La nota che segue analizza i dati della modesta performance dell’euro quale valuta di riserva internazionale (IC) e, dunque, la sua del tutto parziale capacità di risultare uno strumento di pagamento e di riserva di valore alternativo al dollaro statunitense. La nostra nota non ha dunque ambizioni interpretative delle mutazioni che intercorrono tra le principali valute. Ben profondi sono i sommovimenti storici che portano a variazioni del paradigma monetario internazionale. Inoltre le motivazioni della lentezza di affermazione dell’euro, a circa un quarto di secolo dal varo della moneta unica europea, non possono ancora essere considerate né unanimi né definitive (Ewe-Ghee 2006) poiché, come vedremo, non pochi sono economisti e politici che ritengono possibile un rafforzamento del ruolo dell’euro e altrettanti addebitano la sua modesta diffusione a cause di natura diversa. L’intento è quello di valutare la performance degli indicatori che la storia miscela e tende a rendere significativi per rendere una valuta di riserva rilevante a livello internazionale. La Figura 1 sintetizza molte delle nostre affermazioni successive.
Nel riquadro (b) alla destra si evidenziano le principali operazioni internazionali cui è adibita una valuta (nell’ordine riserve di valuta estera, debiti internazionali, prestiti internazionali, transazioni sul mercato dei cambi esteri, costo dell’accredito in valuta estera, valuta di fatturazione delle esportazioni) che, sempre nel medesimo riquadro compaiono per le principali valute nel 2021. La loro media ponderata consente di ottenere nel riquadro (a) della medesima Tabella un indicatore sintetico del ruolo complessivo internazionale dell’euro, andamento che esibisce una qualche significatività: la massima fruizione internazionale dell’euro si realizza prima della crisi finanziaria del 2007-2008, rallentando poi ineluttabilmente sino ai giorni nostri e stabilizzandosi a poco più di un quinto del valore complessivo quale valuta internazionale.
Ancora il riquadro (b) evidenzia quanto una simile subalternità al dollaro si evidenzi per tutte le diverse funzioni di una valuta internazionale, con particolare enfasi per le riserve detenute dalle banche centrali e per i prestiti e i debiti a livello internazionale. L’unica equiparazione è costituita, negli ultimi due istogrammi, dalla fatturazione delle esportazioni internazionali
Figura 1: Il ruolo internazionale dell’euro. Grafico di sinistra: Indice sintetico del ruolo internazionale dell’euro (vedi dettagli in nota). Grafico di destra: Quote del sistema dei pagamenti internazionali.
È verosimile supporre che le aspettative dei mercati fossero differenti alla fine del secolo scorso e, per quanto ci riguarda, le ipotesi interpretative che cercheremo di suffragare con i dati per una simile debolezza possono sinteticamente essere ricondotte ai punti che seguono:
- L’euro, sin dalla sua nascita, non ha mai perseguito l’obiettivo esplicito e precipuo di costituire un’alternativa al dollaro: semmai la sua dimensione internazionale avrebbe dovuto costituire il sottoprodotto degli obiettivi primari perseguiti per l’area dell’Unione Monetaria.
- Il primato del dollaro si è paradossalmente amplificato nelle crisi finanziarie dell’ultimo ventennio, nelle fasi, cioè, che avrebbero dovuto consentire, data l’epicentro statunitense della crisi, un rafforzamento del mezzo di scambio europeo;
- Gli interventi di collaborazione da banche centrali, le cosiddette bilateral o multilateral swap, sono stati condotti con modalità differenti tra il “prestito temporaneo e selettivo” della European Central Bank e il “Lending of Last Resort” della Federal Reserve;
- I movimenti internazionali di capitali a breve termine hanno e hanno avuto come destinazione i cosiddetti “safe assets”, ovvero i titoli di stato “sicuri” il cui valore di mercato rimane sostanzialmente costante e “sicuro” anche nelle fasi di turbolenza dei mercati finanziari.
Obiettivo del lavoro è, dunque, discutere gli elementi di debolezza dell’Unione Monetaria Europea che impediscono uno sviluppo più solido dell’euro quale valuta internazionale. L’idea, quindi, è qualificare i punti I-IV e gli eventuali elementi che li connettono.
