaria calzante alle proprie esigenze, mentre la BCE è costretta a praticare una politica sola per tutti.

L’adesione alla moneta unica comporta dunque una serie di costi inevitabili, tanto maggiori quanto maggiori sono le differenze strutturali e di finanza pubblica tra i Paesi. Si tratta di costi che hanno molto pesato sulle economie europee in questi anni. Tuttavia, sarebbe un errore giungere alla conclusione che l’unificazione monetaria europea non possa funzionare e che sia necessariamente da cancellare. Esistono infatti delle soluzioni di politica fiscale e politica monetaria che potrebbero alleviare questi costi e innescare meccanismi di convergenza che portino l’insieme dei benefici della moneta unica a superare i costi.

3.Le politiche fiscali che ci sono e quelle che ci vorrebbero

Poniamo attenzione alle politiche fiscali. La logica del processo di costruzione della unificazione monetaria europea è chiara. Sin dalla stipula del Trattato di Maastricht si è deciso di introdurre una serie di regole in merito alle politiche fiscali, essenzialmente sotto la pressione della Germania, al fine di ridurre la disparità nelle condizioni generali della finanza pubblica dei Paesi. Al tempo della unificazione, infatti, i diversi Paesi avevano livelli di indebitamento pubblico – misurati dal rapporto tra debito pubblico e pil – molto diversi. I vincoli alla finanza pubblica che sono stati incorporati nei diversi Trattati andavano nella direzione di ridurre queste differenze.

Poiché la condizione di sostenibilità del debito pubblico pone in relazione il livello del rapporto tra deficit pubblico e pil con il rapporto tra debito pubblico e pil, mostrando che sul piano puramente contabile una riduzione del rapporto deficit/pil è associato (a parità di ogni altro fattore) alla riduzione del rapporto debito/pil, è stato elaborato il principio secondo cui il deficit pubblico non deve superare in valore il 3% del pil. Inoltre, si è ritenuto che il debito pubblico dovrebbe essere contenuto per tutti i Paesi, individuando il valore del 60% del rapporto debito/pil come target da rispettare progressivamente. Il Trattato di Maastricht e successivamente il Patto di Stabilità e il Fiscal Compact, hanno previsto questi valori ideali, imponendo ai Paesi di abbattere i deficit e i debiti eccessivi, puntando in particolare a conseguire un percorso di abbattimento del debito pubblico verso il target del 60% del pil in ragione della riduzione dello scarto tra debito effettivo e debito target di un ventesimo l’anno. Seguendo una interpretazione banale ed erronea della condizione di sostenibilità del debito pubblico, la Commissione Europea ha spinto i Paesi membri dell’Unione a definire manovre di bilancio che incorporassero una serie di avanzi primari (ovvero di valori della raccolta fiscale superiori alla spesa pubblica, scorporando da questa la spesa per interessi). È stato anche introdotto il principio del pareggio strutturale del bilancio, secondo il quale, al netto del percorso di abbattimento del debito, il bilancio pubblico deve osservare un pareggio tra entrate e uscite complessive, tenendo conto dell’andamento ciclico dell’economia. Ciò ha richiesto il calcolo per ogni Paese la stima del pil potenziale – ovvero del pil di equilibrio, determinato alla luce di procedure di stima per nulla condivise nella letteratura internazionale – e ammettere scostamenti dall’equilibrio di bilancio in presenza di fasi negative (in questo caso sono ammessi corrispondenti deficit di bilancio) o positive del ciclo (in questo caso sono ammessi corrispondenti avanzi di bilancio).

