Il sistema bancario in Italia … oltre il pollo a testa di Trilussa

Scarica pdf Partecipa alla discussione Torna indietro Home

Paper

Leggi abstract

Si è ridotto il rischio di credito del sistema bancario in Italia? Questo sembrerebbe emergere dall’ultima Relazione della Banca d’Italia (2022), sui dati medi. Ma se guardiamo ad una classificazione più granulare degli intermediari finanziari che operano in Italia (limitatamente alle banche commerciali con attivo superiore ai 50 milioni di euro), il quadro che emerge non è così tranquillizzante, né in termini di rischio, né di fondamentali che possono amplificare/contenere il rischio, quali redditività ed efficienza operativa, scarsamente soddisfacenti. Lo studio, su un campione di 300 banche commerciali che operano in Italia, individua cinque profili di rischio/performance molto differenziati tra loro: il dato medio (il pollo a testa di Trilussa), dal punto di vista della stabilità del sistema e di tutela dei risparmiatori (e dei contribuenti tutti) ha rilevanza pratica molto limitata

Introduzione

L’ultima Relazione annuale della Banca d’Italia (maggio 2022) ci consegna a prima vista un quadro confortante sul rischio di credito degli intermediari bancari in Italia: è proseguito (dal 2015) il calo della consistenza dei crediti deteriorati (non performing loans, da ora NPL), soprattutto per effetto di operazioni di cessione. Nel 2021 (dati provvisori) il rapporto tra NPL e prestiti netti si attesta in media all’1,7% (il rapporto tra valori lordi è al 3,4 %). Il valore dell’indicatore per le banche significative italiane appare pressoché in linea con quello relativo al complesso degli intermediari soggetti alla vigilanza diretta della BCE (1,4 % contro 1,2%), anche in virtù di un tasso di copertura degli NPL (accantonamenti a riserva per perdite presunte) delle banche significative italiane decisamente più elevato (il 52% per il sistema nel complesso, il 55% per le banche significative).

E tuttavia, come già evidenziato in un articolo di cinque anni fa su questa stessa rivista (Venanzi, 2017), quando si parla di rischio di credito e dei conseguenti rischi per la stabilità del sistema bancario e per le ripercussioni sui risparmiatori (e i contribuenti tutti in ultima istanza) di eventuali crisi di singoli istituti bancari (con effetti anche su reputazione e affidabilità del sistema), ragionare in termini di medie non sembrerebbe appropriato, soprattutto in presenza di elevata dispersione del settore: purtroppo nella realtà, dal punto di vista dei risparmiatori, degli stakeholders in generale e dei contribuenti tutti, nonché della stabilità del sistema, come le vicende più o meno recenti di fallimenti e salvataggi dell’industria bancaria italiana ci insegnano, le buone performance delle banche virtuose non compensano le difficoltà o i fallimenti di quelle meno virtuose. A ciò si aggiunge il fatto che gli indicatori elaborati dalla Banca d’Italia, per come sono calcolati (cioè rapporti tra valori aggregati del sistema bancario) risentono prevalentemente dei valori assunti dai corrispondenti indicatori delle banche e dei gruppi bancari di maggiore dimensione (sono cioè medie ponderate e non medie semplici) e quindi non forniscono un quadro analitico e granulare della distribuzione di valori del sistema di tutte le banche in Italia, ma tendono a replicare gli indici delle banche maggiori.

Il focus dell’Area Studi di Mediobanca (Mediobanca, 2022) sul sistema bancario italiano nel 2020 (330 banche che esercitano credito ordinario), adotta una maggiore granularità dei dati e ci mostra che solo 175 banche sono virtuose (poco più della metà), cioè non presentano aspetti di criticità, definiti con riferimento al valore di alcuni indicatori di rischio di credito e di efficienza operativa della gestione,  mentre le restanti 155 hanno almeno un indicatore oltre le soglie definite critiche (22 banche almeno due indicatori). Va però detto, anche in questo caso, che definire soglie singole per i diversi aspetti di criticità, senza una valutazione congiunta di tutti gli indicatori di rischio di credito e di questi con altri fondamentali economico-finanziari, che possono svolgere un ruolo di ammortizzatori o, al contrario, di amplificatori del rischio (per esempio la redditività del capitale, l’efficienza operativa interna, la produttività) potrebbe risultare parziale.

