Dopo essere stato a lungo un portato fondamentale della teorie economiche post-keynesiane,[1] anche la dottrina mainstream ha di recente riconosciuto che le banche commerciali non sono semplici intermediari di moneta già esistente e accumulata (sotto forma di risparmi), ma creano moneta attraverso la loro tradizionale attività di prestito (McLeay et al., 2014), e, più in generale, ogni qualvolta emettano passività in forma di depositi a vista.
Ne abbiamo accennato nel nostro recente intervento su Economia e Politica, con il quale abbiamo proposto l’“Approccio Contabile” alla moneta e di seguito al quale vogliamo qui svilupparne alcune implicazioni attinenti più specificamente alla moneta bancaria.
Depositi e riserve
Se una banca non ha necessità di accrescere il suo indebitamento per potere prestare o vendere depositi, essa deve comunque disporre di sufficienti riserve di moneta legale, contante e depositi presso la banca centrale, rispettivamente per garantire le richieste di prelevamento di contante da parte dei depositanti e per regolare le obbligazioni verso le altre banche che derivano dagli ordini di pagamento scaturenti dalla mobilizzazione dei depositi emessi.
Va precisato a quest’ultimo proposito che gli ordini di pagamento che rilevano ai fini in parola sono soltanto quelli relativi ai pagamenti effettuati dai clienti della banca a favore di clienti di altre banche, in quanto il regolamento dei pagamenti tra clienti della stessa banca non richiede utilizzo di riserve e si risolve esclusivamente con l’addebito e l’accredito di conti detenuti presso i libri della banca medesima (pagamenti detti “on us”).
Per i pagamenti fra clientela di banche diverse, peraltro, ogni banca, nel determinare la quantità di riserve di cui deve disporre a copertura dei depositi terrà conto delle riserve già in suo possesso nonché di quelle che prevede di introitare attraverso i flussi di pagamento in proprio favore. Si osservi infatti che la disponibilità delle riserve necessarie a sostenere le attività di prelevamento di contante effettuato dalla clientela e quelle di regolamento dei pagamenti interbancari si costituisce attraverso:
- le giacenze di contante in essere e i depositi detenuti presso la banca centrale;
- le riserve rivenienti da pagamenti e trasferimenti ricevuti da altre banche;
- il ricorso al mercato interbancario;
- i prestiti concessi dalla banca centrale;
- la cessione di attività in bilancio (non gravate da ipoteche) in cambio di liquidità immediata, e
- nuovi depositi di contante effettuati da vecchia e nuova clientela.[2]
La moneta bancaria ha evidente natura di debito rispetto alla richieste di conversione di depositi in contante e rispetto all’obbligo di regolare i pagamenti interbancari con riserve: la banca che emette depositi ha l’obbligo di convertirli in contante o di regolarli con riserve allorché la clientela effettui prelevamenti e disponga ordini di pagamento.
Tuttavia, in un regime di riserva frazionaria soltanto una quota di riserve è detenuta dalle banche a fronte del volume di depositi in essere (anche indipendentemente dai vincoli di riserva obbligatoria). Inoltre, il volume di riserve utilizzate nel regolamento delle transazioni interbancarie è anch’esso soltanto una quota del totale delle transazioni regolate. Ciò vale non solo per i sistemi di compensazione al netto, ma anche – sia pure in misura inferiore – per i sistemi di regolamento al lordo, dove una stessa unità di riserve permette di regolare un multiplo di unità di pagamenti.[3]
Quanto più ridotto è l’uso del contante, e quanto maggiori sono le economie di scala nell’utilizzo delle riserve a fini di regolamento consentite dal tipo dal sistema dei pagamenti, tanto minore è il volume di riserve di cui le banche devono disporre per far fronte all’emissione di nuovi depositi.[4] In particolare, il sistema dei pagamenti incide sull’utilizzo delle riserve attraverso due canali: la modalità di regolamento specificamente scelta (compensazione o regolamento al lordo) e la tecnologia adottata. Le più moderne tecnologie, reintroducendo elementi di compensazione anche nei sistemi di regolamento al lordo, consentono di aumentare la velocità di circolazione delle riserve economizzandone l’uso a parità del volume e del valore dei pagamenti regolati.
Nel caso limite di un sistema bancario pienamente concentrato, dove una sola banca detenga i conti di deposito di tutti gli agenti operanti nell’economia, e dove non vi sia uso di contante, tutti i pagamenti sono “on us” per la banca il questione. Pertanto, la banca non ha bisogno di detenere riserve ai fini di regolamento e non è di fatto gravata da alcun impegno di debito nei confronti dei depositanti. In linea di principio, essa può creare tutta la moneta domandata dall’economia senza detenere alcuna riserva. In tali ipotetiche circostanze, la moneta bancaria acquisisce (de facto, ancorché non necessariamente de jure) il medesimo potere liberatorio della moneta legale.
