E’ stato pubblicato, su Il Foglio, un contributo dell’economista Gianpaolo Galli. L’articolo pubblicato è parte di un capitolo, scritto da Galli, di un nuovo libro, edito dall’Istituto Bruno Leoni, dal titolo “Noi e lo stato: siamo ancora sudditi?”.
I punti su cui Galli si concentra sono sostanzialmente tre: la relazione tra debito pubblico e tassazione; l’idea per cui l’emissione di debito pubblico non troverebbe ostacolo, dato che i contribuenti non sono consapevoli che, in periodi futuri, verranno aumentate le tasse; l’onere che il debito rappresenterebbe per le future generazioni. Questo articolo intende controbattere alle tesi esposte da Galli, opponendo ad esso argomentazioni alternative.
1. Se emettere debito pubblico significa tassare
Nella parte iniziale dell’articolo Galli sostiene che poiché, prima o poi, il debito deve essere ripagato un aumento di debito di un certo ammontare oggi corrisponda ad un aumento delle tasse domani. Stando alle parole di Galli il debito sarebbe “tassazione differita”, e su questo Galli sostiene che vi sia “sostanziale consenso tra gli economisti”.
Su questo tema viene fatto un esempio in cui si suppone che lo stato decide di ridurre le tasse di 1.000 euro per ogni cittadino e di finanziare il mancato gettito emettendo un titolo con scadenza annuale e con cedola del 5 per cento. Secondo Galli “lo stato dovrà pagare 1.050 euro a ogni detentore del titolo, il che significa che ogni contribuente ottiene una riduzione di tasse di 1.000 quest’anno e un aumento di 1.050 l’anno prossimo.” Questo dovrebbe far presupporre un peggioramento della condizione della collettività. A parere di chi scrive questa conclusione è erronea per due ordini di ragioni.
Primo: Galli implicitamente sostiene che il debito pubblico debba essere azzerato. A meno che non si tratti di casi molto particolari, che rappresenterebbero un’eccezione e non certo la regola, non sembra esserci evidenza su fenomeni di azzeramento del debito pubblico da parte di un Paese tramite politiche di rientro. Si possono registrare, certo, fenomeni di riduzione del debito in rapporto al PIL ma non si registrano episodi in cui un Paese abbia azzerato il suo debito. Inoltre, dato il ruolo che svolgono i titoli rappresentativi del debito all’interno del mercato finanziario, nella misura in cui contribuiscono a generare elevata liquidità, l’idea di azzerare il debito e di eliminare, dunque, i titoli in circolazione determinerebbe anche il ritiro dal mercato di strumenti importanti per il funzionamento del mercato finanziario medesimo.
La tesi per cui il debito debba essere azzerato è sconfessata persino nelle regole europee in tema di finanza pubblica, per cui – pur non essendoci alcuna scientificità alla base – il debito non deve essere superiore al 60% del PIL.
L’altro elemento che sembra errato, rientrante in una semplice analisi di contabilità, riguarda il senso dell’esempio numerico fatto da Galli riportato sopra. Secondo tale esempio, l’elemento che giustifica l’aumento delle tasse è rappresentato dal rimborso della quota capitale e degli interessi da corrispondere ai sottoscrittori del debito. Dunque, nella visione di Galli, la corresponsione degli interessi ai sottoscrittori rappresenterebbe un onere per la collettività. Ciò che in questa visione si omette di dire, però, è che una parte dell’aumento delle tasse serve a pagare gli interessi al settore privato, interessi che rappresentano un’entrata del settore privato. A livello aggregato, dunque, a fronte dell’aumento delle tasse farà seguito, nello stesso tempo, la corresponsione degli interessi ai detentori del debito pubblico. Detto banalmente, se tutta la collettività fosse rappresentata da un unico soggetto, a fronte del pagamento delle tasse per un certo valore vi sarebbe la corresponsione di interessi per il medesimo valore al medesimo soggetto. La collettività, complessivamente intesa, non è né più né meno ricca per effetto dell’emissione del debito e del pagamento degli interessi [1]. La conclusione a cui si può facilmente giungere è la seguente: posto che il debito debba essere azzerato, l’idea che l’emissione di debito, in sé, comporti un peggioramento delle condizioni della collettività è sbagliata. Come verrà meglio spiegato nella parte finale dell’articolo, ovviamente questa argomentazione non vuole negare gli effetti redistributivi del processo di rientro dal debito pubblico: la corresponsione degli interessi ai detentori del debito pubblico, in qualsiasi modo realizzata, determina naturalmente un trasferimento di risorse a soggetti generalmente caratterizzati da una elevata propensione al risparmio. E questo, tra le altre cose, può avere ricadute rilevanti sul livello dell’attività economica (Canelli e Realfonzo, 2018). E’ lecito chiedersi se la conclusione di Galli sia tale per la specifica posizione di cui si fa portatore, e che ritiene essere “una semplice verità”, o per l’evidenza empirica a sostegno della sua tesi.