2. A rileggere quanto tra il 1999 ed il 2002 (Duisenberg 2000, Hartman and Issing 2002, ECB 1999) i policy makers dell’euro affermavano, si ammetteva che la dimensione di IC fosse un fenomeno complesso e che non sarebbe dipeso da decisioni ex ante della BCE. A suffragare una simile linea di ragionamento veniva richiamata l’esperienza fallimentare del Sistema Monetario Europeo, il cui insuccesso veniva fatto dipendere dalle divergenze strutturali tra i paesi che ne avevano fatto parte piuttosto che dall’esercizio di una miope “German Dominance”. Seppur la stabilità monetaria non era considerata una condizione del tutto sufficiente a far sì che l’euro detronizzasse parzialmente il dollaro si può evincere la sensazione che la costanza dei prezzi ne fosse totalmente necessaria affinché l’euro acquisisse uno status internazionale. L’idea era, in sintesi, che i mercati finanziari internazionali non potessero che essere attratti da una valuta la cui stabilità era assicurata nel corso del tempo.
Le articolazioni e le contraddizioni del mercato finanziario non erano allora considerate come elementi intrinsecamente destabilizzanti. La Banca Centrale Europea riteneva che prezzi stabili costituissero una pre-condizione indispensabile ma anche che, col passare degli anni, una serie di nuovi fenomeni inerenti i mercati finanziari si sarebbero affermati come imprescindibili.
3. Un fenomeno, allo stesso tempo causa ed effetto, di un potenziamento delle relazioni commerciali tra due paesi ed un incentivo ad adoperare come mezzo di pagamento una delle valute in oggetto è costituita dal cosiddetto pegging (ancoraggio) che si determina quando un paese, pur senza stipulare un accordo di cambi fissi con il suo interlocutore, decide di ancorare l’andamento della propria moneta a quello che considera un paese rappresentativo.
Il pegging costituisce un fenomeno di indubbio vantaggio per il paese che lo pratica: la fatturazione delle esportazioni e delle importazioni avviene, per lo più, nella valuta forte e niente esclude che eccessivi apprezzamenti o deprezzamenti di quest’ultimi possano essere evitati dalla valuta “debole” per annullare effetti negativi sulle esportazioni o, specularmente, sul tasso di inflazione interno.
La BCE è divenuta progressivamente consapevole dell’importanza che l’euro costituisca una valuta pegged (ECB, 2022) poiché la valuta “pegged” risulta normalmente quella in cui sono stilate esportazioni e importazioni del paese “follower”. Tuttavia, i dati disponibili (vedi Figura 2) indicano che la valuta di fatturazione è strettamente collegata a quella con cui si stabiliscono indirizzi di “evoluzione parallela”: Europa con l’euro (area verde degli istogrammi) e Asia-estremo Oriente con il dollaro (area blu degli istogrammi).
Figura 2: Valuta di fatturazione per area geografica
Figura 3: Valuta di fatturazione di export e imports per paese.
L’elenco redatto dalla World Bank circa le “major fixed currencies” di fatto ancorate al dollaro ci conduce ad un universo di paesi produttori di materie prime di assoluto primato e rilevanza geo-politica: Bahrein, Cuba, Djibouti, Hong Kong, Giordania, Libano, Oman, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti. L’eterogeneità economica e politica dei paesi elencati si spiega con la storia e con accordi progressivi riguardo la fatturazione del petrolio e dei suoi derivati.
A maggiore dimensione regionale sono i paesi con i quali l’Europa mantiene tassi cambio pegged e dunque relativamente fissi: la Bulgaria la Danimarca, la Serbia, la Bosnia e Herzegovina, la Macedonia, la Croazia, l’Albania (vedi Figura 3).
Sembra dunque possibile ipotizzare che, mentre gli Stati Uniti agiscono favorendo una centralità del pegging del dollaro senza confini regionali, l’euro adotta una sincronizzazione dei cambi su basi eminentemente regionale, se si eccettua qualche modesta apertura verso paesi nord-africani come Marocco e Tunisia e che tale sincronizzazione, per taluni di essi, abbia cominciato a deflettere nei primi mesi del 2022.