Sembrerebbe quindi utile fornire un quadro più disaggregato del sistema bancario italiano, che distingua le code della distribuzione (insomma indagando oltre il pollo a testa della poesia di Trilussa[1]), dal punto di vista sia del rischio di credito che dei fondamentali economico-finanziari connessi, evidenziando anche se e come alcune caratteristiche quali la dimensione, la diversificazione degli attivi, la categoria di appartenenza (banche spa, banche popolari, banche cooperative), la localizzazione geografica, influenzino i profili di rischio osservati.

A tal fine, si è effettuata una cluster analysis (software IBM-SPSS Statistics)[2] sui dati Mediobanca relativi ai bilanci 2020 di 301 banche commerciali operanti in Italia (299 finali, perché 2 con dati mancanti), tutte quelle con attivo tangibile superiore a 50 milioni di euro. Si sono esclusi gli istituti di credito mobiliare e di gestione del risparmio, mentre si sono considerate anche le filiali di banche estere; sono state escluse anche, per ovvi motivi, le banche che fanno prevalentemente acquisto e gestione/riscossione dei crediti deteriorati.  L’obiettivo è quello di identificare i cluster di rischio, cioè gruppi di banche omogenee al loro interno e differenti rispetto a quelle appartenenti ad altri gruppi per gli indicatori più rilevanti di rischio di credito. Si considerano i bilanci consolidati dei gruppi e i bilanci singoli per le banche che non appartengono a gruppi. Si è scelto di analizzare singolarmente le banche di credito cooperativo, non considerando il consolidato dei due grandi gruppi cooperativi (Iccrea e Cassa Centrale Banca) che dal 2019 le raggruppano, in ragione del fatto che i gruppi cooperativi si differenziano dai gruppi gerarchici veri e propri, perché svolgono attività di coordinamento e direzione delle banche aderenti (oltre a consentire forme di garanzia intra-gruppo), ma resta inviolata l’indipendenza proprietaria delle singole banche e di conseguenza forse meno vincolata la relativa gestione.

I cluster delle banche commerciali in Italia: campioni e bidoni

Sette gli indicatori considerati per misurare il rischio di credito:

  • il rapporto tra i crediti deteriorati e gli impieghi (entrambi lordi), che misura l’incidenza dei crediti problematici (NPL) sul totale degli impieghi della banca: valori elevati di questo rapporto configurano situazioni di rischio elevato;
  • i crediti deteriorati tuttavia presentano al loro interno diverse tipologie di rischio: si sono quindi calcolati due indici di composizione degli NPL lordi, cioè il peso delle sofferenze e il peso delle inadempienze probabili (UTP = unlikeley to pay).  Monitorare l’incidenza di tutte le categorie sui crediti deteriorati (il peso della terza categoria – gli scaduti – è ricavabile come complemento a 100 della somma delle prime due categorie) è importante, perchè non è necessariamente omogena tra le banche la classificazione nelle tre tipologie delle posizioni creditorie deteriorate e dietro queste differenze potrebbero annidarsi rischi potenziali, più o meno consapevolmente occultati;
  • il texas ratio, che qui è misurato come rapporto tra il valore presunto dei crediti deteriorati (NPL netti, cioè al netto dei fondi accantonati per far fronte alle presunte perdite in sede di riscossione e rappresentano quindi la valorizzazione realistica dei crediti inesigibili, se è appropriata la politica di copertura attuata dalla banca) e il nocciolo duro del capitale proprio della banca, cioè la porzione di qualità primaria del capitale proprio delle banche (core tier 1), che esclude le azioni proprie, l’avviamento, le immobilizzazioni immateriali e le perdite dei vari esercizi (compreso quello in corso), nonchè gli strumenti ibridi (quasi equity) di capitale che rientrano nel patrimonio di livello 2 (patrimonio supplementare) e 3 (prestiti subordinati). Valori elevati di questo rapporto rappresentano situazioni di rischio elevato; un valore pari al 100% implicherebbe che l’eventuale azzeramento del valore degli NPL in bilancio genererebbe una perdita pari al valore della componente primaria del capitale proprio della banca;
  • la leva, misurata come rapporto tra attivo netto tangibile e patrimonio netto tangibile: maggiore è questo rapporto, minore è il grado di patrimonializzazione della banca rispetto agli asset e quindi potenzialmente maggiore il rischio relativo al business model dell’intermediario. Per entrambi gli aggregati (attivo netto e patrimonio netto) si considera  la parte tangibile, detratti cioè gli intangibles, che spesso hanno valori di bilancio di stima soggettiva e di realizzo incerto, in particolare gli avviamenti, e che rendono disomogeneo il confronto tra banche che hanno in diversa misura effettuato acquisizioni/fusioni (gli avviamenti si registrano in bilancio in questi frangenti);
  • gli ultimi due indicatori misurano la quota di crediti netti garantiti, cioè coperti da garanzia, che può essere totale (cioè il valore della garanzia equivale a quello del credito) o parziale. Le garanzie sono in genere rappresentate da immobili, titoli, altre garanzie reali e garanzie personali.

