Output gap Italia | Secondo le stime di Bruxelles il PIL italiano è al di sopra del suo potenziale. Si tratta di stime assurde che porteranno a nuove richieste di austerità nel nostro Paese.
Di recente la Commissione Europea ha rilasciato il Country Report per l’Italia, documento che descrive lo stato di salute dell’economia italiana e, in base ad esso, le raccomandazioni di politica economica per i Paesi membri. Dopo aver sottolineato i modesti progressi fatti dall’Italia nell’attuazione delle riforme strutturali, la Commissione ha riassunto i dati più significativi all’interno della tabella “Key economic and financial indicators”. Più di tutto, risulta di particolare interesse un dato riferito ad una variabile chiave per la politica fiscale: l’output gap. Sono stati diversi i contributi legati a questo tema pubblicati su questa rivista (Tridico, Meloni e Bracci, 2018; Tridico e Meloni, 2018; Cassese, 2018).
1. L’output gap e il NAWRU
L’output gap è una grandezza statistica stimata dalla Commissione Europea. Si compone di due elementi: il PIL effettivo, che è una grandezza osservata, calcolato dagli uffici nazionali di statistica dei Paesi membri, e il PIL Potenziale, che è una grandezza non osservabile e pertanto stimato dalla Commissione Europea con il metodo della Funzione di Produzione (Havik et al., 2014).
Tralasciando le critiche di teoria economica a cui può essere sottoposto il metodo della funzione di produzione, che si rifanno alla critica di Garegnani (1970) e di Pasinetti (1966) nell’ambito della Controversia sul capitale degli anni ’60, l’output gap corrisponde alla differenza percentuale tra il livello del PIL effettivamente prodotto dall’economia e il livello del PIL potenziale – cioè il massimo livello di PIL che può raggiungere l’economia con le risorse presenti, compatibilmente con la stabilità dei prezzi. Se l’output gap fosse positivo un’economia starebbe sovrautilizzando le risorse disponibili e ciò, nella visione della Commissione europea, dovrebbe portare ad una accelerazione del tasso di inflazione. Al contrario nel caso di un valore negativo. Tutto questo perché, secondo una teoria economica ben consolidata, esisterebbe un tasso di disoccupazione “strutturale” in corrispondenza del quale il tasso di crescita dei prezzi non accelera.
Questo tasso di disoccupazione viene chiamato NAWRU (Non-Accelerating Wage Rate of Unemployment) e viene stimato dalla Commissione con una procedura statistica che si basa sulla ben nota curva di Phillips aumentata per le aspettative.
Questo tasso di disoccupazione, secondo i più convinti sostenitori della teoria economica mainstream, corrisponde ad un indicatore delle condizioni strutturali ed istituzionali del sistema economico ed è ben lungi dall’essere sensibile agli andamenti ciclici dell’economia. Ergo: il suo valore potrebbe essere influenzato solo da politiche cosiddette strutturali, idonee a ridurre il grado di rigidità nel mercato del lavoro, e non può essere ridotto da misura discrezionali di politica economica. Tuattavia, diversi studi (Ball, 2014; Stirati, 2016) mettono in luce le ambiguità, teoriche ed empiriche, a cui si presta il NAWRU, nello specifico l’idea che esso sia indipendente dagli andamenti della domanda e dell’occupazione.
Secondo gli ultimi dati pubblicati dalla Commissione Europea nell’Autumn Forecast 2018, il NAWRU per l’Italia sarà del 9.8% nel 2019 e nel 2020. Tradotto: l’Italia deve convivere con il 9.8% di disoccupazione e non ha “armi” per poterlo ridurre, tranne le riform strutturali. Confrontando il tasso di disoccupazione effettivo dell’economia e il NAWRU si perviene al cosidetto unemployment gap, che è l’altra faccia dell’output gap. Come mostra la figura 1, il gap andrà chiudendosi dal 2020/2021, salvo revisione delle stime. Con esso l’output gap.
Figura 1. NAWRU e Tasso di disoccupazione effettivo per l’Italia
Fonte: Commissione Europea, Autumn Forecast 2018
Al PIL potenziale viene associato il NAWRU. Vale a dire: se il tasso di disoccupazione effettivo fosse minore del NAWRU, il PIL effettivo sarebbe superiore al PIL potenziale, e, secondo la teoria sottostante, ci si dovrebbe aspettare un’accelerazione dei prezzi. Al contrario, nel caso in cui il tasso di disoccupazione effettivo fosse maggiore del NAWRU, ci si dovrebbe attendere un tasso di inflazione negativo crescente. L’importanza dell’output gap è rilevante soprattutto perché esso è il perno su cui si basano le correzioni di politica fiscale richieste dalla Commissione Europea.