Guardando ai dati, ci rendiamo conto come non vi sia necessariamente una corrispondenza tra Paesi con rapporti tra debito e PIL elevati ed elevata pressione fiscale, come mostrato in Tabella 1.
Tabella 1. Debito/PIL e pressione fiscale per alcuni Paesi.
Paese | Debito/PIL | Pressione fiscale |
Belgio | 102% | 52,7% |
Danimarca | 34,1% | 35,7% |
Francia | 98,4% | 47,6% |
Portogallo | 121,5% | 40,7% |
Italia | 132,2% | 42% |
Germania | 60,9% | 49,5% |
Spagna | 97,1% | 39,4% |
Olanda | 52,4% | 37.7% |
Giappone | 223% | 32.6% |
Elaborazione dell’autore su dati OCSE (2019) e Eurostat
Come chiaramente emerge dalla tabella, la pressione fiscale non dipende dal valore del rapporto tra debito e PIL, ma dipende anche dal tipo di assetto istituzionale e di welfare specifico di ogni economia. Nei Paesi scandinavi, per esempio, la pressione fiscale fa registrare valori elevati prevalentemente per l’erogazione di una moltitudine di servizi che lo stato offre ai contribuenti, indipendentemente dal valore del rapporto tra debito e PIL.
Secondo: in questo esempio Galli si concentra sullo stock totale del debito e non sul rapporto Debito/PIL, grandezza che sembra più opportuno analizzare ai fini dell’analisi economica, e che viene frequentemente usata come indicatore rappresentativo della sostenibilità del debito (Blanchard, 2019).
Concentrarsi sul valore del rapporto Debito/PIL e non sul suo valore assoluto può essere ugualmente arbitrario e fuorviante. Sia perché si confronta uno stock, rappresentativo dell’ammontare dei titolo emessi in diverse epoche, con un flusso, rappresentativo del PIL dell’anno corrente. Sia perché considerare come grandezza rilevante il rapporto tra debito e PIL non deve contribuire a generare la convinzione che esista una soglia massima di tale rapporto superata la quale vi possano essere effetti negativi per l’economia. Questa convinzione è stata smentita, tra gli altri (Guerini et al., 2017, Ash et al., 2013), anche da uno studio della BCE (Mika e Zummer, 2017) in cui gli autori, dopo aver analizzato la relazione tra debito e crescita economica per un periodo di tempo che va dal 1999 al 2015, hanno potuto chiarire che non esiste alcuna soglia critica in grado di pregiudicare la crescita di un’economia.
A tal proposito, se anche si volesse procedere alla riduzione del rapporto debito/PIL, sarebbe necessario chiarire che la scelta di agire sul numeratore del rapporto (attraverso la riduzione delle spese e/o l’aumento delle entrate) anziché sul denominatore (PIL nominale) non è detto che riduca il rapporto stesso.
Vi è infatti evidenza che i consolidamenti fiscali, lungi dal ridurre il rapporto Debito/PIL, determinano un aumento del rapporto stesso (De Long e Summers, 2012; Fatas e Summers, 2016; Meloni e Stirati, 2018). Questo perché, tramite gli effetti moltiplicativi del consolidamento fiscale, il tentativo di ridurre il debito attraverso riduzioni delle spese e/o aumenti delle entrate determina una riduzione del PIL più che proporzionale rispetto alla riduzione del debito. In altri termini è ben probabile che sia la bassa crescita, legata a politiche di riduzione del debito, a determinare l’aumento del rapporto tra debito e PIL (OCSE, 2017). Parallelamente a questa conclusione, come parte della letteratura sostiene, politiche espansive possono avere un impatto moltiplicativo rilevante tale da ridurre, o almeno stabilizzare, il rapporto tra debito e PIL (Auerbach e Gorodnichenko, 2017; Gechert et al., 2018).
2. I contribuenti affetti da illusione finanziaria: nessun ruolo per le politiche in deficit?
Galli sostiene che “il successo del debito pubblico” negli ultimi anni sia dovuto “a una forma di inganno: il contribuente non si rende conto che, prima o poi, a un maggior debito corrisponde una maggiore tassazione”. Sembra opportuno sottolineare che il finanziamento di nuove spese tramite l’emissione del debito, lungi dall’essere uno strumento per ingannare il contribuente, può avere ricadute positive sull’economia, in termini di crescita e di occupazione. Infatti, ponendoci in una prospettiva keynesiana, riprendendo Lerner (1943), il deficit e il debito sono dei normali strumenti di politica economica e l’enfasi posta sui rischi ad essi associati potrebbe diventare di qualche rilevanza solo se, in corrispondenza del pieno impiego, dovessero esserci processi inflazionistici.