Il complesso di tutte queste regole si è rivelato molto nocivo, imponendo ai Paesi politiche fiscali dal carattere restrittivo e prociclico. In altre parole, politiche fiscali improntate sul taglio della spesa pubblica e l’incremento della pressione fiscale che hanno determinato un rallentamento della crescita e aggravato le condizioni recessive. Ciò è vero particolarmente per quei Paesi che si sono trovati a ereditare dal passato un debito pubblico elevato, come l’Italia, e che sono stati conseguentemente indotti a spingere sul pedale dell’austerità, realizzando continui consolidamenti fiscali. Non a caso l’Italia detiene il record delle manovre con politiche fiscali restrittive, avendo sempre dal 1990 ad oggi, con la sola eccezione del 2009, accumulato avanzi primari. Al contrario in Francia ben 22 manovre economiche del governo si sono chiuse con disavanzi primari, 21 in Gran Bretagna e 10 in Germania.

Le politiche di austerità sono state raccomandate dalle grande istituzioni internazionali, dal Fondo Monetario Internazionale alla Banca Centrale, e naturalmente dalla Commissione Europea. L’idea era che i tagli alla spesa pubblica e gli aumenti della pressione fiscale necessari per contenere i deficit, per determinare avanzi primari e intraprendere il percorso di abbattimento del debito, non avrebbero avuto effetti negativi apprezzabili sulla crescita economica risultando pertanto efficaci nel ridurre i rapporti chiave di finanza pubblica (deficit/pil e debito/pil). Addirittura, una parte della letteratura più liberista si è spinta a sostenere che l’austerità avrebbe avuto un carattere espansivo. Al centro della teoria dell’austerità espansiva – sostenuta ancora oggi da autorevoli economisti dell’Università Bocconi di Milano – vi era l’idea che i tagli alla spesa pubblica e gli aumenti del prelievo fiscale avrebbero convinto gli operatori che il governo era sulla strada giusta, e che la conseguente riduzione del debito pubblico avrebbe indotto future riduzioni del prelievo fiscale; ciò a sua volta avrebbe immediatamente indotto un incremento dei consumi e degli investimenti, aumentando il tasso di crescita.

Ciò cui abbiamo assistito è stata quindi una sistematica sottostima dei moltiplicatori della politica fiscale, ovvero degli impatti dei tagli della spesa pubblica sul pil. Secondo la teoria dell’austerità espansiva, quei moltiplicatori erano addirittura negativi, per cui un taglio della spesa pubblica avrebbe determinato un aumento del pil. In realtà, come è stato ammesso anche dal Fondo Monetario Internazionale, ma purtroppo solo all’indomani dell’applicazione di questi principi alla crisi greca, con conseguenze drammatiche, i moltiplicatori sono generalmente positivi e maggiori di uno (compresi tra 0,9 e 1,7, stando a quanto scritto dall’autorevole capoeconomista del FMI dell’epoca, Olivier Blanchard). Insomma, l’austerità e i consolidamenti fiscali hanno generato gravi conseguenze recesive per le economie che li hanno sperimentati, smentendo tutte le previsioni ufficiali.

Uno dei più clamorosi errori di valutazione degli effetti recessivi dell’austerità è stato compiuto proprio in Italia, dal “governo dei tecnici” presieduto da Mario Monti. Nel Documento di Economia e Finanza dell’aprile 2012, il governo Monti stimava gli effetti della manovra di lacrime e sangue nota come “Salva-Italia”. La tabella successiva mostra il vistosissimo scostamento registrato tra le previsioni e i dati reali registrati ex post, sul pil e sul rapporto debito/pil per gli anni 2012 e 2013.

Tabella 1. Scostamento  tra le previsioni e i dati reali ex post pil e  rapporto debito/pil

La tabella consente anche di sottolineare il fallimento di queste politiche che non hanno nemmeno conseguito il risultato fondamentale per cui erano state pensate, ovvero il risanamento delle finanze pubbliche. Infatti, i tagli della spesa pubblica e gli aumenti della pressione fiscale, hanno generalmente peggiorato il rapporto debito/pil perché hanno ridotto il pil e conseguentemente le entrate fiscali. Abbiamo quindi assistito alla applicazione in Europa di una pessima ricetta, applicata a dosi massicce nei Paesi con finanze pubbliche deboli (a cominciare da Grecia e Italia) che hanno amplificato i processi di divergenza. Un risultato questo che gli economisti di formazione keynesiana avevano ampiamente previsto, come scritto con chiarezza nella “Lettera degli economisti” sottoscritta da alcune centinaia di economisti delle Università italiane e di altri centri di ricerca nel 2010. Sarebbe stato possibile in passato e sarebbe oggi necessario seguire una diversa politica delle finanze pubbliche europee.