La Tabella 1 riporta i centri dei cinque cluster di banche individuati sulla base degli indicatori di rischio utilizzati nella classificazione[3], mentre la Tabella 2 mostra la composizione dei cinque cluster per categorie delle banche che vi appartengono (distinte in banche a breve, banche cooperative e banche popolari/ex popolari). I cluster differiscono tra loro in maniera statisticamente significativa (sia per il test del chi quadro che per il test della mediana[4]) per tutti gli indicatori citati.

La Tabella 3 completa la caratterizzazione dei cluster individuati in termini di altri fondamentali aziendali, quali per esempio la dimensione (attivo netto in migliaia di euro e posizione in graduatoria del dataset Mediobanca sulla base dell’attivo), la diversificazione (peso sui ricavi delle commissioni nette, rispetto al peso del margine di interesse, che è più direttamente legato all’attività tradizionale di intermediazione creditizia), la redditività (il ROE, come rapporto tra risultato netto e capitale netto), l’efficienza operativa (il cost income, cioè l’incidenza dei costi operativi – costi di lavoro, amministrativi e ammortamenti – sui ricavi) e un indicatore di produttività (ricavi per dipendente). Va sottolineato che le medie dei cluster (dei vari indicatori) sono medie semplici e quindi attribuiscono lo stesso peso alle banche del cluster, indipendentemente dalla loro dimensione: questo è un aspetto importante al fine di avere un quadro non distorto, soprattutto per i cluster che includono banche di dimensione molto diversa.

Segue una descrizione dei cluster di banche, sia in termini di rischio che delle altre caratteristiche rilevanti sopra riportate, per una caratterizzazione più completa dei rispettivi profili.

Tabella 2 – I cluster per categoria di banche

Cluster 1

Include 34 banche, di cui un quarto nei primi 17 posti della graduatoria (per attivo), tra cui i due maggiori istituti bancari italiani (Intesa San Paolo e Unicredit); include però anche banche negli ultimi posti della graduatoria (al minimo un attivo di 72 milioni di euro). Sono in prevalenza banche a breve (oltre alle prime due banche, vi appartengono Bnl, Deutsche, Sella, Desio, Passadore) e popolari (Bper, Banca Popolare di Sondrio, Valsabbina). Include anche un piccolo gruppo di 14 banche cooperative, tutte localizzate al nord e al centro-nord. Hanno una leva media di circa 15, un’incidenza degli NPL sugli impieghi (lordi) del 3,7%, quindi maggiore del dato medio della Relazione di Banca d’Italia (sia del sistema che delle banche significative) anche se questo ultimo dato è stima provvisoria del 2021 (più o meno equamente suddivisi tra sofferenze e UTP), un TEXAS ratio pari a circa il 20% (cioè gli NPL netti assorbono un quinto del capitale di rischio di qualità primaria). Sono banche diversificate (le commissioni pesano in media per il 42% dei ricavi), con un ROE medio del 4,7%, che però mostra una elevata variabilità tra banche del cluster: il 10% ha ROE negativo e il 90% ha ROE inferiori al 10%; i costi operativi assorbono 3/4 dei ricavi in media.