2. L’Obiettivo di medio termine e il Saldo strutturale di bilancio
Dal 2011, con l’introduzione del Six pack, e dal 2013, con il Fiscal Compact, i Paesi membri, per garantire la sostenibilità delle finanze pubbliche, sono chiamati a rispettare il cosiddetto Obiettivo di medio termine (OMT): esso corrisponde all’ indebitamento netto strutturale, cioè alla differenza tra le spese e le entrate dello Stato quando l’economia si trova ad operare al massimo potenziale, cioè con output gap uguale a zero. L’OMT varia da Paese a Paese ed è calcolato dalla Commissione Europea in base a diversi parametri, come il livello del PIL potenziale, i rischi di default associati al debito e all’invecchiamento della popolazione.
Seguendo il dettato normativo, “Gli obiettivi del saldo strutturale devono pertanto essere compresi in una forcella stabilita tra un deficit (in termini strutturali) dello 0,5 per cento del PIL (che può essere più ampia, fino al -1 per cento per i paesi nei quali il rapporto debito/PIL sia significativamente inferiore al 60 per cento e i rischi di sostenibilità siano bassi) e il pareggio o l’attivo, in termini corretti per il ciclo, al netto delle misure temporanee e una tantum”. Per l’Italia, che ha un debito pubblico molto elevato, la Commissione Europea ha previsto che l’OMT corrisponda ad un saldo strutturale in pareggio: cioè, quando l’economia si trova ad operare al suo massimo potenziale, non deve esserci un eccesso di spese sulle entrate. Se così fosse, è previsto che l’Italia converga verso l’OMT gradualmente. Tuttavia, “Deviazioni temporanee dalla misura dello 0,5 per cento possono essere accettate, oltre che in presenza di eventi eccezionali, anche nel caso in cui un paese abbia effettuato riforme strutturali rilevanti”.
L’importanza dell’output gap diventa immediata quando si esplicita il modo in cui è calcolato il deficit strutturale, che dipende proprio dall’output gap. Il deficit strutturale (Ds) è dato dalla differenza tra deficit nominale (Dn), cioè la differenza tra uscite ed entrate pubbliche, e deficit ciclico (Dc), cioè il deficit a cui si ricorre quando l’economia è in recessione, tipicamente dettato dalla riduzione del gettito fiscale e dall’aumento di sussidi di disoccupazione e altri trasferimenti.
Ds = Dn – Dc (1)
Dc è espresso nella seguente formula:
Dc = ε ∙ Output Gap (2)
Questa relazione spiega che il deficit ciclico dipende dalla differenza tra il PIL effettivo e quello potenziale ponderato per ε, che è un parametro calcolato dalla Commissione Europea (2017) di concerto con l’OCSE e riflette la sensibilità del saldo di bilancio rispetto alle variazioni cicliche dell’output. Poichè la Commissione ha prescritto all’Italia un deficit strutturale pari a zero, è facile rendersi conto che l’Italia può fare deficit solo nel caso di output gap negativo:
Dn = ε ∙ Output Gap (3)
Come nitidamente appare, il deficit concesso all’Italia dipende da un parametro fisso, ε, e dall’output gap, che è legato alle stime della Commissione Europea e all’andamento del PIL nazionale. Il valore dell’output gap ci consente di capire quanta parte del deficit è da attribuire alla componente ciclica e quanta alla componente strutturale. Più elevato è l’output gap in valore assoluto – vale a dire: si consideri la differenza tra PIL effettivo e PIL potenziale in valore assoluto – maggiore sarà la quota del deficit osservato attribuita alla componente ciclica e minore, dunque, lo sforzo fiscale richiesto per far sì che l’indebitamento strutturale sia pari a zero. Ma man mano che l’output gap tende a zero, o a valori positivi, la Commissione “esorta” il Paese a convergere verso un saldo strutturale in pareggio.
3. Due conclusioni preliminari
1) E’ evidente il ruolo che svolge questo “numerino”: al variare dell’output gap varieranno anche le correzioni di politica fiscale, e le conseguenze di politica economica non sono indifferenti (Cassese, 2018). Proprio per questa ragione diventa rilevante interrogarsi sulla determinazione dell’output gap. Diversi studi (Palumbo, 2008; DEF, 2016; DEF, 2015; MEF, 2015) mettono in luce il problema, compresa la clamorosa lettera dei Ministri delle Finanze Europei alla Commissione: il PIL potenziale non è una grandezza osservabile: ciò conferisce all’output gap una scarsa robustezza come indicatore guida per le correzioni di politica fiscale (Costantini, 2015).