Va notata in primo luogo l’assoluta insufficienza del bilancio dell’Unione nel suo insieme. Tale bilancio esiste ma è pari appena all’1% del pil dell’insieme dei Paesi dell’Unione Europea, e solo una parte di esso è impegnato per finanziare i fondi strutturali, dedicati a sostenere le regioni in ritardo di sviluppo. Si tratta di una goccia nell’oceano. Come numerosi studi hanno sottolineato, sarebbe necessario disporre di un bilancio dell’Unione molto più ampio, da utilizzare per politiche territoriali redistributive, con meccanismi tali da incrementare le entrate e ridurre le spese nei Paesi che conoscono shock positivi, e contemporaneamente ridurre la pressione fiscale e aumentare la spesa pubblica nei Paesi che subiscono shock negativi. La costituzione di un vero bilancio dell’Unione Europea costituisce un passaggio fondamentale e non può che essere il risultato di incrementare il grado di unione politica in Europa.

Una riforma molto opportuna per andare in questa direzione consisterebbe nella introduzione di eurobond. Si costruirebbe così un debito pubblico europeo che non graverebbe su singoli paesi bensì sull’insieme dei Paesi che costituiscono l’Unione Europea, risultando così estremamente solido e poco costoso. Il ricavato dell’emissione di tali titoli dovrebbe essere concentrato su spesa per investimenti in infrastrutture materiali e immateriali da effettuare nelle aree che hanno un ritardo di sviluppo rispetto alle zone centrali.

Naturalmente, gli assurdi vincoli al deficit e al debito dei singoli paesi, legati a valori target che non hanno alcuna dignità scientifica, andrebbero rimossi.

4.Una Banca conservatrice o un prestatore di ultima istanza?

Ma anche le politiche monetarie disegnate per l’eurozona sembrano tagliate al fine di incrementare le disparità tra i Paesi e rallentare la crescita.

Lo statuto della Banca Centrale Europea fissa l’obiettivo prioritario della stabilità dei prezzi, definito poi come target medio inflazionistico del 2%. Con ciò si è affermato in Europa un modello di banca centrale che la letteratura economica definisce “conservatrice”, cioè una banca centrale che funziona pressoché esclusivamente da guardiano del livello dei prezzi e non è sensibile ai problemi di bassa crescita e/o elevata disoccupazione. Questo tipo di disegno istituzionale porta la BCE a praticare politiche monetarie espansive quando l’inflazione si situa sotto al target del 2%, e viceversa, senza attribuire grande rilievo alle dinamiche delle variabili reali se non subordinatamente al raggiungimento dell’obiettivo d’inflazione.

D’altra parte la Banca Centrale Europea, a differenza di quanto accade ad esempio negli Stati Uniti con la Federal Reserve Bank, non può finanziare la spesa pubblica dei Paesi membri e non può impegnarsi ad acquistare i titoli del debito pubblico denominati in euro garantendo la solidità dei bilanci pubblici. Ciò significa che eventuali politiche fiscali espansive non possono contare sul sostegno della banca centrale ma devono necessariamente finanziarsi attraverso il prelievo fiscale o il debito pubblico. E ciò significa anche che il banchiere centrale rinuncia allo storico ruolo di prestatore di ultima istanza. Questa impostazione generale della politica monetaria, significativamente diversa rispetto a tante altre esperienze storiche e all’attuale realtà statunitense, impatta in maniera fortemente negativa sui Paesi che conoscono una fase recessiva e sui paesi che hanno un rapporto debito Pil elevato. Infatti, non solo viene meno uno strumento fondamentale di finanziamento della spesa pubblica in chiave anticiclica, ma l’assenza di un’effettiva garanzia della Banca Centrale Europea sui titoli del debito pubblico denominati in euro espone gli Stati al rischio di insolvenza, alimenta la speculazione ed esaspera la dinamica dei spread tra i rendimenti dei titoli del debito pubblico tedesco e quelli dei Paesi a più elevato debito.