Cluster 2

Include 88 banche, per la quasi totalità banche cooperative, di cui 3/4 sono localizzate nel nord-est; 4 popolari (Credito Valtellinese, Popolare di Ragusa, Banca di Piacenza, Popolare del Cassinate) e solo 3 a breve (tra cui la Cassa di Risparmio di Bolzano). È il gruppo di banche con il rischio più contenuto: leva a 10, 3,8% l’incidenza degli NPL lordi (solo il 22% sono sofferenze), garantiti all’88% circa, TEXAS ratio al 14,3%. Sono banche con spiccato orientamento all’intermediazione creditizia tradizionale (le commissioni pesano solo un terzo circa dei ricavi), redditività (ROE medio) al 3,4%, inferiore in media a quella del cluster 1, ma con minore range di variazione: solo il 5% delle banche del cluster ha ROE negativi. Efficienza operativa e produttività simili al cluster 1. Sono banche di minore dimensione (attivo medio di 1,3 md di euro) e profilo tra i più omogenei di tutto il campione, come mostrano i valori della dispersione degli indicatori considerati.

Tabella 3 – Altri fondamentali dei cluster (statistiche descrittive)

 (*) Il coefficiente di dispersione è misurato come rapporto tra deviazione standard e media.

Cluster 3

Le 98 banche del cluster (un terzo del sistema) hanno una composizione per categoria in media simile al campione totale, salvo una maggiore incidenza delle popolari (in prevalenza localizzate nel centro-sud: Popolare Pugliese, Popolare di Puglia e Basilicata, Popolare del Frusinate, ecc.) e una minore incidenza delle banche a breve (tra cui Credit Agricole, Carige, Cassa di Risparmio di Asti). Le 78 banche cooperative sono per il 62% localizzate nel centro-sud. Presentano un certo grado di rischio (gli NPL sono oltre il 5% degli impieghi, equamente divisi tra sofferenze e UTP), la leva è al 15, e il TEXAS ratio è il più elevato, dopo il cluster 5 (28%). Hanno un ROE medio pari al cluster 2, ma molto più variabile tra banche. Il cost income è più elevato (80%) e per un quarto delle banche del gruppo supera l’86%. Anche la produttività è la più bassa, dopo il cluster 5 (in media 188 mila euro di ricavi per dipendente vs una media del sistema considerato di 198 mila).

Cluster 4

Le 42 banche del gruppo hanno un profilo di rischio simile a quelle del cluster 2 (anche se leggermente più rischiose in termini di maggiore peso delle sofferenze sugli NPL), un ROE medio maggiore e meno volatile (leva più elevata e più diversificate), ma una peggiore efficienza operativa (il cost income è in media pari all’82% e per un quarto delle imprese supera l’89%). Le banche a breve pesano di più nel gruppo rispetto al campione totale (tra cui Fineco, Banca Galileo, Banca Capasso), mentre le cooperative presenti sono in prevalenza (il 60%) localizzate nel mezzogiorno e nelle isole. Sono banche di dimensione media ridotta, simile a quella del cluster 2.

