Mariana Mazzucato, economista italoamericana, professoressa alla University College London e fondatrice dell’Institute for Innovation and Public Purpose nello stesso ateneo è stata nominata consigliera economica del governo Conte bis. La decisione del suo incarico è stata presa in un momento in cui la stagnazione economica italiana è culminata nell’emergenza sanitaria del coronavirus e nell’incombente rischio recessione. Questi elementi hanno visto quanto mai stringente la necessità di dare concretezza alle intenzioni del governo di dirigersi verso il c.d. Green New Deal, quel piano di investimenti orientati all’innovazione ecologica a cui l’economista lavora già da anni in paesi come l’Inghilterra, la Scozia e il Sudafrica[1].
Mazzucato è divenuta celebre grazie al saggio Lo Stato innovatore[2] in cui si è dedicata allo scardinamento dei molti pregiudizi sull’intervento pubblico nell’economia contrapponendo al culto libero-mercatista di uno Stato “ingombrante”, “burocratico” e “limitativo” per l’intrapresa privata, una visione alternativa che è quella dello «Stato proattivo, imprenditoriale, capace di assumersi rischi e creare una fitta rete di operatori economici, in grado di mettere a frutto per il bene della collettività nazionale il meglio del settore privato su un orizzonte temporale di medio-lungo termine» (p. 33).
Uno dei primi esempi a supporto della sua tesi era giunto all’autrice nientemeno che dagli Stati Uniti dove al Dipartimento della Difesa venne imposto dalla contingenza della “guerra fredda” di lanciarsi in una escalation nella ricerca di base. Lo scopo era quello di mantenere una posizione di superiorità in tutti i settori e soprattutto in quello della tecnologia avanzata, nondimeno le start-up più innovative beneficiarono per più di un decennio di investimenti “pazienti” che facevano tutti capo allo Stato, il quale a sua volta coordinava la condivisione delle conoscenze emerse dalla ricerca applicata delle singole imprese, riducendo quindi ancora di più il rischio iniziale. Con la fine della guerra fredda la cessione delle tecnologie alla “mano invisibile” del commercio (da Arpanet a Internet) ha generato quella rivoluzione digitale con epicentro nella Silicon Valley, cui è seguita una nuova epoca di sviluppo economico (una storia ben diversa dalla vulgata lectio dell’epopea di un imprenditore geniale che comincia la sua fortuna lavorando in un garage).
Tuttavia, essendo la collettività ad investire e le imprese a vendere, nel passaggio tra la teoria, l’evidenza empirica e la formulazione di una politica, Mazzucato si imbatte nella maggiore criticità di un modello di questo tipo che risiede nel conflitto distributivo tra la socializzazione dei rischi e la privatizzazione dei guadagni. Secondo l’economista, in un mondo in cui la crescita è trainata dall’innovazione, è evidente che una mancata regolamentazione di quest’ultima condurrà i privati alle molteplici pratiche di estrazione di valore (rendite da brevetti o da titoli azionari) piuttosto che incoraggiarli a farsi carico in prima persona dei rischi legati agli investimenti di lungo termine. Ed è qui che Mazzucato trova il suo personale punto di approdo ad una questione che è stata per anni centrale nella storia del pensiero economico ovvero l’indagine sulla creazione e l’appropriazione del valore, che è il tema che affronta nell’ultimo suo libro Il valore di tutto[3].
Nella sua rassegna critica sulla teoria del valore, Mazzucato mette in luce due contributi fondamentali: il primo è la descrizione fornita da Ricardo di uno scenario di stagnazione economica derivante dalla crescente estrazione, da parte della classe fondiaria, di rendite da monopolio sui beni e le risorse scarse a discapito del profitto della classe capitalistica, e dunque di ogni futura opportunità di crescita. L’autrice ricollega il ruolo dei rentier a quello del moderno settore finanziario, che con le «smisurate rendite che esso ricava dall’attività speculativa ha creato disincentivi per la produzione industriale» (p. 49) (è quanto è stato peraltro già discusso da Lunghini e Bianchi per i quali, sebbene la rendita e l’interesse abbiano origini differenti, «nel processo produttivo, nella distribuzione del reddito e nell’accumulazione del capitale e fino al conflitto tra le classi, i banchieri giocano essenzialmente lo stesso ruolo dei proprietari terrieri nella teoria ricardiana»[4]).
Il secondo contributo è l’analisi del capitalismo formulata da Marx. La funzione del capitalista monetario (il banchiere) è quella, nella teoria marxiana, di dare l’avvio al processo circolare di produzione e scambio delle merci e di riproduzione del capitale attraverso il sistema di credito. È proprio grazie ai titoli di credito, infatti, che al capitalista industriale o all’imprenditore viene concesso non solo di accedere alle risorse necessarie alla produzione (qualora egli non ne disponga), ma anche di anticipare il momento in cui il valore creato sarà realizzato dopo la vendita delle merci e dal quale potrà avviare un nuovo processo d’accumulazione. Però il banchiere si farà pagare un interesse per questa sua funzione anticipatrice di pagamento, il quale rappresenta una «imposta sul profitto imprenditoriale»[5]. In tal senso il ruolo del banchiere rientra nella “sfera di circolazione” alla stregua del capitalista commerciale (considerato nel secondo libro del Capitale) che non crea plusvalore ma ne sottrae una parte sulla base del valore del capitale che ha messo a disposizione del capitalista industriale o dell’imprenditore.