Figura 4: Tassi di cambio delle valute “ancorate” all’euro
Un discorso a parte, che meriterebbe valutazioni ben più approfondite, riguarda il ruolo svolto negli ultimi anni dal renminbi che, secondo le intenzioni del governo cinese dovrebbe staccarsi dal pegging col dollaro e ancorarsi, come inizia a fare, ad un basket di valute: tutto ciò avrebbe effetti ancora difficili da prevedere. Da un lato un minor ancoraggio al dollaro, dall’altro una maggiore competitività con l’euro (Prasard et al. 2016). Ma tutto ciò meriterebbe un’analisi a parte.
4. L’ipotesi che stiamo avanzando è che il sistema economico internazionale evolva verso una modalità che è stata definita (Ilzetki et al., 2020) di una “one and half currency” – dollaro ed euro – e una valuta aggiuntiva, il renminbi cinese che aspira ad una affermazione soprattutto per le finalità di tipo commerciale. Il fenomeno del pegging è risultato significativo: una vera e propria anchor currency, il dollaro, cui nei fatti sono “ancorati” anche tutti i principali paesi asiatici, e una valuta cui si ancorano di fatto paesi che contano per il 3.5% del PIL mondiale e che aspirano ad entrare nella zona dell’euro (Ilzetki et al., 2020).
Un secondo fenomeno significativo è costituito dagli accordi bilaterali tra banche centrali che hanno teso ad infittirsi dopo la crisi finanziaria del 2007-2008: i “bilateral currency swap”.
Si tratta di accordisottoscritti tra due banche centrali per assicurare lo scambio delle rispettive valute: attraverso una linea di swap una banca centrale ottiene liquidità in valuta estera, ad esempio il dollaro statunitense in favore della Banca centrale europea (BCE).
La banca centrale attiva una linea di swap per evitare che le banche commerciali possano restare sprovviste di valuta straniera in condizioni critiche di mercato; quindi, riceve importi in valuta straniera in cambio del loro controvalore nella valuta locale che viene, di solito, trattenuta dalla banca centrale contraente poiché essa costituisce una sorta di “collaterale” e, comunque, non dà adito alla creazione di base monetaria aggiuntiva indesiderata.
Il fenomeno si intensifica tra il 2008 e il 2009, quando le banche non statunitensi devono rifinanziare gli impieghi in dollari in presenza di scarsità di tale valuta. La banca centrale stabilisce dunque uno swap in accordo con la Federal Reserve in base al quale le due banche nazionali si accreditano un importo espresso nella propria valuta e che in pratica solo una banca centrale utilizza per finanziare le banche locali a corto di valuta estera (Aldaoro et al., 2020).
Ciò implica due fenomeni da sottolineare: il primo è che in ogni Bilateral Currency Swap (BCS) vi è di fatto una banca centrale recipiente che utilizza “immediatamente” la valuta estera per le banche operanti sul proprio territorio; il secondo è che il fabbisogno di valuta estera sarà tanto maggiore quanto maggiore è la sua circolazione fuori dai confini nazionali. Ad esempio, se in un bilateral swap tra Eurozona e Danimarca il paese recipiente fosse quest’ultimo ciò significherebbe che in Danimarca le banche ivi operanti fanno uso, per i loro impieghi, di euro e che si sono create di difficoltà tali da dover ricorrere di fatto ad uno “stand by” della Banca Centrale Europea (Destais, 2014).
Essendo la stipula dei BCS demandata alle volontà delle banche centrali “contraenti” l’atteggiamento della FED e quello della ECB paiono rimandare a due finalità diverse: la prima, quella della FED; è quella di assicurare un Lending of Last Resort a favore delle le banche statunitensi operanti all’estero o delle le banche estere operanti in dollari; la seconda, la ECB, quella di minimizzare i rischi delle banche straniere che operano sul terreno strettamente commerciale con i paesi dell’area Euro. Infatti, i BCS sviluppati dalla ECB come banca “recipiente” riguardano la Croazia, la Bulgaria, la Romania, L’Albania, la Serbia e l’Ungheria (Panetta e Schnabel, 2020). Due le notazioni che paiono rilevanti: la prima è che alcuni paesi, come ad esempio il Giappone, stipulano swap in una valuta terza, il dollaro, con i paesi contraenti (evidentemente le banche giapponesi sono fortemente coinvolte nel mercato degli assets-liabilities in dollari): la seconda, come si nota dalla Tabella 4, è che i BCS sviluppati dalla FED con i principali paesi avanzati riguardano contratti di ammontare illimitato, sebbene essi siano formalmente più costosi dei prestiti diretti tra banche centrali (per il valore scontato degli asset dati in contropartita, il c.d. haircut (Papadia e Efstathiou, 2018).
