Working poor | Lavoro e povertà: le conseguenze della flessibilità

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This article highlights the relationship between labor market deregulation and the number of workers living in absolute poverty in 15 countries of the European Union.

Working poor | In questo articolo si esamina la relazione che esiste fra la liberalizzazione del mercato del lavoro e il numero di lavoratori che vivono in condizioni di povertà assoluta in 15 paesi dell’Unione Europea. Dal punto di vista teorico, secondo la teoria dominante la liberalizzazione del mercato del lavoro dovrebbe far aumentare l’occupazione e così consentire una più ampia erogazione di redditi, se pur singolarmente inferiori. Questo, a sua volta, incrementerebbe anche la base imponibile per raccogliere risorse per ridurre la povertà. Tuttavia negli anni dal 2005 al 2016 ciò sembra non essere accaduto; piuttosto una crescente liberalizzazione del mercato del lavoro è associata ad un numero crescente di lavoratori che vivono in condizioni di povertà assoluta. Stime empiriche mostrano inoltre che tale relazione è stabile e superiore all’effetto positivo sull’occupazione.

Negli ultimi anni, diversi paesi europei hanno modificato le regole di funzionamento del mercato del lavoro introducendo misure di flessibilità. L’introduzione di misure di flessibilità dovrebbe favorire l’incontro della domanda e dell’offerta in funzione delle fasi alterne del ciclo economico e garantire ai giovani un accesso più facile al mercato del lavoro (Choudhry et al., 2012). Porterebbe poi ad una riduzione dei costi di produzione sostenendo la competitività delle imprese sui mercati internazionali e la crescita della domanda estera. In linea con la teoria delle aree valutarie ottimali (Mundell 1961), nell’Unione europea la liberalizzazione del mercato del lavoro è stata percepita come uno dei principali pilastri del processo di integrazione e come supporto necessario al funzionamento efficiente di un’economia di mercato in un mondo globalizzato (De Minicis 2018) . La crisi economica e il successivo aumento del tasso di disoccupazione in Europa hanno dato ulteriore slancio a questo processo di de-regolamentazione (Bianco et al., 2017; O’Higgins, 2012; Bernal-Verdugo et al, 2013).

Dal punto di vista teorico, secondo la teoria dominante, la liberalizzazione del mercato del lavoro dovrebbe far aumentare l’occupazione e così consentire una più ampia erogazione di redditi, se pur singolarmente inferiori. Questo, a sua volta, incrementerebbe anche la base imponibile per raccogliere risorse per ridurre la povertà. Tuttavia tali misure di flessibilità del mercato del lavoro, pur consentendo alle imprese di tagliare i costi e di essere più competitive sui mercati internazionali, e in linea di principio di aumentare l’occupazione, riducono il potere contrattuale dei sindacati e dei lavoratori, inducendoli ad accettare lavori precari e retribuzioni inferiori (Ciminelli et al., 2018). A sua volta, una bassa protezione dell’occupazione e un’assistenza sociale limitata, in caso di disoccupazione, rendono più facile scivolare nella povertà (Cretazz 2015; per un confronto teorico fra posizioni alternative si veda Bhaduri e Marglin, 1990).

Ma se convivono questi due fenomeni opposti, quale è il risultato complessivo sulla povertà dei lavoratori? Cosa è accaduto in Europa negli ultimi anni? Quale è stato l’effetto sul numero dei lavoratori poveri dell’introduzione di crescenti misure di flessibilità?

Per rispondere a questo interrogativo abbiamo confrontato due indicatori: il primo è “Severe material deprivation” ovvero la percentuale della popolazione che vive in una famiglia che non può permettersi almeno quattro delle seguenti cose: 1) pagare l’affitto, i mutui o le bollette; 2) mantenere la casa adeguatamente calda; 3) affrontare spese impreviste; 4) mangiare carne o proteine regolarmente; 5) andare in vacanza; 6) avere un televisore; 7) avere una lavatrice; 8) avere un’auto e 9) avere un telefono (EU-SILC statistics http://ec.europa.eu/eurostat/web/income-and-living-conditions/data/database). La “grave deprivazione materiale” è, diversamente dalle misure di diseguaglianza, una misura della povertà assoluta. Rappresenta perciò una misura oggettiva della povertà, fino a pochi anni fa non considerata nelle economie avanzate perché ritenuta un fenomeno marginale. Ha poi la caratteristica di essere confrontabile fra paesi con un livello di PIL molto diverso (Kenworthy, 2011, Crettaz, 2015). Il secondo indicatore invece è il “Labour market liberalization index” ovvero un indice di liberalizzazione del mercato del lavoro costruito come una media non ponderata delle seguenti sei misure che dipendono dalle caratteristiche istituzionali di ciascun paese: 1) normativa sull’assunzione ad un salario minimo; 2) regole relative alle assunzioni e ai licenziamenti; 3) presenza o meno di contrattazione collettiva centralizzata; 4) regolamentazione relative al numero di ore lavorate; 5) costo del licenziamento dei lavoratori; 6) modalità di reclutamento. Il suo valore varia da 1 a 10 ed è tratto dal Fraser Institute. Più alto è il suo valore, maggiore è il grado di flessibilità nel mercato del lavoro.