Cluster 5

Include 37 banche, le più rischiose. Leva elevata (22), NPL lordi che pesano il 6,6% sugli impieghi, il TEXAS ratio in media pari al 60% e per un quarto delle banche supera il 71%. Il rischio risulta ulteriormente amplificato dalla cattiva performance: ROE medio negativo (-3%), mediano all’1,3%, cost income tra i più elevati (per un quarto del gruppo è sopra l’89%), produttività media tra le più basse. Quindi, nonostante una buona diversificazione (le commissioni pesano per il 40%), una leva alta (che significa un elevato rischio assunto in termini di impieghi rispetto al buffer del patrimonio netto), e una politica del credito meno rigorosa (data la maggiore incidenza degli NPL), i risultati sono insoddisfacenti. Del cluster fanno parte cinque banche a breve (tra cui MPS, Banca Cambiano, Cassa di Ravenna) e due popolari (tra cui Banco BPM). Le 30 banche cooperative sono per metà localizzate al centro.

Il posizionamento dei cluster nella mappa rischio-diversificazione-performance

Successivamente, per meglio inquadrare i cluster di banche individuati, si è effettuata una factor analysis[5] volta a individuare le variabili latenti (cioè variabili composte o fattori, espressi come funzione lineare delle variabili elementari osservate) che meglio delle singole variabili osservate (peraltro tra loro variamente correlate) potessero misurare sinteticamente le dimensioni rilevanti della nostra analisi, in particolare tre (che spiegano il 77% della variabilità del campione analizzato): il rischio, il modello di business in termini di focalizzazione/diversificazione su/da l’attività tradizionale di intermediazione creditizia e la performance (ROE, efficienza operativa, produttività). La Tabella 4 mostra quali variabili elementari compongono i fattori e i pesi relativi. Pesi elevati (in valore assoluto) indicano le variabili meglio sintetizzate dal fattore (sono stati omessi, per una migliore lettura, pesi inferiori, in valore assoluto, a 0,2), mentre il segno (positivo o negativo) indica il verso della relazione del fattore con la variabile osservata. La Tabella 5 mostra invece i valori medi che assumono i tre fattori nei cinque cluster individuati: si tenga presente che i fattori sono variabili standardizzate, con media zero; quindi, valori sopra o sotto lo zero indicano valori rispettivamente elevati o bassi del fattore per i singoli cluster, rispetto al dato medio del sistema considerato. Meglio della tabella, la Figura 1 raffigura la caratterizzazione dei cinque cluster in base ai tre fattori.

Emerge quindi con chiarezza che c’è un gruppo di 37 banche (cluster 5) che potremmo definire problematiche, che presentano valori di rischio di credito elevato, associato con una performance scadente: hanno un’elevata incidenza sugli impieghi di NPL, redditività media negativa, scarsa produttività, scarsa patrimonializzazione (TEXAS ratio pari al 60% in media); nonostante il rischio assunto (sono quelle con il maggior grado di diversificazione dopo il cluster 1), il modello di business non sembra funzionare. Sono molto variegate dimensionalmente (dalla terza banca italiana all’ultima nella graduatoria per dimensione dell’attivo) e con una presenza leggermente maggiore (rispetto al campione totale) di banche a breve e minore delle popolari.  Le banche dei cluster 2 e 4 sono quelle meno rischiose, ma il cluster 2 presenta una maggiore efficienza operativa e una migliore patrimonializzazione (potremmo definirle le banche solide), nonché una maggiore focalizzazione sull’attività di intermediazione creditizia; come visto sopra, sono banche in prevalenza cooperative, concentrate nel nord-est, di minore dimensione (3/4 del cluster si posiziona oltre il centesimo posto in graduatoria). Le 42 banche del cluster 4, con rischio simile al cluster 2, sono più diversificate, meno efficienti (ma il cost income ha un range di variazione molto elevato all’interno del gruppo), ma con una redditività maggiore (anche per effetto della leva superiore) e meno variabile tra banche del gruppo. Le 34 banche del cluster 1 sono quelle con un maggiore grado di diversificazione (le commissioni pesano per il 42% dei margini), molto variegate dimensionalmente (dalle prime 2 banche a banche posizionate in fondo alla graduatoria), rischio contenuto e discreta redditività/efficienza operativa, in media, con range di variazione del ROE elevato (potremmo definirle a rischio contenuto e mediamente performanti). In prevalenza sono banche di credito a breve (spa o ex casse di risparmio), ma anche un drappello di 14 banche cooperative (tutte localizzate a nord/centro nord) e 5 popolari/ex popolari. Da ultimo le 98 banche del cluster 3, che presentano un certo grado di rischio (metà del cluster ha un TEXAS ratio maggiore del 25% e un quarto oltre il 40%) e una discreta incidenza degli NPL sugli impieghi (50% maggiore del dato medio). La redditività è ai livelli delle banche del cluster 2 (soprattutto perché attuano una certa diversificazione e adottano una leva intermedia, come quella delle banche del cluster 1), ma più variabile: la coda del 10% peggiore della distribuzione ha ROE negativi o nulli; scarsa l’efficienza: alta incidenza dei costi operativi e bassa produttività. La localizzazione è prevalentemente al centro-sud (il 62% delle cooperative del gruppo e in prevalenza le popolari). Quindi potremmo dire che la redditività del business è più legata ai rischi assunti (maggiore leva e maggiore diversificazione) che non all’efficienza operativa. Potremmo definirle banche potenzialmente problematiche.