Figura 5. Linee Swap in dollari della FED
La Figura 6 indica come durante la crisi finanziaria del 2007-08 sia stata la ECB la maggiore banca centrale recipiente. Nella successiva crisi COVID, invece, tale ruolo è toccato alla Bank of Japan (Perks et al., 2021).
Figura 6: Fornitura di linee swap in dollari della Fed alle banche centrali di altri paesi
5. Le osservazioni che abbiamo sinteticamente esposto nel paragrafo precedente conducono all’affermazione che oggi, in assenza di un Sistema Monetario Internazionale globale e condiviso, una valuta si afferma (o rimane) quale International Currency se svolge un ruolo preminente di garanzia dei collegamenti sempre più fitti tra settore reale e settore finanziario. Il principio di “Prestatore di Ultima Istanza” a livello internazionale rimane valido quale che sia il sistema di cambi prevalente e quale che sia la natura nazionale o sovranazionale dei rapporti tra relazioni commerciali e “cross border banking”.
Questi concetti saranno ripresi nelle considerazioni finali: qui basta osservare che lo sviluppo degli swap tra banche centrali ed il ruolo crescente della FED sono avvenuti nei periodi di tensione finanziaria acuta a livello internazionale, quando dal sistema finanziario statunitense sorgevano le massime tensioni. Ma si tratta di un paradosso solo apparente (Aldaoro et al. 2020): in un sistema finanziario globale centrato sull’uso del dollaro, le connessioni di swap basate sulla FED servono come misura protettiva elastica per la fornitura privata di liquidità in dollari. In base a questo meccanismo le banche centrali possono ottenere liquidità in dollari dalla FED per soddisfare la domanda di dollari delle banche operanti nella loro giurisdizione per un periodo di tempo prefissato e ad un tasso di interesse prefissato (Bertaut et al., 2021).
È intuibile come il ruolo di prestatore di ultima istanza della FED e l’apertura di swap con le principali banche centrali renda del tutto non contendibile il sistema basato sul dollaro.
La Figura 7 mostra come nel corso del tempo il volume di swap stabiliti dalla FED siano praticamente esclusivi con tutte le altre banche centrali.
Figura 7: Ammontare di linee di swap bilaterali per banca centrale (miliardi di dollari USA)
7. La finanza internazionale è concorde nell’attribuire la caratteristica di “safe asset” ad attività finanziarie che godano delle proprietà che seguono:
- rischio di default minimo;
- riserva di valore;
- sicurezza di transazioni senza perdite in conto capitale.
Ciascuna di queste caratteristiche può essere soddisfatta per singole attività ma è, ovviamente, più raro che un singolo titolo soddisfi contemporaneamente tutti e tre i criteri di sicurezza. Di certo il requisito più importante è l’assenza di perdite in conto capitale. Ciò di solito avviene perché il differenziale tra prezzo bid (di acquisto) e prezzo ask (di vendita) è in mercati efficienti soggetto a basse variazioni nel breve periodo (Habib, 2020). Dunque, il bid-ask spread non rappresenta un costo di transazione rischioso nei “safe markets”.
Nell’analisi del mercato dei safe asset, e che devono essere caratterizzati dal differenziale più basso tra bid e ask price, si pone il problema di quale sia il mercato più sviluppato e perché quello europeo non è riuscito a raggiungere le caratteristiche di quello statunitense (Bletzinger et al. 2023). L’esempio, per eccellenza, di un mercato safe che di esso presenta tutte le caratteristiche è quello dei titoli di stato americani, i quali, storicamente, vengono acquistati per circa il 40% da investitori stranieri, come risulta dalla Figura 8.