Eppure, come ricorda l’autrice, «la distinzione fra ciò che è o non è produttivo è cambiata sotto l’impulso di forze economiche, sociali e politiche» (p. 25) e insieme ad essa anche la concezione stessa dello studio dell’economia, che è passata da essere una economia politica, integrata con tutte le altre scienze sociali, ad una «disciplina tecnica neutrale che può essere praticata facendo astrazione dal contesto sociale e politico circostante» (p. 38). Ne è seguito che con l’avvento del marginalismo, la scuola tutt’oggi dominante, il dibattito economico è stato profondamente dirottato e alla ricerca oggettiva del valore è stata sostituita una visione più soggettiva di esso, basata sull’incontro tra l’utilità della gente e la scarsità dei beni e sintetizzata nel prezzo, tanto da giungere al punto in cui «tutto ciò che ha un prezzo sul mercato può essere definito come attività produttiva» (p. 72).
In questo modo la rendita anche finanziaria ha iniziato ad essere concepita come appena un’imperfezione del mercato correggibile attraverso la concorrenza, perché «se il valore deriva dal prezzo, il reddito derivante dalla rendita deve essere produttivo» (p. 81). Ed è questa concezione del prodotto sociale che viene rigettata dalla Mazzucato, perché ci ha condotto a misurare la ricchezza delle nazioni (ovvero il Pil) sulla base di «un miscuglio che combina l’utilità marginale con la flessibilità statistica e un po’ di buonsenso e che invita all’attività di lobbying, piuttosto che al pensiero sul valore» (p. 109).
Nella convinzione (errata, dunque) che l’utilità potesse rappresentare valore, il settore finanziario ha visto accrescere la propria quota nel calcolo del reddito nazionale e ciò ha condotto negli anni all’abrogazione delle norme riguardanti i limiti al movimento internazionale dei capitali e i vincoli all’attività bancaria (dagli accordi di Bretton Woods superati nel 1971 al Glass-Steagall Act nel 1999), tutte misure introdotte peraltro all’indomani del crollo borsistico del 1929 e della grande depressione che ne era seguita.
Con la deregolamentazione finanziaria si è imposto nell’economia anglosassone a partire dagli novanta (e poi nel resto d’Occidente) un modello di attività di borsa in cui i titoli creati dalle banche commerciali, collegati ai mutui delle famiglie, hanno potuto essere cartolarizzati dalle banche d’investimento e scambiati sotto forma di “derivati” nei mercati finanziari. In questo modo le grandi imprese hanno potuto finanziarsi (e anche fare profitti) direttamente sui suddetti mercati anziché ricorrere ai prestiti bancari, e allo stesso modo le banche hanno potuto guadagnare attraverso la «pratica sempre rischiosa di erogare prestiti alle famiglie dotate di basso merito creditizio e già indebitate» (p. 118), perché sicure che quei titoli rischiosi potevano essere “riciclati” e rivenduti a buon prezzo (CDS, ABS, CDO etc.).
Mazzucato ricorda che un sistema così costruito può rimanere stabile fintanto che il debito cresce quanto il reddito, ma «con gli anni 2000 chi acquistava una casa poteva chiedere in prestito il 100% o più del valore dell’immobile [e] nel 2016 il prestito totale cumulato alle famiglie britanniche aveva raggiunto circa l’83% del prodotto nazionale, equivalente a circa 30.000 sterline per ogni adulto del paese – ben più dei redditi medi» (p. 140) . Si arriva così al nodo cruciale della questione: nel decennio 1995-2005 il debito delle famiglie in rapporto al loro reddito disponibile è cresciuto del 42% negli USA e del 53% nel Regno Unito e questo proprio mentre «in tutti i paesi OCSE la quota dei salari è crollata di molti punti percentuali in favore dei profitti» (p. 142).
Si è così giunti ad una fase che Mazzucato ha definito “capitalismo casinò”, in cui «solo il 15% dei fondi erogati [dalle banche] va a imprese non-finanziarie. Il resto viene scambiato tra istituzioni finanziarie, facendo soldi semplicemente con lo scambio di soldi» (p. 149). È la circolazione D–D’ senza più l’intermediazione produttiva, che Marx ha bollato come il «feticcio automatico» in cui «il rapporto sociale è perfezionato come rapporto di una cosa, il denaro, con sé stessa»[6].