Le politiche monetarie non convenzionali che sono state praticate negli ultimi anni (l’acquisto di titoli sui mercati secondari, le operazioni di rifinanziamento a lungo termine mirate) – che pure hanno avuto un impatto positivo sulla solidità dei bilanci delle banche ma senza rilevanti effetti sull’espansione del credito e sulla crescita – non hanno alterato in alcun modo l’assetto delle politiche monetarie.

Una rivisitazione in chiave meno conservatrice del ruolo del banchiere centrale potrebbe avere un impatto molto positivo nell’eurozona. In particolare, si tratterebbe di definire un sistema di obiettivi più ampio rispetto al mero controllo dei prezzi e ripristinare la funzione di prestatore di ultima istanza, che andrebbe in particolare a vantaggio dei Paesi a maggiore rapporto debito/pil. Tutto ciò, avrebbe effetti rilevanti anche sull’efficacia delle politiche fiscali, garantendo una crescita più intensa e territorialmente equilibrata.

5. L’euroexit non è un toccasana

L’analisi del palinsesto macroeconomico costruito con i Trattati dovrebbe approfondire anche le questioni relative alla piena libertà dei movimenti di capitale, che pure contribuisce ad aggravare gli squilibri nell’eurozona. Ma le considerazioni già sviluppate sono sufficienti a chiarire che i problemi di bassa crescita e soprattutto di mancata convergenza tra i paesi nell’unione monetaria non sono da attribuire esclusivamente alla presenza della moneta unica – con la conseguente assenza dello strumento del tasso di cambio e la fissazione di un unico tasso di riferimento – ma anche al quadro delle politiche monetarie e fiscali che non introduce i meccanismi di riequilibrio macroeconomico e territoriale che sarebbero possibili, lasciando tutto il peso del riequilibrio sulle spalle deboli dei Mezzogiorni d’Europa e sulle dinamiche del mercato del lavoro che dovrebbe assecondare processi di deflazione salariale insostenibili e dai costi sociali ingenti.

Il rischio che corriamo è dunque l’implosione dell’eurozona e il fallimento dell’unificazione europea, che riporterebbe indietro l’orologio della Storia. Un esito che potrebbe essere evitato solo grazie a un’ampia azione riformatrice nella direzione che qui abbiamo suggerito.

D’altra parte, se è vero che non è l’euro la causa di tutti i mali dell’ eurozona è anche vero che l’euroexit non è un toccasana. Tralasciando qui i problemi relativi ai contenziosi e alle gravi difficoltà di riscrivere gli accordi commerciali (come insegna la vicenda della brexit), concentriamoci su ciò che insegna l’esperienza storica. Con uno studio pubblicato recentemente sull’International Journal of Political Economy Angelantonio Viscione ed io abbiamo mostrato quali sono stati in passato gli effetti dell’abbandono di regimi di cambio fisso seguiti da ampie svalutazioni (si tratta di ciò che nell’esperienza storica è più simile all’uscita dalla moneta unica). Dall’analisi di un’ampia casistica si è osservato che la svalutazione conseguente all’abbandono dell’accordo di cambio inizialmente favorisce le esportazioni e in alcuni casi alimenta la crescita. Tuttavia, un po’ alla volta l’aumento del costo delle importazioni, che progressivamente segue la svalutazione, determina un incremento dei prezzi interni (un fenomeno noto nella letteratura come pass-through). A sua volta, l’aumento dei prezzi interni danneggia le esportazioni ed erode l’avanzo della bilancia commerciale, frenando la crescita. In aggiunta a quanto appena osservato, l’analisi dei casi storici mostra anche un pesante effetto negativo sulla distribuzione dei redditi. Infatti, l’incremento dei prezzi interni tende a determinare una stagnazione dei salari reali e soprattutto una caduta della percentuale dei pil che remunera i redditi da lavoro (wage share), con corrispondenti crescite delle quote dei profitti e delle rendite.