Figura 8: acquirenti di titoli di stato USA
La domanda di titoli apparentemente sicuri in dollari si indirizza su vari mercati e su tipologie diverse tanto che dalla Figura 9 si può osservare che le emissioni “estere” in dollari coprono quasi per intero questo mercato. (Maggiori et al., 2020).
Figura 9: Quote di emissione di debito in valuta estera
Il problema che la letteratura specializzata si è posto è perché l’Unione Monetaria Europea non sia stata in grado di produrre né nella fase pre-crisi finanziaria né in quella successiva titoli comunitari “sicuri” e che siano in grado di attrarre i capitali cross border.
Il problema si pone con evidenza: ad esempio Gossè et al. (Gossè et al. 2021) stimano che nel 2019 l’offerta di titoli di stato con un rating AA o più elevato sia ammontato al 37% del PIL dei paesi membri dell’UME a confronto dell’89% del PIL degli Stati Uniti. Inoltre, si aggiunge, il mercato finanziario europeo è frammentato in sub-mercati le cui differenti valutazioni possono influenzare la complessità del mercato europeo.
Frammentazione e sottodimensionamento del mercato finanziario possono essere ricondotte a due posizioni antitetiche che ambiscono a spiegarne la mancanza di competitività con quello statunitense: la prima che enfatizza il mutamento della funzione di comportamento della Banca Centrale Europea all’inizio del decennio passato; la seconda che considera prioritarie le differenze strutturali che i paesi membri denotano nei periodi di grave recessione.
La prima posizione deriverebbe dalla cesura della Taylor Rule europea con l’avvento della presidenza di Mario Draghi, quella che potremmo sintetizzare come “la posizione di Rogoff” (Ilzetzki et al., 2020). L’ipotesi assunta è che la funzione di comportamento della Banca Centrale europea, espressa sinteticamente nella “Regola di Taylor”, ovvero nella reazione dei tassi all’”inflation gap”e all’”output gap” sia mutata con il «whatever it takes» che il governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi pronunciò il 2012, nell’ambito della crisi del debito sovrano europeo, per indicare che la BCE avrebbe fatto appunto “tutto il necessario” per salvare l’euro da eventuali processi di speculazione.
La locuzione, sul ruolo delle banche centrali e quello della BCE nell’evitare il riacutizzarsi di una crisi, è considerata un simbolo in generale della politica economica degli anni successivi a sostegno dei paesi dell’eurozona. Il «whatever it takes» della nuova funzione di reazione della BCE significa di fatto abbandonare il “Bundesbank-plus Model” nel quale gli obiettivi di reddito e di tasso di interesse sono modellati su “finalità tedesche”. Si tratta, affermano Ilzetki et al.(2020), di un modello “one size fits one”, ma che tuttavia consente di individuare le chiare differenze di sostituibilità dei bonds di paesi con caratteristiche opposte, come per esempio l’Italia. La modifica della funzione di reazione da parte di Draghi ha rischiato di convertire il modello in un paradossale “one size fits none” in cui si perdono le peculiarità di mercato e di “safeness” dei titoli di paesi diversi e ci si avvicina ad un modello “Banca d’Italia plus Model”. Simili considerazioni sono riassunte nei due riquadri della Figura 10. Nel riquadro di sinistra l’ammontare dei titoli “a tripla A” emessi nel 2007 e nel 2018 e la sua consistenza diminuzione nel corso del tempo; nel riquadro di destra una simile diminuzione è riportata per paese e indica due diverse informazioni:
Ad esempio, il Regno Unito, tra il 2014 e il 2017, diminuisce il flusso di titoli europei in scadenza di circa il 60% (si ricordi il referendum consultivo sulla “Brexit” nel 2016), mentre lo stock complessivo di titoli europei si abbassa di quasi il 15% (Maggiori et al., 2019).
Figura 10: Evoluzione dell’acquisto di titoli della UME da parte della Gran Bretagna (istogrammi di sinistra) e di altri paesi (istogrammi di destra)
Questo fenomeno, generalizzato sui titoli europei, dopo la crisi dei bond europei e il varo del “whatever it takes” altro non è che la scomparsa dell’effetto “Germania” e la compressione verso il basso della sostituibilità tra bond europei rispetto alla fase del modello “Germania plus”.
