No, non sarà certo questo l’ultimo capitolo della crisi greca. Eppure, si sta scrivendo in questi giorni ad Atene una pagina importante della storia europea. Per capirlo, occorre fare un passo indietro. Perché le tappe fondamentali di questa crisi sono legate da un filo rosso che va dal novembre 2009, con il montare degli spread che preannuncia la tempesta, alle concitate ore del referendum, quando ogni greco è chiamato a votare, no o sì. Ma a cosa, veramente?
Il meccanismo si inceppa sempre nello stesso punto, invariabilmente: la Grecia non riesce a trovare le risorse per pagare il suo debito pubblico. Tra il novembre 2009 e l’aprile 2010 il tasso dell’interesse sul debito pubblico greco cresce a ritmi vertiginosi, dal 4,6% al 7,8% in pochi mesi, in una spirale che non sembra arrestarsi e che dunque compromette la stabilità finanziaria del paese. In quel momento, le risorse per pagare il debito in scadenza si trovano pure, ma ad un costo che appare via via inaccettabile: da qui la decisione del governo di ricorrere al sostegno finanziario della cosiddetta troika. Banca Centrale Europea, Commissione Europea e Fondo Monetario Internazionale organizzano un primo intervento di assistenza finanziaria che fornisce al paese in crisi le risorse necessarie. Il debito pubblico in scadenza viene pagato tramite l’accensione di un nuovo prestito, come normalmente avviene in qualsiasi altro paese. Ma con una differenza fondamentale: la Grecia estingue un prestito nei confronti dei mercati finanziari tramite l’accensione di un prestito “istituzionale”, ovverosia un prestito concesso, attraverso meccanismi politici, dalle istituzioni internazionali che compongono la troika. È così che nel 2010 fa irruzione in Europa il cosiddetto principio della condizionalità: il prestito alla Grecia è subordinato all’adozione di una serie di misure di politica economica il cui contenuto, ormai noto, indirizza il paese sulla via dell’austerità. Se è vero che l’austerità rappresenta la costituzione materiale dell’Unione Europea, il principio della condizionalità rappresenta lo strumento attraverso cui quella particolare organizzazione della vita economica e sociale è stata concretamente affermata. Tale principio trova la sua espressione formale nel Memorandum, un documento sottoscritto dai creditori istituzionali e dal governo greco che elenca, con dovizia di particolari, le misure che la Grecia dovrà adottare al fine di ottenere, di volta in volta, una nuova tranche del prestito concesso. In questo modo, la stabilità finanziaria del paese si lega indissolubilmente al rispetto degli indirizzi di politica economica imposti dai creditori: la possibilità di rifinanziare il debito pubblico in scadenza finisce per dipendere esclusivamente dal rispetto del Memorandum. Qualsiasi tentennamento nell’adozione delle misure richieste conduce alla sospensione nell’erogazione del prestito.
Esattamente come accaduto in questi giorni: il governo Tsipras ha respinto alcune richieste dei creditori e si è visto negare l’erogazione dell’ultima tranche del prestito, trovandosi così nella impossibilità di pagare il debito pubblico in scadenza. A ben vedere, dunque, il problema della Grecia è sempre lo stesso, ed ha a che fare con il processo di indebitamento pubblico. Dobbiamo a questo punto approfondire l’analisi del debito pubblico greco al fine di individuare con precisione le cause dell’attuale crisi.