Questa analisi contribuisce a chiarire che il ritorno alla sovranità monetaria non è la soluzione di tutti problemi. Il punto vero resta la qualità delle politiche fiscali e monetarie che si effettuano, non semplicemente e forse non tanto la valuta che adottiamo.

6.La soluzione è più Europa

Naturalmente il sistema di regole che l’Europa si è data, e quindi lo specifico percorso di unificazione monetaria che ha adottato, non è un caso, bensì il prodotto di scelte politiche precise. La protagonista di queste scelte è stata certamente la Germania. La Banca Centrale Europea è stata costruita sul modello della Bundesbank, con la sua paura per l’inflazione, il principio di totale indipendenza del banchiere centrale, l’idea di una netta separatezza dal potere politico e dunque dalle politiche fiscali. I vincoli alla finanza pubblica sono il prodotto di una scelta liberista improntata anche alla grande diffidenza verso la capacità di autogoverno dei Paesi che si affacciano nel Mediterraneo, la necessità di vincolare l’elevata propensione alla spesa di questi governi e la loro forte permeabilità a spinte sociali e politiche. Il risultato è una unione a metà, solo moneta e mercati, niente politica. Una unione che come è ormai evidente non funziona e il cui fallimento rischia di compromettere il sogno dei Trattati di Roma che, all’indomani della seconda guerra mondiale, guardavano a una unione dei popoli, sociale e politica, all’insegna della pace e della solidarietà.

La Commissione Europea continua a sostenere che gli oneri del riequilibrio macroeconomico in Europa debbano ricadere sui Mezzogiorni, che dovrebbero continuare a implementare le cosiddette “riforme strutturali”, che dovrebbero ancora comprimere salari, diritti e costi di produzione. Ma pensare che gli oneri del riequilibrio debba ricadere sui Paesi più deboli significa – come è stato sottolineato dal “monito degli economisti” pubblicato nel 2013 sul Financial Times – cadere in un grave errore già commesso in passato. È ben noto che nel 1919 Keynes contestò il Trattato di Versailles, con il quale si imponevano gravissimi oneri per la riparazione dei danni di guerra a carico della Germania: “Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza […], se miriamo deliberatamente alla umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà”. Quello di Keynes fu un drammatico presagio, poi avveratosi. Proviamo a non perseverare nei medesimi errori del passato, sia pure a parti invertite. Come conclude il “monito degli economisti”, andando avanti con le politiche di austerità e le riforme strutturali l’esperienza della moneta unica si esaurirà. “In assenza di condizioni per una riforma del sistema finanziario e della politica monetaria e fiscale che dia vita a un piano di rilancio degli investimenti pubblici e privati, contrasti le sperequazioni tra i redditi e tra i territori e risollevi l’occupazione nelle periferie dell’Unione, ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro”.

Per scongiurare questo esito allarmante occorrerebbe andare avanti nel percorso di unificazione europea, passando a una fase ben più impegnativa, che è quella dell’unione politica e delle politiche fiscali. Serve insomma più Europa per realizzare il sogno dell’unità tra i popoli.

Una versione più estesa di questo articolo è apparsa su Micromega 2019, n. 2.

 

Bibliografia/sitografia

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crisi economica europea 2019 D’altra parte, se è vero che non è l’euro la causa di tutti i mali dell’ eurozona è anche vero che l’euroexit non è un toccasana. Tralasciando qui i problemi relativi ai contenziosi e alle gravi difficoltà di riscrivere gli accordi commerciali (come insegna la vicenda della brexit), concentriamoci su ciò che insegna l’esperienza storica.
crisi economica europea 2019

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