In letteratura sussistono vari riscontri a sostegno della esistenza di una relazione tra politiche fiscali restrittive, calo della produzione e dei redditi e connesso deterioramento dei coefficienti patrimoniali delle banche europee. Le analisi suggeriscono che una restrizione dei bilanci pubblici può compromettere la stabilità dei bilanci bancari, inducendo piani di ricapitalizzazione e al limite liquidazioni e acquisizioni estere: vale a dire, fenomeni di “centralizzazione” dei capitali bancari in Europa. Se si accetta questa chiave di lettura, si può trarre anche una riflessione critica sul nuovo duplice ruolo della BCE, di gendarme dell’austerity e di supervisore bancario.
Dal novembre 2014 la Banca Centrale Europea ha preso in consegna la supervisione regolamentare diretta di circa 130 gruppi bancari dell’area euro. Si è così perfezionato il Meccanismo Unico di Vigilanza (MUV), primo tassello verso la creazione di una Unione Bancaria Europea. L’avvio del nuovo meccanismo di vigilanza è stato preceduto dal Comprehensive Assessment (CA), un esercizio ufficiale di valutazione dei bilanci effettuato con l’obiettivo di esaminare la qualità degli attivi, il grado di resistenza a shock macroeconomici esterni e più in generale l’adeguatezza patrimoniale dei bilanci delle banche dell’Unione europea. Effettuato con l’ausilio di vari criteri, tra cui il ben noto Stress Test, l’esercizio ha mirato a verificare se le banche esaminate rispettassero o meno la soglia limite di patrimonializzazione necessaria a garantire la solvibilità in caso di nuove crisi. Tale soglia è stata definita dalla BCE in termini di livello del Cet1 ratio, un coefficiente di solvibilità dato dal rapporto tra “capitale primario di classe 1” (Common Equity Tier1) e “attività ponderate per il rischio” (Risk Weighted Assets): per dirsi al sicuro, le banche devono trovarsi con un Cet1 ratio non inferiore all’8%. I risultati hanno evidenziato che il capitale di numerose banche risulta insufficiente per il rispetto della soglia fissata, con una carenza patrimoniale complessiva che all’interno dell’Unione europea è risultata pari a 24,6 miliardi di euro (European Central Bank 2014). Ma l’aspetto forse più significativo di tale esercizio è che ben il 93% di questa carenza di capitale riguarda banche italiane, greche, cipriote, portoghesi e irlandesi (grafico 1).
Grafico 1
I problemi di solvibilità, dunque, sembrano investire soprattutto banche situate nei paesi dell’Eurozona maggiormente afflitti dalla crisi economica. In fin dei conti non si tratta di un esito sorprendente. Dalla letteratura emerge infatti un chiaro collegamento pro-ciclico tra la performance macroeconomica e la dinamica dei coefficienti di adeguatezza patrimoniale delle banche, elevati in tempi di espansione e bassi in periodi di contrazione (Classens et al. 2011; Goodhart et al. 2004). Il nesso è confermato anche da un recente rapporto della Banca d’Italia, secondo cui «gli aggiustamenti di valore più significativi, sia dell’AQR sia dello Stress Test, si riscontrano in media nelle economie che dall’avvio della crisi finanziaria hanno registrato maggiori cali del prodotto interno lordo». In particolare, tra l’inizio della recessione internazionale e il 2013 Bankitalia ha individuato una correlazione positiva tra la variazione cumulata del PIL reale e la differenza tra il valore post stress test e il valore di partenza del Cet1 ratio. L’analisi mostra che i deterioramenti del Cet1 risultano meno accentuati nei paesi caratterizzati da una variazione positiva del PIL (Banca d’Italia 2014) (grafico 2).