2) Secondo le regole della Commissione, in corrispondenza di un output gap pari a zero l’Italia è obbligata a tendere verso il pareggio di bilancio strutturale, attraverso politiche di riduzione di spesa e aumenti di entrate. Se l’output gap fosse positivo, e quindi il PIL effettivo eccedesse quello potenziale, il governo dovrebbe condurre politiche restrittive; al contrario, se il PIL effettivo fosse minore di quello potenziale, il governo avrebbe un maggiore spazio fiscale consentito dalle regole europee – ma solo per portare il PIL dell’economia ad eguagliare il PIL potenziale, perché qualsiasi tentativo da parte del governo di spingere il PIL effettivo oltre la “barriera” del potenziale determinerebbe solo l’accelerazione del tasso di inflazione. E’ chiara l’asimmetria con cui si guarda alla politica fiscale: sarebbe efficace e consentita solo in chiave anticiclica ma è considerata inefficace e produttiva di inflazione in caso di output gap positivo.
4. I dati ufficiali e la difficile interpretazione
La Commissione stima un output gap per il 2019 pari allo 0.3% e per il 2020 pari allo 0.8%. Cioè la Commissione Europea è convinta che l’Italia nel 2019 e nel 2020 opererà al di sopra del proprio potenziale. Questa conclusione appare come un’assurdità, visto che la stessa Commissione Europea stima, per il 2019, un tasso di disoccupazione effettivo pari al 10.4% e, per il 2020, del 10.0%. Ovvero si registra come una quota rilevante di lavoratori sia disponibile a lavorare ma non riesca a trovare lavoro.
Una domanda sorge spontanea: come è possibile che la Commissione Europea indichi che l’Italia sovrautilizzerà le risorse disponibili, cioè attrezzature e lavoratori, quando vi sono moltissimi lavoratori in cerca di occupazione che il sistema economico non riesce ad occupare prevalentemente per la mancanza di domanda aggregata? Contrariamente alla narrazione dominante, tassi di disoccupazione elevati certificano uno spreco di risorse, indicando come l’economia stia sottoutilizzando le risorse disponibili, operando profondamente al di sotto del potenziale che raggiungerebbe se tutti i lavoratori fossero pienamente utilizzati.
Leggendo l’indagine sul mercato del lavoro italiano si registra che nel 2017 la forza lavoro potenziale non utilizzata ammontava a sei milioni di individui. Questo sottoutilizzo non rifletterebbe il “disinteresse alla partecipazione del mercato del lavoro” quanto più, tra le altre cose, una sostanziale “incapacità del sistema produttivo italiano di assorbire la forza lavoro disponibile” (ISTAT et al., 2019).
In altri termini, c’è abbondanza di risorse inutilizzate che potrebbero essere attivate per accrescere l’occupazione senza rischi di aumento dei prezzi. Detto ciò, solo nel caso in cui le risorse disponibili fossero tutte occupate potremmo parlare di uguaglianza tra PIL effettivo e PIL potenziale. Indossando delle lenti diverse da quelle della Commissione, l’elevato numero di disoccupati e sottoccupati rappresenterebbe il potenziale non espresso dell’Italia: un output gap positivo non è affatto certezza di piena occupazione ma è certezza di equilibrio di sottoccupazione con rischi di deflazione e non di inflazione!
Così interpretata la questione il concetto di PIL potenziale della Commissione Europea verrebbe svuotato di significato logico e anche il retroterra su cui si basano le correzioni di politica economica cederebbe il terreno a forti perplessità.
5. Il cane che si morde la coda
Stando alle regole europee di finanza pubblica, l’Italia, trovandosi nella (implausibile) condizione di sovrautilizzare le risorse disponibili – ma al cospetto di tassi di disoccupazione vicini al 10% -, dovrebbe accumulare avanzi di bilancio attraverso politiche di contenimento della spesa e di aumento delle imposte per scongiurare surriscaldamenti dell’economia. Una conclusione controintuitiva, che conferma il carattere pro-ciclico delle regole europee sulla finanza pubblica: un Paese con un tasso di disoccupazione elevatissimo viene esortato ad adottare politiche restrittive, solo perché la stima dell’output gap risulta essere positiva, quando vi sarebbe bisogno di ricette espansive, che puntino a sostenere la domanda e l’occupazione. Ma ciò è impedito dalle regole europee, che considerano la bontà delle politiche espansive solo nella misura in cui siano utili “per uscire dalla crisi” e non per ridurre la disoccupazione effettiva in una prospettiva di lungo periodo. Ciò che più stride col buon senso, da un lato, e con l’analisi reale della situazione economica dall’altro, è l’ostinazione a non mettere in discussione la struttura e la teoria economica che ispira queste regole di bilancio. Il vero rischio è che l’adozione di misure di contrazione fiscale possa comportare effetti di rallentamento sull’economia, che rischiano di fare aumentare il tasso di disoccupazione, peggiorare la crescita del PIL e i saldi di finanza pubblica (Monito degli economisti, 2013; Meloni e Stirati, 2018). Ciò porterebbe a successivi richiami da parte delle istituzioni europee al rispetto delle regole di bilancio, col rischio di far scivolare l’Italia in un perverso circolo vizioso che si autoalimenta.
*Dottorando Università Roma Tre
Bibliografia
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