L’unica possibilità, secondo Ilzetki et al (2020), di aumentare il rating dei titoli europei sarebbe una “progressiva centralizzazione dell’autorità fiscale dell’eurozona”, fenomeno che non appare probabile in un futuro prossimo e che non può essere ovviato stabilmente dalle occasionali opportunità di mettere eurotitoli a responsabilità collettiva.
A questa possibilità, per la verità modesta rispetto all’ammontare dell’offerta di titoli ritenuti “safe” ed emessi a livello internazionale, fa riferimento la letteratura più recente risalente alla Banca Centrale Europea (Bletzinger et al., 2023).
La Tabella 11 illustra le tesi recenti della Banca Centrale Europea: nel riquadro di sinistra si può osservare lo spread tra un titolo europeo “solido” il bond del KFW, la Kreditanstalt für Wiederaufbau una banca pubblica tedesca a vigilanza del Ministero del Tesoro, il bond europeo SURE, ovvero il programma per finanziare nel breve periodo l’occupazione e mantenere il lavoro durante la crisi pandemica e il titolo europeo NGEU un titolo di supporto per il contrasto della disoccupazione giovanile. Il riquadro indica che lo spread a favore dei titoli “europei” è cresciuto non appena i due nuovi titoli sono stati quotati e ciò porta a pensare che anche la Commissione Europea possa emettere titoli sicuri. Il riquadro a sinistra confermerebbe la possibilità di un “nuovo corso”: i due titoli europei Sure e NGEU che risultano meno liquidi dei migliori titoli europei (quelli tedeschi e olandesi) si caratterizzano per un indice di qualità del credito di analogo ammontare (Neufeòld, 2023).
Figura 11. Grafico di sinistra: Eu bond-Bund spread vs KfW bond-Bund spread. Grafico di destra: Rischio di credito e indicatori di liquidità dei Bond EU
Le considerazioni svolte nel paragrafo recedente portano a presumere che, a parte la “sporadicità di safe asset comunitari” solo un modello “germano-centrico” sia in grado di emettere safe assets in presenza di sporadiche iniziative comuni dell’unione. Ma questo modello “germano-centrico” non è affatto privo di contraddizioni: la sub-ottimalità dell’area valutaria europea rende all’interno i capitali molto mobili tra nazioni deboli e forti; dunque in situazioni di crisi i safe asset si troveranno in specifici paesi.
8. Se si stima il coefficiente di correlazione tra i rendimenti dei titoli di stato rappresentativi della Germania con quelli di altri paesi europei, registreremo risultati eterogenei, illustrati in Figura 12.
Figura 12: coefficiente di correlazione tra i rendimenti dei titoli di stato rappresentativi della Germania con quelli di altri paesi europei
Periodo | Olanda | Francia | Italia | Spagna | Irlanda | Portogallo | Grecia |
2000-2009 | 0,97 | 0,98 | 0,89 | 0,94 | 0,61 | 0,90 | 0,68 |
2009-2010 | 0,90 | 0,83 | -0,66 | -0,02 | 0,16 | -0,62 | -0,82 |
2012-2017 | 1 | 0,99 | 0,92 | 0,90 | 0,93 | 0,78 | 0,31 |
Figura 13: Debito governativo per rating in scadenza, 2020.
Dunque, come tutte le aree valutarie sub-ottimali, l’Unione Monetaria Europea è in grado di esprimere “potenzialità” solo in assenza di shock esogeni, dalla domanda o dall’offerta, che finiscono con l’acuirne le divisioni invece che di attenuarle e, paradossalmente, seguendo Rogoff, mantenendo una stretta adesione al modello “Bundesbank plus one”. La medesima idea di De Grauwe et al. è nei fatti espressa con dovizia di argomentazioni anche da Mastromatteo et al. (2018) i quali discutono come un’area valutaria sub-ottimale non possa, per i ragionamenti che abbiamo fin qui svolto, godere dei privilegi e dei doveri esorbitanti (Eichengreen, 2011) di “Lender of Last Resort” e della dotazione di bassi tassi legati alla sicurezza dei propri asset. Si aggiunga, come Mastromateeo et al. ricordano, che i fenomeni geopolitici e l’International Currency sono intimamente connessi: emblematica la Crisi di Suez del 1956 quando gli Stati Uniti impedirono che il FMI decidesse operazioni di prestito stand-by alla Gran Bretagna finché essa non si fosse ritirata dal canale di Suez (Boughton 2000, Weiss, 2022).