Considerato che, generalmente, l’economia non tende spontaneamente verso la piena utilizzazione delle risorse, disoccupazione di lavoro e ampi margini di capacità produttiva inutilizzata possono rendere molto efficace una politica espansiva attraverso l’effetto moltiplicatore. Se la politica espansiva fosse finanziata a debito l’effetto espansivo sarebbe maggiore di quello che si avrebbe se la politica espansiva fosse finanziata con un identico ammontare di tasse (cioè in pareggio). Ciò avrebbe effetti positivi sulla produzione, sull’occupazione e anche sul gettito fiscale. Se a ciò si aggiunge, come la più recente letteratura sull’isteresi mostra (Ball, 2014; Engler e Tervala, 2016; Fatas e Summers, 2016; Girardi et al., 2018; Gechert et al., 2018), che gli andamenti di lungo periodo dell’economia non sono indipendenti dall’andamento corrente dei livelli di attività, non si trovano difficoltà nel sostenere che una politica espansiva, finanziata in deficit, può avere effetti positivi e persistenti sull’occupazione e sulla crescita potenziale future.
La visione che adotta Galli evidentemente non prende in considerazione le argomentazioni di cui sopra anzi, nella parte centrale del suo articolo, egli sostiene che la “falsificazione dei bilanci pubblici” oggi sia molto più difficile di prima per la presenza di “analisti di mercato indipendenti” e per “il controllo dei mercati finanziari”. Ad una prima approssimazione sembrerebbe, dunque, che i mercati finanziari rappresentino un meccanismo di disciplina che mitiga l’irresponsabilità fiscale dello Stato rispetto ai cittadini. Un’espressione del genere custodisce dentro di sé un convincimento molto discutibile: gli operatori di mercato conoscono cosa sia bene e cosa sia male e in base a questo agiscono in maniera più efficiente dello Stato. Galli non tiene in debita considerazione, però, il ruolo svolto dalla BCE durante la crisi dell’eurozona, in cui la presunta “azione di controllo” dei mercati finanziari è stata influenzata dalla disponibilità della BCE ad acquistare i titoli del debito e a fare tutto il possibile per salvare l’euro.
3. Il debito come onere per le future generazioni: un chiarimento doveroso
Nella storia del pensiero molti contributi sul tema del debito si concentravano sulla possibilità o meno che un aumento del debito pubblico potesse essere considerato come un onere a carico delle future generazioni. Secondo Galli il debito sarebbe un onere a carico delle future generazioni, che, non potendo votare oggi opponendosi a scelte di aumento del debito, sarebbero obbligate a finanziare, tramite l’aumento di imposte future, i deficit pregressi.
L’idea alla base dell’onere sulle future generazioni risiede nell’assunzione che il debito pubblico sia un debito della nazione. Anche in questo caso è necessario sgombrare il campo da equivoci.
Il debito pubblico è il debito di una parte della collettività verso la restante parte della stessa collettività, per cui la nazione non è né più né meno indebitata per effetto dell’emissione di debito pubblico. Usando un’espressione di Melon, più volte citato da David Ricardo, che pure era un avversario del debito pubblico, il rientro dal debito, risolvendosi in trasferimento di risorse dai contribuenti ai sottoscrittori del debito, sarebbe come un passaggio di risorse “dalla mano destra alla mano sinistra”, che lascerebbe inalterata la posizione della collettività.
Contrariamente a quanto la maggior parte dei commentatori sostiene, rientrando nel portafoglio dei soggetti, i titoli rappresentativi del debito pubblico figurano come parte del reddito disponibile dei soggetti stessi: sono dunque un “credito” nei confronti dello Stato. In base a questo assunto, quando si porrà il problema di rientrare dal debito attraverso aumenti di imposte o riduzioni delle spese, al maggior carico fiscale sulle generazioni future si accompagna il lascito dei titoli rappresentativi del debito pubblico che verranno loro trasmessi: la situazione patrimoniale delle generazioni successive non sarà perciò né peggiorata, né migliorata [2]. E’ opinione diffusa pensare che, dato lo stock di debito, ogni bambino che nasce abbia sulle spalle una certa percentuale di debito pubblico, che eredita dal passato e che dovrà egli stesso pagare attraverso future imposte. Persino nell’ultima lettera della Commissione Europea (2019) all’Italia, infatti, viene sostenuto come un debito pari al 132.2% del PIL rappresenterebbe un onere medio per cittadino di circa 38.400€, con l’aggiunta del pagamento degli interessi per un valore annuale pari a 1.000€.