Grafico 2
Fonte: Banca d’Italia
Da questo e da altri riscontri si evince che una eventuale contrazione del prodotto nazionale può indurre una minore solidità dei bilanci bancari. A monte di questo nesso si può aggiungere che la più recente letteratura empirica sui moltiplicatori fiscali ha ampiamente confermato l’esistenza di un legame ulteriore, tra politiche di bilancio pubblico restrittive e calo della domanda e della produzione nazionale (Blanchard e Leigh 2013; Auerbach e Gorodnichenko 2012; Batini et.al 2012; Christiano et.al 2011; Coenen et.al 2012; per una rassegna, cfr. Cozzi 2013 e Spilinbergo et al. 2009). Mettendo dunque in sequenza le due relazioni, si può affermare che le politiche di bilancio restrittive, deprimendo la domanda, la produzione e il reddito, costituiscono un fattore indiretto di deterioramento dei coefficienti patrimoniali delle banche.
Se il filo logico descritto viene ritenuto plausibile, allora si potrà anche sostenere che le politiche di restrizione dei bilanci pubblici, imposte soprattutto ai paesi del Sud Europa, potrebbero aver contribuito alla maggior concentrazione di bocciature dei bilanci bancari in questi stessi paesi, nei quali è dunque emersa più impellente l’esigenza di attivare piani di ricapitalizzazione. Sotto questo aspetto, è importante segnalare che il MUV sostiene che gli apporti di capitale privato dovrebbero costituire la miglior soluzione per le ricapitalizzazioni bancarie. Il problema è che nei paesi periferici dell’Unione la disponibilità di capitali privati nazionali appare limitata. In caso di penuria di finanziamenti privati le norme dettate dall’EU Bank Recovery and Resolution Directive (BRRD) prevedono la possibilità di attivare aiuti di Stato, ma tale alternativa è riservata ai paesi caratterizzati da un livello contenuto del debito pubblico; per tuti gli altri, può essere praticata solo al prezzo di ulteriori aggravi di austerità (ECOFIN 2014). In questo scenario è ragionevole prevedere che le banche sottocapitalizzate che operano nelle periferie dell’Eurozona dovranno necessariamente ricorrere all’intervento di capitali privati esteri.
Alla luce delle evidenze presentate sembra dunque lecito sostenere la seguente tesi: le politiche fiscali restrittive, imposte soprattutto ai paesi del meridione europeo, stanno contribuendo a preparare il terreno per un processo generalizzato di liquidazioni e acquisizioni favorevole alle banche dei paesi relativamente più forti. Siamo insomma al cospetto di una “centralizzazione” dei capitali dal Sud al Nord dell’Unione, che costituisce forse l’aspetto più rilevante dell’attuale tendenza alla “mezzogiornificazione” dei paesi periferici dell’Eurozona (Brancaccio e Fontana 2015; cfr. anche Brancaccio, Costantini e Lucarelli 2015). Se tale sequenza trovasse ulteriori riscontri, sarebbe utile trarre da essa una riflessione critica anche riguardo al duplice ruolo recentemente assunto dalla Banca centrale europea. A seguito dell’investitura a Supervisore Unico, infatti, la BCE da un lato avoca a sé la vigilanza e la gestione delle crisi bancarie, e dall’altro lato condiziona le sue politiche monetarie di sostegno dei paesi in difficoltà all’adozione, da parte di questi, di politiche fiscali restrittive. L’istituto di Francoforte sembra dunque trovarsi nella peculiare posizione del soggetto che si ritrova a creare condizioni favorevoli al verificarsi di crisi bancarie che esso stesso sarà poi chiamato a governare. Una concentrazione di responsabilità che qualcuno potrebbe ritenere decisiva per garantire la tenuta del progetto di unificazione monetaria europea, ma che in prospettiva potrebbe invece rivelarsi un ulteriore elemento di fragilità di un’Eurozona tuttora a rischio (AA.VV. 2013).
* vincitore del premio internazionale Guido Dorso 2015 patrocinato da Senato della Repubblica, CNR e Università ‘Federico II’, con una tesi di laurea specialistica dal titolo “Austerity, supervisione e ristrutturazioni bancarie nella UE: centralizzazione dei capitali e rischi di “mezzogiornificazione” europea (relatore Emiliano Brancaccio; correlatori Riccardo Realfonzo e Guido Tortorella Esposito).