Debito, capitale o cos’altro?
Nella realtà si hanno sistemi in cui opera una molteplicità di banche, la cui attività di pagamento dà inevitabilmente luogo a obbligazioni interbancarie da sottoporre a regolamento. Tuttavia, le economie di scala che il regime frazionario consente di sfruttare permettono di economizzare il volume di risorse di cui le banche necessitano per far fronte agli impegni di debito: con economie di scala crescenti, le banche possono creare più debito (prestando o vendendo depositi[5]) con margini di copertura frazionari via via decrescenti del medesimo debito. Dal caso ipotetico e da quanto appena detto segue che, a parità di ogni altra condizione, un sistema bancario maggiormente concentrato può permettersi margini di copertura (e relativi costi) inferiori rispetto a una sistema meno concentrato.
Più generalmente, segue che, in circostanze normali, e cioè in assenza di contingenze economiche o di mercato particolarmente avverse che inducano tutti i depositanti a convertire i propri depositi in moneta legale, le passività rappresentate da ciascuna unità di deposito costituiscono solo in parte vero proprio debito della banca emittente, che, in quanto tale, richiede copertura sotto forma di riserve. La restante parte di tale passività, invece, secondo i criteri di contabilità discussi nel nostro precedente intervento su Economia e Politica, assume natura di capitale netto della banca stessa e diviene per essa fonte di signoraggio.
Va osservato che la doppia natura della moneta bancaria ha carattere stocastico, in quanto, all’atto dell’emissione, ogni unità di deposito può essere tanto debito (se, con una certa probabilità, si verificherà una domanda di conversione o di regolamento interbancario) quanto capitale netto (con probabilità complementare). A fronte di questa doppia natura stocastica, risulta conveniente per la banca, in un’ottica di profitto, costituire un fondo di riserve pari soltanto al valore atteso dell’evento debitorio eventualmente concernente l’unità di deposito emessa e non all’intera unità.
Il concetto di “stocastico”, in altri termini, si riferisce al fatto che – ex ante – la banca che crea un euro di deposito conta sul fatto che, probabilisticamente, soltanto una quota di quell’euro costituirà debito, mentre la restante quota (che, sempre stocasticamente, non sarà oggetto di conversione o regolamento) ne costituisce parte del capitale netto. La quota di debito e quella di capitale netto (che sono ovviamente complementari) sono valori attesi variabili, determinati da caratteristiche comportamentali e istituzionali nonché da fattori contingenti (in tempi di crisi, per esempio, la quota di debito tende a crescere) e tendenzialmente compresi fra 0 e 100%.
La quota di debito risulta più bassa quando vi è piena fiducia nel sistema bancario. Viceversa, essa è più elevata in tempi di sfiducia. Pertanto, l’elasticità con cui la banca centrale rifinanzia le banche nei casi di illiquidità aumenta, per le banche e per il sistema, la quota di depositi aventi natura di capitale netto.
Questo ragionamento ha tanto maggiore forza in quanto esso venga applicato al sistema bancario nel suo complesso, ma vale identicamente per ciascuna singola banca commerciale, seppure in misura diversa a seconda della dimensione di ciascuna banca per dato sistema di regolamento e uso del contante.[6] In ragione degli argomenti precedenti, può concludersi che, a parità di ogni altra condizione, per una banca di piccola dimensione (come sopra definita) la quota stocastica dei depositi avente natura di debito è più elevata rispetto a quella di una banca di più grandi dimensioni. Viceversa, più grande è la banca, maggiore è il contenuto di capitale netto dei depositi da questa emessi (e maggiore è il relativo potere di signoraggio).
Moneta bancaria: quale natura contabile?
La doppia natura stocastica della moneta bancaria trova riscontro nei moderni principi contabili generali, definiti nel Quadro Sistematico dei Principi Contabili Internazionali, che regola gli International Financial Reporting Standards (IFRS).[7] In base al suddetto Quadro,
“A liability is recognised in the balance sheet when it is probable that an outflow of resources embodying economic benefits will result from the settlement of a present obligation and the amount at which the settlement will take place can be measured reliably”.[8]
Pertanto, quando “non è probabile” che vi sia un deflusso di benefici economici, non sussiste debito, e i depositi a vista diventano uno strumento ibrido – parte debito e parte ricavo (che, accumulato, dà luogo a capitale netto) – per le medesime ragioni che abbiamo esposto nel nostro intervento precedente.
