Partendo dall’assunto che le gravi difficoltà di crescita del Mezzogiorno e l’ampliarsi del divario con il Centro-Nord, ben registrata nell’ultimo Rapporto Svimez, non è solo una questione di spesa pubblica, anche nell’attuale Disegno di legge di bilancio 2020 si riprende il tema relativo alla clausola degli investimenti pubblici da ripartire obbligatoriamente a quota 34% per il Mezzogiorno. Si parla di “rafforzamento” di tale clausola che invero dall’articolato non solo non traspare ma per certi versi – se non circostanziata in sede di conversione – potrebbe rendere ancora più aleatoria tutta la materia. Il 34%, quota peraltro già in vigore e corrispondente al peso della popolazione meridionale sul totale italiano, si riferirebbe infatti “alle risorse per programmi di spesa in conto capitale”. Ma di quali risorse stiamo parlando? Solo delle risorse delle Amministrazioni Centrali più i nuovi contratti di programma ANAS e Ferrovie come era previsto nella precedente legge di bilancio? Di tutte le risorse della Pubblica Amministrazione? Di tutte le risorse della Pubblica Amministrazione più l’Extra PA, ossia Imprese Pubbliche Nazionali e Imprese Pubbliche Locali? E le risorse straordinarie sono dentro o fuori?
È evidente che fissare un’asticella a una fatidica percentuale, senza precisare accuratamente quale sia l’universo della spesa in conto capitale a cui applicarla, rischia di risultare più un retaggio ancestrale che un reale obiettivo di Governo. Cerchiamo di capire con un semplice grafico da dove partiamo.
Figura 1 Incidenza della spesa in c/capitale (comprensiva dei Fondi UE) per il Mezzogiorno da parte della PA, dell’extra PA e del Settore Pubblico Allargato, 2000-2017
Fonte: elaborazione IFEL-Dipartimento Studi Economia Territoriale su dati CPT, anni vari
Negli ultimi 17 anni la quota 34% è quasi sempre stata superata se si guarda all’incidenza della spesa in c/capitale (comprensiva dei Fondi UE) per il Mezzogiorno da parte della Pubblica Amministrazione (PA). Di contro non è mai stata superata se si guarda al solo settore Extra PA (cioè le Imprese Pubbliche Nazionali e Locali) e solo raramente se si guarda alla spesa del Settore Pubblico Allargato. Al contempo, traspare con palese evidenza come il settore Extra PA delle Imprese Pubbliche Nazionali e Locali, con la sua spesa molto più bassa del 34%, abbia giocato un contributo determinante nella mancata crescita del Mezzogiorno, essendo responsabile in misura significativa del deficit di infrastrutturazione che caratterizza il Mezzogiorno d’Italia.
Insomma, parlare genericamente di riparto di tutte le risorse dei programmi di spesa in conto capitale finalizzati alla crescita o al sostegno degli investimenti rischia di essere una foglia di fico dietro cui nascondere l’effetto doping delle risorse straordinarie e il grande abbandono del Sud da parte delle Imprese Pubbliche Nazionali.
É interessante notare (Figura 2), infatti, che l’incidenza della spesa in c/capitale per il Mezzogiorno da parte della PA senza i Fondi UE – alla quale probabilmente pensa il ministro del Mezzogiorno Provenzano, ma di cui non c’è chiarezza nel testo in esame al Parlamento – restituisce un impegno finanziario pubblico nazionale verso il Mezzogiorno decisamente lontano da quota 34%, ponendo, ancora una volta, la questione del non rispetto del principio di addizionalità delle risorse comunitarie quale questione centrale nella crescita del Sud degli ultimi 20 anni.
Figura 2 Incidenza della spesa ordinaria (al netto dei Fondi UE) per il Mezzogiorno da parte della PA, 2000-2017
Fonte: elaborazione IFEL-Dipartimento Studi Economia Territoriale su dati CPT, anni vari
L’evidenza empirica dimostra, poi, come il ridotto impegno delle IPN nel Mezzogiorno, rispetto al Centro‐Nord, abbia invece pesantemente contribuito ad amplificare il divario di spesa pubblica in conto capitale tra il 2001 ed il 2010, per poi riequilibrarsi – ancora una volta grazie soprattutto alle risorse UE[1] – dall’anno dopo fino al 2017.
Figura 3 Imprese Pubbliche Nazionali – Spesa in conto capitale al netto delle partite finanziarie (anni 2000-2017; euro pro capite costanti 2010)
Fonte: elaborazione IFEL-Dipartimento Studi Economia Territoriale su dati CPT, anni vari
In questo modo, le IPN sono state corresponsabili di un aumento delle disparità territoriali, perché inseguendo la redditività degli investimenti, più elevata nel Centro‐Nord, hanno concentrato i propri sforzi nelle aree con una buona dotazione iniziale. Ciò ha generato esternalità positive, che sostengono ulteriormente i processi di crescita di quelle aree, ed acuito il divario Nord‐Sud. È sorto, dunque, un problema di equità, perequazione territoriale e redistribuzione sociale poiché l’Impresa Pubblica Nazionale ha continuato a ricevere finanziamenti pubblici alimentati da una contribuzione dei residenti di tutte le regioni, ma ha deciso di investire ed operare secondo logiche di mercato nelle aree‐Paese più redditizie o addirittura fuori Paese. L’effetto è la dismissione di interi comparti nelle aree più in ritardo del Paese, ossia proprio in quei territori dove è più forte la necessità di investimenti in infrastrutture e servizi.
Appare evidente, dunque, che oggi parlare di risorse pubbliche per il Mezzogiorno senza mettere mano sia ad una politica di sviluppo-Paese che riparta da una politica industriale a tutto tondo, a cominciare dal ruolo delle IPN, e senza superare l’effetto sostituzione delle risorse ordinarie con quelle straordinarie, rischia di ridursi ad uno sterile – per quanto encomiabile – esercizio intellettuale.
*Capo Dipartimento Economia Locale Fondazione IFEL
Il lavoro riflette esclusivamente le opinioni dell’autore senza impegnare la responsabilità dell’Istituzione di appartenenza.
[1] Con riferimento ad esempio al FESR nel periodo di programmazione 2007‐2013, RFI risulta attuatore di progetti del valore complessivo di 1,7 miliardi di euro, di cui il 98% nelle regioni Convergenza. Simile situazione per ANAS, con 1,65 miliardi di euro, di cui il 99% destinato al Mezzogiorno.