È opinione diffusa che la Grecia si caratterizzi per un debito pubblico insostenibile: è questa la posizione ufficiale della troika, lo argomentano numerosi economisti e lo ammette persino l’attuale esecutivo greco – nel disperato tentativo di sottrarsi così ai meccanismi della condizionalità che su quel debito poggiano. Secondo questa lettura, sarebbe proprio l’insostenibilità del debito greco ad aver causato l’iniziale aumento degli spread, e sarebbe quella stessa insostenibilità a rendere impensabile, oggi, il pagamento del debito. Tuttavia, l’idea che la crisi greca si possa spiegare in base al livello del debito pubblico accumulato dalla Grecia si scontra innanzitutto con l’evidenza empirica. La dinamica degli spread, che scandisce i tempi delle crisi del debito pubblico, sembra seguire tutt’altra logica: il tasso dell’interesse sul debito pubblico greco esplode quando il paese ha un debito inferiore al 130% del Pil, poi interrompe la sua corsa negli anni dell’austerità, mentre il debito pubblico greco supera il 170% del Pil ed appare in continua crescita. Nulla di diverso da quanto abbiamo potuto sperimentare sulla nostra pelle, in Italia, quando lo spread è aumentato vertiginosamente nell’estate 2011, con un rapporto debito/Pil del 120%, per poi tornare ai suoi minimi mentre il debito pubblico superava il 130% del Pil. Nei primi anni della crisi europea, l’aumento degli spread ha colpito paesi precedentemente caratterizzati da livelli del debito pubblico molto diversi tra loro: nel 2007 l’Italia e la Grecia avevano effettivamente un debito pubblico superiore al 100% del Pil, ma il Portogallo non raggiungeva il 70%, con un rapporto quasi identico a quello tedesco, per non parlare poi di Spagna ed Irlanda, che avevano accumulato un debito pubblico inferiore, rispettivamente, al 40 ed al 30% del Pil. Insomma, pur restando all’interno dell’eurozona abbiamo mostrato come il livello del debito pubblico accumulato da un paese non spieghi assolutamente nulla circa la sua vulnerabilità. Eppure, abbiamo visto come la crisi greca sia legata proprio al processo di indebitamento pubblico, il quale dunque deve presentare delle criticità non riconducibili al livello del debito accumulato.
Un passo avanti nella soluzione di questo dilemma può essere mosso prestando attenzione alle seguenti dichiarazioni:
“Guardando alla politica fiscale, dal 2010 l’eurozona è stata indebolita dal fatto che la leva fiscale fosse meno disponibile e meno efficace, soprattutto in confronto alle altre economie avanzate. Questo non fu tanto la conseguenza di elevati debiti pubblici iniziali – il debito pubblico dell’eurozona in aggregato non essendo maggiore di quello di Stati Uniti o Giappone. La differenza tra l’eurozona e le altre economie avanzate riflette piuttosto il fatto che la banca centrale di quei paesi ha potuto agire, ed in effetti ha agito, a sostegno del processo di indebitamento pubblico. Questa è la ragione fondamentale per spiegare perché i mercati hanno risparmiato quelle autorità fiscali dalla perdita di fiducia che ha invece limitato l’accesso ai mercati finanziari da parte di numerosi governi dell’eurozona.”
Siamo al meeting dei banchieri centrali che si svolge, ogni anno, tra le montagne di Jackson Hole. E non si può certo dire che queste parole non siano supportate da un’adeguata conoscenza dei fatti: chi parla è Mario Draghi, l’attuale governatore della BCE, il quale ammette senza mezzi termini che il livello del debito pubblico accumulato da paesi come la Grecia non rappresenti affatto il problema [1]. Le sue dichiarazioni vanno però ben oltre: egli afferma infatti che le difficoltà nel finanziamento del debito pubblico dipendono, in ultima analisi, dalla disponibilità dell’autorità monetaria a sostenere il governo nel processo di indebitamento. Draghi dice chiaramente che Stati Uniti e Giappone non hanno sperimentato alcuna crisi del debito pubblico (e dunque hanno potuto sfruttare appieno la leva fiscale per stimolare la crescita) semplicemente perché le rispettive banche centrali hanno difeso la stabilità del corso dei titoli pubblici sui mercati finanziari. Entro la medesima logica, la crisi del debito pubblico della Grecia deve essere ricondotta ad una scelta dell’autorità monetaria, che ha negato a quel governo il suo necessario sostegno in fase di rifinanziamento del debito pubblico in scadenza: nel 2010, per imporle l’austerità, ed oggi per evitare che ne esca.