Tabella 4 – I fattori (matrice dei componenti ruotata)

Tabella 5 – I valori medi dei fattori nei cluster

Il quadro che emerge è quindi solo in parte tranquillizzante: 37 banche (che rappresentano il 12,4% del sistema in numero e per attivo gestito, pari a 386 miliardi circa) presentano ancora un rischio di credito elevato, bassa patrimonializzazione e soprattutto un modello di business che non genera redditività; 98 banche (33% in numero, che gestisce l’8% dell’attivo) hanno un rischio di credito discreto e scarsa efficienza operativa. Le banche con rischio di credito ridotto sono 120 (quelle appartenenti ai cluster 2 e 4), cioè il 40% del campione in numero, ma con un attivo gestito pari a solo il 5,8% del sistema. Le 34 banche del cluster 1 (che gestiscono quasi 3/4 dell’attivo del sistema: il cluster comprende le prime due banche) hanno rischio limitato (ma maggiore di quelle dei cluster 2 e 4), e un business model in media performante, sotto tutti gli aspetti di performance considerati (ma, come visto in precedenza, con elevata variabilità del ROE tra le banche del gruppo).

Figura 1 – Profilo dei cluster in base ai fattori rischio-diversificazione-performance

Conclusioni preliminari

Dall’analisi condotta emerge un quadro del sistema bancario considerato (299 banche commerciali, tutte quelle con attivo maggiore di 50 milioni di euro, per un attivo gestito complessivo di 3.152 miliardi) che mostra (nel suo complesso):

  1. un’incidenza media degli NPL sugli impieghi (lordi entrambi) pari al 4,74%, ovvero più elevata del 40% del dato medio riportato da Banca d’Italia (3,4%) che però è riferito al 2021 e quindi la differenza è in parte attribuibile al trend in calo osservato. La differenza è però dovuta anche al diverso modo di calcolare la media: qui media semplice, nel dato Banca d’Italia media ponderata (rapporto tra valori aggregati) che attribuisce maggiore peso alle banche più grandi (quelle con il denominatore del rapporto – gli impieghi lordi – più elevato);
  2. sofferenze che in media sono il 45% degli NPL (52% gli UTP);
  3. un TEXAS ratio (nella misura qui adottata) in media del 25% (cioè gli NPL netti assorbono un quarto del capitale primario),  ma molto variabile tra cluster: dal 14% circa dei cluster meno rischiosi (2 e 4) al 60% del cluster più rischioso (il 5);
  4. una redditività ridotta, anche per le banche con migliore performance: il ROE mediano del sistema considerato è del 3,5%, ovvero un terzo circa di quello che la prassi stima come il costo medio ponderato del capitale di una banca con rischio medio, e mostra una elevata dispersione di valori al suo interno (il 90% delle banche, tra il 5° e il 95° percentile, ha un ROE che varia dal -6,6% al 9,2%); anche nel cluster 1, quello in media più performante, il 10% delle banche ha ROE negativi;
  5. efficienza operativa limitata: la media del sistema delle banche commerciali considerato ha un cost income del 79% (il valore mediano è al 76,5%), valore molto prossimo alla soglia dell’80% considerata critica, con la coda peggiore del 5% della distribuzione che ha costi operativi superiori ai margini (valore dell’indicatore superiore al 100%). Si noti che i costi operativi non comprendono gli accantonamenti per le perdite presunte su crediti: in altre parole, la probabile prospettiva di un aumento dell’incidenza degli NPL (il Bollettino Economico di luglio 2022 della Banca d’Italia evidenzia per le banche significative un aumento delle rettifiche di valore dei crediti) troverebbe (a parità di altre condizioni) scarsa capienza dei ricavi, una volta detratti i costi operativi, per coprire le maggiori perdite attese su crediti.