Il grafico mostra la dinamica delle due variabili negli anni dal 2005 – quando l’Unione Europea ha cominciato a calcolare il nostro indicatore di povertà assoluta – al 2016. Il valore degli indicatori sono calcolati come media delle osservazioni annuali nei paesi contenuti nel campione: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia e Regno Unito. Quello considerato rappresenta un gruppo di paesi assai eterogeneo, la cui dinamica del PIL ha conosciuto – se escludiamo lo shock sistemico della crisi del 2007, nell’intervallo di tempo considerato andamenti assai diversi. Il campione inoltre considera paesi dell’Eurozona cosiddetti virtuosi come Austria, Germania, Finlandia, Olanda e Lussemburgo e paesi cosiddetti periferici perché afflitti da insostenibilità della finanza pubblica e da dinamiche di divergenza dalla media dell’intera area Euro come Grecia, Irlanda, Italia, Spagna, e Portogallo. Nel gruppo infine sono inclusi poi anche paesi come la Danimarca, la Svezia e il Regno Unito che non fanno parte della zona Euro, ma solo dell’Unione Europea. La presenza di una dinamica comune rappresenta un sostegno alla tesi che la liberalizzazione del mercato del lavoro è stabilmente legata alla povertà.

Nel grafico, a sinistra viene misurata la povertà assoluta, mentre a destra l’indice di liberalizzazione del mercato del lavoro. Sull’asse orizzontale sono indicati gli anni.

Come è osservabile, le due variabili hanno un andamento molto simile fino al 2014. Prima del 2007 è possibile osservare un andamento comune decrescente. Negli anni successive l’andamento si inverte e una crescente liberalizzazione del mercato del lavoro è associata ad una percentuale crescente di lavoratori che vive in condizioni di povertà. L’unico anno in cui le due variabili hanno un andamento opposto è il 2014, ma resta un fenomeno isolato visto che nel 2015 e nel 2016 di nuovo le variabili riprendono ad avere un andamento che segue la stessa direzione, questa volta decrescente. Confrontando i valori assoluti dall’inizio alla fine del periodo c’è da notare che il fenomeno della povertà assoluta è cresciuto di circa 1,5 punti percentuali e che il grado di liberalizzazione del mercato del lavoro è aumentato da 3 a 6,6 circa.

Grafico 1. Povertà assoluta dei lavoratori e liberalizzazione del mercato del lavoro in 15 paesi dell’Unione Europea (2005-2016)

 Fonte: Nostre elaborazioni su dati Eurostat e Fraser Institute

Il grafico tuttavia non può ritenersi prova che il medesimo andamento concorde si riproponga anche per ogni singolo paese, dove le dinamiche macroeconomiche potrebbero aver giocato un ruolo diverso. Piuttosto potrebbe essere che questo risultato complessivo dipenda dai paesi periferici che potrebbero aver determinato l’andamento della media delle due variabili per l’intero campione. A sciogliere questo dubbio intervengono i risultati empirici ottenuti attraverso l’utilizzo di una tecnica econometrica in grado di restituire risultati affidabili anche in presenza di dinamiche diverse nei singoli paesi e con un numero ridotto di variabili esplicative[1]. Emerge che quando la percentuale di lavoratori in condizione di povertà assoluta viene stimata come dipendente della sola liberalizzazione del mercato del lavoro la relazione è positiva con un coefficiente di 1,38: ad ogni incremento unitario della liberalizzazione del mercato del lavoro corrisponde un incremento di 1,38 punti percentuali di lavoratori in condizione di povertà assoluta. Inoltre quando alla principale variabile esplicativa viene aggiunta la disoccupazione emerge che il suo contributo alla variazione del numero di lavoratori in condizioni di povertà assoluta è inferiore (il coefficiente è 0.20 circa) al contributo della liberalizzazione del mercato del lavoro (0.90 circa). In altri termini le minori retribuzioni ottenute da chi resta occupato contribuiscono allo stato di povertà di un individuo più di quanto faccia un disoccupato in più nell’ambito dello stesso nucleo familiare. Questa conclusione sembrerebbe sorprendente, ma mostra con evidenza che la riduzione complessiva del reddito familiare dovuta alla maggiore flessibilità supera quella dovuta alla perdita di un posto di lavoro.