A smentire questa credenza è Einaudi, storico rappresentate della scuola liberale italiana.In un contributo del 1959 (Einaudi, 1959), così si esprimeva sull’onere intergenerazionale del debito:” Gran parte della condanna morale lanciata dai politici austeri contro il debito pubblico è dovuta alla convinzione dell’immoralità di godere noi vivi oggi i vantaggi della spesa e di lasciar pagare il conto ai lontani nepoti. I posteri c’entrano; ma in modo del tutto diverso da quello immaginato dalla credenza comunemente diffusa nel volgo che il debito pubblico sia un trucco per far pagare ai nepoti le spese sostenute dai viventi. Disgraziatamente per i vivi, non esiste nessun mezzo per far pagare una spesa qualunque, grossa o piccola, privata o pubblica, alla gente la quale deve ancora nascere.” A contestare l’ipotesi per cui il debito pubblico sia un onere per le generazioni future non è solo Einaudi. Seguendo le parole di Modigliani (1987) “l’opinione per la quale il debito crea un onere [per le future generazioni] è quella dell’uomo della strada, poiché si basa sulla nozione che il debito dello Stato è analogo a quello di una famiglia”. Per Modigliani (1987, 1961) l’aumento del debito pubblico intaccherebbe le generazioni future solo nella misura in cui determinerebbe una riduzione del reddito futuro dettata da una riduzione dell’accumulazione di capitale. La minore accumulazione sarebbe dovuta al fatto che “quando il governo emette debito fa ricorso al risparmio corrente che, altrimenti, sarebbe confluito in alternative di investimento” (1987).
Certo, il processo di rientro dal debito, qualora dovesse configurarsi, porta con sé conseguenze distributive. Ma il modo in cui il carico fiscale, o la riduzione delle spese, debbano essere modulate sulle diverse classi di reddito per evitare iniquità e distorsioni è una questione che rientra nella sfera delle decisioni politiche. Una chiara rappresentazione di questa “scelta politica” è ben descritta in Barba (2011), in cui viene data un’idea lampante di come il processo di riduzione del debito dell’Italia per rispettare i parametri di Maastricht si sia basato, prevalentemente, su una struttura della tassazione che ha aggredito in misura maggiore il salario rispetto al profitto, che, al contrario, ha visto un sostanziale alleggerimento delle aliquote. La stessa impostazione non si è verificata per altri Paesi europei. La struttura impositiva, definita da Barba salariocentrica, ha senz’altro influenzato gli aspetti redistributivi del rientro, che sarebbero stati diversi se fosse stato diverso il peso relativo della tassazione sui redditi da lavoro e da capitale.
Per concludere, quando ci si preoccupa delle future generazioni non si deve considerare solo il debito nazionale ma tutto il bilancio pubblico, nelle attività del quale rientrano infrastrutture e beni pubblici che le future generazioni ereditano. E’ per questa ragione che appare insufficiente ed erronea un’analisi che si limiti a considerare il debito pubblico come onere sulle generazioni future. Periodi prolungati di inattività e disoccupazione possono contribuire al peggioramento delle condizioni future della collettività, banalmente perché la persistente sottoutilizzazione delle risorse determina la distruzione della capacità produttiva disponibile e il peggioramento della condizione professionale e sociale dei lavoratori. Questo, e non il debito pubblico, si configura come onere sulle generazione future.
Conclusioni e proposte
Il contributo di Galli si inserisce nel più ampio tentativo, condotto da anni dall’Istituto Bruno Leoni, di demonizzare il ruolo dello stato nell’economia. Spunti di letteratura, dati e deduzioni logiche ci hanno permesso di smentire le convinzioni di Galli. Al proposito di Galli di abbattere con tutte le forze il debito pubblico, considerato “il macigno” che impedisce all’Italia di emergere, il presente articolo oppone una visione opposta: quella per cui il vero macigno che deve sopportare l’economia è la disoccupazione, la cui riduzione deve essere perseguita con tutte le forze. E all’iniziativa dell’Istituto Bruno Leoni di mettere nelle stazioni ferroviarie il contatore del debito pubblico questo articolo risponde proponendo di collocare il contatore della disoccupazione. La prolungata disoccupazione, e non il debito, sarebbe il vero onere sulle generazioni future, in termini di minore reddito e minore occupazione in futuro.
*Dottorando Università Roma Tre
[1] Si noti che anche se nell’economia vi fossero più individui, con la stessa ricchezza iniziale, in cui solo alcuni acquistano tutto il debito, dal rimborso del debito discenderebbero effetti redistributivi, ma essi sono impliciti nella natura stessa della processo di rientro dal debito.
[2] Per un contributo sul tema si rimanda a Ciccone (2012), citato in bibliografia.
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