Tutti quei titoli creati in origine allo scopo di ridurre ragionevolmente i rischi d’insolvenza dei debitori (swap, opzioni e futures) sono diventati di fatto il maggiore strumento di guadagno, che si basa su una vera e propria «scommessa sull’incapacità di qualcuno di rimborsare i propri debiti» (p. 166). La conseguenza di ciò è stata che anche l’approccio manageriale delle grandi imprese si è adeguato alla nuova logica del sistema assumendo l’obiettivo prioritario della massimizzazione del valore degli azionisti piuttosto che quella della dimensione degli affari. Per questo motivo i fondi privati sono stati destinati ai programmi di riacquisto di azioni proprie in previsione di una loro crescita di valore a discapito degli investimenti produttivi e di quella R&S bisognosa invece di tempo e pazienza.
La finanziarizzazione dell’economia è, secondo Mazzucato, il frutto della “preferenza per il breve termine” già riconosciuta da Keynes, secondo il quale gli operatori si occupano «non già di compiere migliori previsioni a lungo termine sul rendimento probabile di un investimento per tutta la durata della sua vita, bensì di prevedere variazioni della base convenzionale di valutazione con un breve anticipo rispetto al grosso pubblico»[7].
Come già accennato, insieme all’ideale della finanza promossa a “creatrice” di valore l’altra comune convinzione è che la spesa statale sia invece improduttiva. Ciò che il pensiero dominante ha sempre affermato con forza è che il ruolo dello Stato nell’economia deve essere quello di correggere gli eventuali fallimenti di mercato. Ma si è visto con Keynes che il mercato fallisce proprio quando i privati smettono di investire in seguito ad uno scoraggiamento delle loro aspettative di guadagno. Era stato questo a determinare l’equilibrio di sottoccupazione cronica degli anni 1930-33 in cui si è ricorso all’intervento statale per risollevare una insufficiente domanda effettiva e risolvere la più grande crisi del Novecento.
Tuttavia, la lezione keynesiana è stata rimossa dagli economisti neoclassici (seguaci del marginalismo) che hanno divulgato l’idea che la spesa pubblica in deficit sia addirittura nociva per la crescita, sebbene Kalecki avesse affermato che tutto ciò che lo Stato spende in eccesso alle entrate fiscali (pagate da imprese e famiglie) permette ai profitti «di crescere al di sopra del livello determinato dagli investimenti privati»[8]. Come che sia, tale pregiudizio ha condotto ad accettare tacitamente la politica d’austerità come una sorta di ideologia, non supportata dalla teoria né dalla pratica, insieme a tutte le normative promosse da essa (l’autrice cita il Trattato di Maastricht quale esempio più calzante e recente, come anche i processi di privatizzazione dei beni pubblici).
A questo punto Mazzucato giunge alla sua tesi di fondo: il modo in cui lo Stato entra nella sfera della produzione non implica soltanto una sottrazione di risorse all’economia privata, ma quando interviene «salvando le banche, investendo in infrastrutture, educazione e scienza di base e finanziando tecnologie radicali, innovative» esso crea valore. Lo Stato non viene visto dunque in senso puramente keynesiano, con una spesa pubblica che si aggiunge a quella dei privati, ma assume anche le vesti di «produttore di input intermedi per le aziende» (p. 96). Eppure questo valore «non è facilmente visibile per la semplice ragione che una gran parte di esso va nelle tasche del settore privato» (p. 260) sotto forma di rendita monopolistica (come nel caso esemplare delle autostrade).
Diventa quindi ragionevole supporre che una crescita innovativa ed inclusiva può essere possibile solo attraverso un riallineamento degli sforzi collettivi alla base del progresso tecnico (tornando al tema dello “Stato imprenditore”) con la distribuzione delle ricompense generate da quest’ultimo. Così Mazzucato giunge a completare la sua teoria risalendo alla questione più fondamentale che la limita, perché la funzione dello Stato innovatore di fatto non può prescindere da quella dello Stato regolamentatore capace di ripristinare l’originale funzione economica delle banche e della finanza al servizio dell’economia reale e d’incentivo all’investimento di lungo periodo.
[1] Mazzucato, M. (2018), “The Green New Deal: A bold mission-oriented approach”, IIPP Policy Brief, December.
[2] Mazzucato, M. (2014), Lo Stato innovatore, Bari: Laterza.
[3] Mazzucato, M. (2018), Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae all’economia globale, Bari: Laterza.
[4] Lunghini, G., Bianchi, C. (2004), “The Monetary Circuit and Income Distribution: Bankers as Landlords?”, in R. Arena and N. Salvadori (eds.), Money, Credit and the Role of the State. Essays in Honour of Augusto Graziani, Burlington (VT): Ashgate.
[5] Schumpeter, J. A. (1912), Teoria dello sviluppo economico, Milano: ETAS, 2002.
[6] Marx, K. (1894), Il capitale. Critica dell’economia politica, vol. III, Roma: Editori Riuniti, 1997, cap. 24.
[7] Keynes, J. M. (1936), Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Torino: Utet, 2017.
[8] Kalecki, M. (1954), Teoria della dinamica economica. Saggio sulle variazioni cicliche e di lungo periodo nell’economia capitalistica, Torino: Boringhieri, 1957.