Da questi dati è possibile evincere una serie di osservazioni: la prima – scontata – è che il processo di liberalizzazione del mercato del lavoro ha fatto crescere la povertà assoluta dei lavoratori nei 15 paesi considerati. La seconda è che tale fenomeno è indipendente dalla dinamica della crescita o della disoccupazione, che certamente contribuisce all’incremento della povertà all’interno dello stesso nucleo familiare, ma che non ne rappresenta la causa principale. La terza – che le sintetizza tutte – è che, contrariamente a quanto affermato dalla teoria consolidata, la flessibilità del mercato del lavoro fa crescere il numero di lavoratori occupati meno di quanto faccia ridurre le retribuzioni dei lavoratori. Come si direbbe in gergo tecnico, genera una riduzione del monte salari (Dutt. et al 2015). In altri termini, le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro non hanno agito positivamente sull’occupazione ma soltanto sul livello dei salari, accelerando la discesa della quota del PIL che va ai redditi da lavoro, determinando una situazione sociale esplosiva (Realfonzo 2018).

Nonostante il crescente numero di lavoratori in condizioni di povertà assoluta sia un fenomeno evidente in Europa, le istituzioni europee insistono nel suggerire la liberalizzazione del mercato del lavoro come misura per favorire la crescita. I risultati complessivi dipendono in definitiva dalla prevalenza o meno degli effetti dal lato dell’offerta su quelli dal lato della domanda. Se questi dati possono contribuire al dibattito, certamente mostrano che i secondi sono maggiori dei primi rischiando di compromettere non solo l’equilibrio macroeconomico ma anche la tenuta sociale di un paese e dell’intera unione europea.

 

*Rosaria Rita Canale è professore associato di Politica Economica presso il Dipartimento di Studi Aziendali ed Economici dell’Università di Napoli “Parthenope”

**Giorgio Liotti è ricercatore presso il dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Napoli “Federico II”.

 

Bibliografia

Bernal-Verdugo, L. E., Furceri, D., & Guillaume, D. (2013). Banking crises, labor reforms, and unemployment – ScienceDirect. 2013, 41(2013), 1202–1219.

Bhaduri, A., & Marglin, S. (1990). Unemployment and the real wage: the economic basis for contesting politicaI ideologies. Cambridge Journal of Economics, 14, 375–393.

Bianco, S. D., Bruno, R. L., & Signorelli, M. (2015). The joint impact of labour policies and the “‘Great Recession’” on unemployment in Europe. Economic Systems, 39(2015), 3–26.

Choudhry, M., Marelli, E., & Signorelli, M. (2010). The impact of financial crises on youth unemployment rate. Quaderni Del Dipartimento Di Economia, Finanza E Statistica, 79, 2010.

Ciminelli, G., Duval, R., & Furceri, D. (2018). Employment Protection Deregulation and Labor Shares in Advanced Economies. IMF, WP/18/186. Retrieved from https://www.imf.org/en/Publications/WP/Issues/2018/08/16/Employment-Protection-Deregulation-and-Labor-Shares-in-Advanced-Economies-46074

Crettaz, E. (2015). Poverty and material deprivation among European workers in times of crisis. International Journal of Social Welfare, 24(4), 312–323. https://doi.org/10.1111/ijsw.12132.

De Minicis M. (2018), Perché dopo la crisi del 2008 l’agenda neoliberale è ancora dominante? Economia e politica, 12 dicembre, https://www.economiaepolitica.it/2018-anno-10-n-16-sem-2/neoliberismo-massimo-de-minicis-crisi-del-2008-agenda-neoliberale/-

Dutt, A. K., Charles, S., & Lang, D. (2015). Employment Flexibility, Dual Labour Markets, Growth, and Distribution. Metroeconomica, 66(4), 771–807. https://doi.org/10.1111/meca.12093

Kenworthy, L. (2011). Progress for the Poor. Oxford Scholarship. Retrieved from http://www.oxfordscholarship.com/view/10.1093/acprof:oso/9780199591527.001.0001/acprof-9780199591527-chapter-10

Mundell, R. A. (1961). A Theory of Optimum Currency Areas. The American Economic Review, 51(4): 657-665

O’Higgins, N. (2012). This Time It‘s Different? Youth Labour Markets During “The Great Recession.” Comparative Economic Studies, 54(2), 395–412.

Realfonzo R. (2018), Congresso FIOM: Video e relazione di Riccardo Realfonzo su austerità e precarietà, Economia e politica, 20 dicembre, https://www.economiaepolitica.it/2018-anno-10-n-16-sem-2/congresso-fiom-2018-cgil-relazione-su-austerita-e-precarieta-di-riccardo-realfonzo/

 

[1] La tecnica econometrica e lo stimatore Pooled Mean Group (PMG) che distingue fra dinamiche di aggiustamento in ciascun paese e relazione fra le variabili nell’intero periodo considerato. Inoltre la tecnica usa la cosiddetta forma di correzione dell’errore (error correction form) in grado di restituire risultati affidabili anche in presenza di un numero risotto di variabili esplicative.

Working poor | Liberalizzazione del mercato del lavoro e povertà dei lavoratori

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Working poor | Stime empiriche mostrano inoltre che tale relazione è stabile e superiore all’effetto positivo sull’occupazione

 

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