In questo quadro generale, dall’analisi più granulare qui condotta, emerge che:

  1. 135 banche, che abbiamo definito problematiche (attualmente o potenzialmente), rispettivamente quelle dei cluster 5 e 3, pari al 45% in numero e a un quinto circa dell’attivo del sistema, mostrano rischio elevato o comunque discreto, accompagnato da redditività scadente (le banche del cluster 5) e da scarsa efficienza operativa e produttività (quelle di entrambi i cluster);
  2. la dimensione delle banche non ha un effetto univoco su rischio e performance, come mostra la disomogeneità interna per dimensione sia di cluster poco rischiosi (cluster 1) che di cluster problematici (il 5 e il 3); quindi la concentrazione non sempre paga. E tuttavia, i cluster 2 e 4, quelli composti da banche più piccole e di taglia più simile, sono quelli con rischio minore; nel caso del cluster 2 è ancora più rilevante se si considera che sono anche le banche più specializzate sull’intermediazione creditizia in senso stretto (che può generare un maggiore rischio di credito);
  3. la categoria sembra, invece, almeno in parte influenzare il modello di business adottato: i cluster con una maggiore presenza (rispetto al sistema) delle banche cooperative mostrano una minore diversificazione, una maggiore efficienza operativa, una redditività media discreta e senza eccessi; le banche a breve, di contro,  puntano ad una maggiore diversificazione e ad una leva maggiore (assunzione di rischi maggiori) con impatti sulla performance di segno opposto: si confrontino i cluster 1, 4 e 5, nei quali le banche a breve hanno una presenza in numero maggiore di quella del sistema; le popolari/ex popolari (25 in tutto) maggiormente presenti (in termini relativi) nei cluster 1 e 3, non sembrano associabili ad un modello di rischio/performance chiaramente identificabile;
  4. da ultimo, la localizzazione geografica sembrerebbe influenzare il profilo di rischio e di performance, almeno per quanto riguarda le banche cooperative. Le cooperative del cluster 2 (le meno rischiose) sono prevalentemente localizzate nel nord-est; quelle dei cluster 5 e 3 (più rischiose) al centro-sud. Questo aspetto può certamente essere ricollegato all’elevato radicamento nel territorio delle banche cooperative, le quali risentono in misura maggiore delle condizioni economiche (in termini di rischio e performance) della clientela delle diverse aree geografiche del paese. Un qualche effetto si può osservare anche per le banche popolari (al nord quelle del cluster 1, al centro-sud quelle del cluster 3), ma con evidenti eccezioni: la ex popolare (la terza banca italiana) del cluster 5 (alto rischio) opera in prevalenza al nord (come le popolari molto meno rischiose dei cluster 1 e 2), le due popolari del cluster 4 (con rischio contenuto) sono invece localizzate al sud.

È possibile trarre, da quanto precede, due livelli di implicazioni sul versante delle politiche rivolte al sistema bancario in Italia.