A differenza dell’interpretazione della crisi greca fondata sull’idea dell’insostenibilità del livello del debito pubblico accumulato, questa lettura sembra perfettamente in grado di spiegarci la dinamica degli spread: crescono quando un governo si allontana dagli indirizzi di politica economica della troika e si calmano non appena il paese indisciplinato torna sulla retta via, esprimendo così il grado di adesione di un paese alle raccomandazioni delle istituzioni comunitarie. Alla stessa maniera, abbiamo visto la Grecia rifinanziare puntualmente il debito in scadenza durante i governi tecnici che si sono succeduti negli anni dell’austerità, mentre vediamo quel paese ripiombare nella incapacità di ripagare il debito non appena un governo prova a smarcarsi da alcune richieste dei creditori. Questo perché l’autorità monetaria ha tutti gli strumenti necessari a garantire l’ordinario rifinanziamento del debito pubblico in scadenza: dagli acquisti dei titoli pubblici sui mercati finanziari ai prestiti diretti ai governi, la BCE ha dimostrato di saper governare – come qualsiasi altra banca centrale – gli aspetti monetari del processo di indebitamento pubblico. Ma ha anche deciso di calibrare il suo sostegno finanziario sulla base della fedeltà dei governi nazionali al suo proprio disegno politico, l’austerità.
La visione espressa da Draghi a Jackson Hole trova ulteriore sostegno nel punto di vista di un altro autorevole esponente delle istituzioni europee. Klaus Regling, il direttore di quel ‘fondo salva stati’ che gestisce i prestiti europei ai paesi in crisi, ha recentemente spiegato che, “creando ‘condizioni giapponesi’ […] nel senso di un debito molto elevato accompagnato da condizioni particolarmente favorevoli”, l’assetto istituzionale promosso dall’autorità monetaria europea durante la crisi ha “reso insignificante la tradizionale analisi dell’insostenibilità del debito pubblico” [2], ovvero sia quell’analisi concentrata esclusivamente sul livello del debito accumulato. Spiega ancora Regling:
“Conosco molti che guardano solamente al rapporto tra debito pubblico e Pil, ma questa prospettiva appare troppo limitata. Perché con l’assetto che abbiamo creato in Europa, possiamo concedere finanziamenti a tassi così bassi […] che il servizio del debito che occorre ogni anno risulta davvero contenuto, nonostante il fatto che il debito sia molto elevato. Molti non hanno pienamente compreso questo.” [3]
Dunque Regling può concludere che “le analisi della sostenibilità del debito sono molto importanti, ma devono prendere in considerazione più fattori rispetto al solo livello del debito” [4]. Con particolare riferimento alla Grecia, Regling sembra avere le idee molto chiare. Nell’ottobre scorso, ad un giornalista che gli chiede se egli ritenga sostenibile il debito pubblico greco, il nostro risponde: “assolutamente sì”, ma aggiunge candidamente: “fintantoché il processo di riforma continua” [5]. Difatti, non appena il governo Tsipras mette in discussione quel preciso indirizzo di politica economica, il debito pubblico greco torna come d’incanto ad apparire insostenibile. E due giorni prima che i greci si esprimano sulle politiche di austerità richieste dal Memorandum, il principale creditore del paese – il fondo EFSF diretto proprio da Regling – pubblica una nota [6] nella quale si riserva il diritto di chiedere il rimborso anticipato dei circa 145 miliardi di euro prestati alla Grecia.
Alla luce di queste considerazioni, siamo forse in grado di trarre alcune conclusioni utili per interpretare quello che sta accadendo in Grecia in queste ore. La Grecia ha uno specifico problema di debito pubblico, problema che non è legato al livello del debito accumulato, ma piuttosto alle condizioni entro cui quel medesimo debito è stato contratto. Queste condizioni dipendono essenzialmente dalla posizione assunta, negli anni della crisi, dall’autorità monetaria europea. La quale ha sensibilmente trasformato il suo ruolo di prestatore di ultima istanza introducendo nella sua pratica operativa il principio della condizionalità, che subordina gli interventi a sostegno del processo di indebitamento pubblico dei governi al grado di adesione che questi governi assicurano al disegno promosso dalle istituzioni europee. Le istituzioni europee hanno così tradotto la politica monetaria in un vero e proprio dispositivo disciplinante delle economie nazionali, un dispositivo che sottrae alla sovranità nazionale qualsiasi scelta di politica economica rilevante.
Questo “pilota automatico”, come ebbe a definirlo Draghi, continuerà a sospingere la Grecia dentro ai binari dell’austerità, costi quel che costi. A meno che il paese non inizi ad opporsi rispondendo, nel referendum, con un deciso No.