9. Le sintetiche considerazioni svolte in queste note e i tasselli che abbiamo riportato hanno solo il fine di sottolineare come, comparativamente, l’euro costituisca ancora una valuta internazionale “regionale” e come il primato del dollaro si esplichi in base ad una azione congiunta (ma non necessariamente coordinata) di banca centrale, mercato finanziario e settore reale (Tooze e Odendahl, 2018). Lungi dal voler spiegare i motivi che hanno consentito al dollaro la centralità dopo la caduta del Sistema monetario internazionale di Bretton Woods, proviamo a partire da uno dei vertici del triangolo internazionale: merci-titoli-banche centrali.
È indubbio che la maggior parte degli scambi mondiali in merchandise avvenga in dollari e ciò riguarda paesi volumi di export-import non trascurabili: Giappone, Brasile, India, Tailandia. Per l’Euro, si è detto, ciò è ristretto ai paesi limitrofi o che aspirano ad adottare la moneta comunitaria.
La fatturazione del commercio internazionale in dollari rinforza la tendenza degli investitori internazionali a preferire titoli in dollari “safe” che consentono di acquistare in futuro merci con un basso spread tra ask e bid price. Ciò determina una domanda mondiale di titoli statunitensi, ad esempio gli US Treasury Bonds, aumentandone il prezzo e diminuendone il rendimento, secondo il modello che il ministro delle Finanze francese Valery Giscard d’Estaing aveva battezzato come “exorbitant privilege” (Gourinchas et al.,2010) a bassi costi.
È intuibile come il basso costo dei finanziamenti in attività stilate in dollari si propaghi tra tutte le piazze finanziarie e che sia sviluppato per un ammontare quattro volte superiore a quello dell’euro. Perché esso sia almeno parzialmente ridimensionato sarebbe necessario che l’offerta di titoli safe europei della Germania sia ben più elevata. Ma ciò contraddicerebbe di fatto il modello “Bundesbank+plus” di Ilzetki et al. e che di fatto si è attestato al 40-45% contro il 115-120% degli Stati Uniti.
I titoli ad emissione congiunta come NGEU e Sure costituiscono ancora un’eccezione sia per le finalità che per l’ammontare e, dunque, non possono essere considerati come una fornitura stabile e normale di titoli sicuri.
Quando il circuito commercio-finanza-banca centrale del dollaro va incontro a inceppamenti, endogeni o esogeni che siano, tocca alle autorità monetarie ripristinarne il corretto funzionamento. Ciò avviene tramite le Bilateral Swap Lines che devono fornire, con accordi con le altre banche centrali, tutta la quantità di dollari necessaria affinché la valuta rimanga safe e al centro del sistema. Si tratta di quello che Gourinchas et.al hanno etichettato come l’exorbitant duty parallelo al privilege di giscardiana memoria (Eichengreen 2011).
Sulla stipula delle linee di swap la ECB ha denotato una maggiore cautela, per esempio inizialmente con le banche centrali di Polonia e di Ungheria. Nel prosieguo dell’esperienza la BCE è apparsa più una grossa banca recipiente di dollari che una consistente fornitrice di euro.
Per concludere: le tecnicalità che abbiamo sinteticamente riepilogato ci portano a presumere che nessun processo si è messo in moto affinché la dimensione regionale dell’euro si stia allargando (Maggiori et al., 2019).
La storia insegna come il passaggio dalla sterlina al dollaro sia avvenuto grazie a fattori strettamente economici e non, che hanno ridimensionato il ruolo dell’Impero Britannico e della City di Londra; tuttavia una financial rivalry tra dollaro e sterlina era evidente nel primo quarto di secolo del Novecento (Costigliola, 1977; Chiţu, 2014). Oggi nulla di tutto questo.
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