Un primo livello attiene all’approccio metodologico che dovrebbe supportare misurazioni, valutazioni e conseguenti decisioni di politici e supervisori: è necessario tenere in debita considerazione la notevole varietà/diversità del sistema bancario in Italia, evitando l’illusione del “dato medio” e la semplificazione del “one size fits all”. Si pensi, a titolo di esempio, al diverso percorso delle banche popolari con attivo superiore agli 8 md di euro che la legge Renzi del 2015 ha costretto a trasformarsi in spa; la nuova forma non sembra averle beneficiate tutte indistintamente (Bper e Credito Valtellinese nei cluster 1 e 2, Banco BPM nel cluster 5; e la Popolare di Sondrio – quella che ha resistito più a lungo come popolare: solo dal 2022 la trasformazione – nel cluster 1).  O ancora, alla non univocità dell’impatto della grande dimensione (e quindi dei processi di concentrazione spesso suggeriti/favoriti dalla politica) su rischio e performance: l’analisi condotta mostra anche piccoli campioni e grandi bidoni.

Un secondo livello è più concretamente legato alla sostanza delle evidenze emerse. Due in particolare:

  • appare chiara la necessità di non abbassare la guardia sul rischio di credito, soprattutto in considerazione del fatto che in molte banche si associa ad un’insufficiente redditività e ad un’elevata incidenza dei costi operativi; trend negativi dell’economia potrebbero portare ad un aumento dell’incidenza degli NPL (come riportato dall’ultimo Bollettino della Banca d’Italia), con conseguenti maggiori accantonamenti necessari per perdite attese, che non troverebbero copertura nei ricavi (al netto dei costi operativi);
  • il modello sostenibile (Venanzi-Matteucci, 2021) delle banche cooperative (la banca di quartiere) è un valore da difendere e sostenere: è un modo di fare banca che dà maggiore peso al finanziamento dell’economia reale, riduce il rischio, sia specifico che sistemico (maggiore omogeneità tra banche degli indicatori, quindi minori eccessi), sostiene l’economia locale: è evidente che il radicamento territoriale comporta un legame più stretto tra rischio-performance delle banche e condizioni economiche del territorio di riferimento. Le regole e le politiche dovrebbero supportare (con corretti contrappesi) questa vocazione territoriale, soprattutto in Italia dove il tessuto produttivo è costituito in prevalenza da imprese di piccola o media taglia, spesso operanti in distretti e sistemi produttivi locali.

Riferimenti bibliografici

Banca d’Italia, 2022, Relazione annuale sul 2021, https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/relazione-annuale/2021/rel_2021.pdf

Mediobanca, 2022, Focus sul sistema bancario italiano nel 2020, https://www.areastudimediobanca.com/it/product/focus-sul-sistema-bancario-italiano-dati-2020

Venanzi D., 2017, Banche italiane: che sofferenze! Economia e Politica, https://www.economiaepolitica.it/banche-e-finanza/moneta-banca-finanza/banche-italiane-che-sofferenze/

Venanzi D., Matteucci P., 2021, The Largest Cooperative Banks in Continental Europe: a sustainable model of banking, The International Journal of Sustainable Development and World Ecology, 28(5)


[1]  “Me spiego: da li conti che se fanno seconno le statistiche d’adesso risurta che te tocca un pollo all’anno: e, se nun entra ne le spese tue, t’entra ne la statistica lo stesso perche’ c’e’ un antro che ne magna due”. (Trilussa, La statistica)

[2]  La cluster analysis è una tecnica statistica che raggruppa le unità di un campione in cluster (gruppi) individuati in modo tale da minimizzare le differenze tra unità dello stesso cluster (in base alle caratteristiche utilizzate nell’analisi) e massimizzare le differenze tra le unità appartenenti a cluster diversi.

[3]  Non riportate per brevità le statistiche descrittive complete delle variabili di rischio considerate. Possono essere fornite su richiesta.

[4] Risultati dei test non riportati per brevità. Possono essere forniti, se richiesti.

[5]  Analisi in componenti principali con rotazione Varimax, software IBM-SPSS.

economiaepolitica.it utilizza cookies propri e di terze parti per migliorare la navigazione.