Ora, poiché non esiste uno standard contabile che regoli espressamente gli strumenti ibridi “passività-ricavo”, può allora applicarsi, in base agli stessi IFRS, il correlato standard IAS 32, che prescrive che nell’ambito di ciascuno strumento ibrido del passivo l’elemento di debito vada scisso da quello di capitale.[9] Dalla scissione segue che, una volta individuata la componente di debito, la parte residuale assume natura di capitale netto.[10]
Nel caso dei depositi, la natura di ricavo della quota per cui non è probabile la restituzione ai titolari cambia soltanto la “parte ideale” del netto (non azioni ma utili non distribuiti). Per il resto, essa è del tutto analoga alla previsione dell’IAS 32. L’applicazione analogica, come prescritto chiaramente dall’IAS 8, appare qui davvero un caso di scuola. Per effetto di questo rinvio, nel bilancio della banca emittente andrebbe considerata fra i debiti soltanto la quota di depositi relativamente alla quale il deflusso di benefici economici è “probabile”, mentre la parte restante andrebbe apposta in via residuale nel conto economico sotto forma di proventi da signoraggio. Inoltre, posto che la quota di utile attribuibile a questi proventi non è distribuibile ai soci, essa dovrebbe aggiungersi al capitale netto della banca nel suo stato patrimoniale.
A rafforzamento della piena correttezza contabile del trattamento qui proposto portiamo ancora l’IAS 37, che regola i fondi di accantonamento a rischi e oneri e le passività potenziali.[11] Il principio definisce come veri e propri debiti i fondi che rientrano nella definizione che il Quadro dà di “passività”, ovvero gli impegni che prevedono i) la “probabilità” di una fuoriuscita di benefici economici e ii) che tale probabilità sia maggiore di 0,5 su 1. Al di sotto di questa probabilità critica, la passività diventa “passività potenziale” e va semplicemente annotata nelle Note al bilancio (sempre che il suo grado sia determinabile in modo affidabile e non sia addirittura minima o remota, nel qual caso si può semplicemente trascurare).
La conseguenza che ne deriva è incontrovertibile: non basta che giuridicamente chiunque abbia una “pretesa” (“claim”, nell’originale testo inglese del Quadro) perché si possa parlare di debito; il requisito della probabilità di fuoriuscita di benefici economici è indispensabile. Al di sotto della probabilità critica c’è la mera possibilità, la quale – principi contabili alla mano – va semplicemente segnata nelle Note al bilancio. La quota che non è qualificata come debito, a parte l’annotazione in Note, deve quindi essere considerata quale “utile” e, poiché questo utile da emissione monetaria (signoraggio) non figura al conto economico, esso costituisce a tutti gli effetti utile accantonato a capitale.
Conclusione
La doppia natura della moneta bancaria trae origine dal potere di fatto conferito dallo Stato alle banche commerciali di creare una propria moneta che solo in parte ha natura di debito. Una conseguenza importante, di cui nessuno ha prima d’ora parlato, è che una quota rilevante dei depositi che le banche riportano in bilancio come “debiti verso la clientela” genera redditi in tutto e per tutto analoghi alle rendite da signoraggio generate dalle monete legali (monete, banconote e riserve) emesse dallo Stato. Come si mostra altrove,[12] tale forma di signoraggio introduce nell’economia reale un elemento strutturale di sottrazione netta di risorse, con effetti deflattivi su profitti e/o salari e con conseguenze redistributive e di frizione fra capitale e lavoro, che andrebbero attentamente studiati.
Riferimenti Bibliografici
Bossone, B. (2017), Commercial bank seigniorage: A Primer, mimeo (available from the author on request).
Graziani, A. (2003), The Monetary Theory of Production, Cambridge University Press, Cambridge UK.
McLeay, M., Radia, A. and Thomas, R. (2014b), “Money Creation in the Modern Economy”, Bank of England Quarterly Bulletin, 54(1), 14-27.
Moore, B. (1979), The Endogenous Money Stock, Journal of Post Keynesian Economics, 2(1), 49-70.
Moore, B. (1983), Unpacking the Post Keynesian Black Box: Bank Lending and the Money Supply, Journal of Post Keynesian Economics, 5(4), 537-556.
[1] Si vedano, ad esempio, Moore (1978, 1983) e la letteratura sulla teoria del circuito monetario, troppo ampia per essere qui riferita e che per questo ricolleghiamo al nome e al lavoro di Augusto Graziani (2003), uno dei suoi più autorevoli esponenti.
[2] I nuovi depositi da clientela che avvengono in forma diversa dal contante non possono che consistere in depositi trasferiti da altre banche; essi pertanto rientrano nella categoria sub ii).
[3] Questo multiplo varia a seconda del tipo di sistema di regolamento: è maggiore in un sistema di compensazione rispetto a un sistema di regolamento al lordo.
[4] A proposito del ridotto uso del contante. Nei casi di crisi in cui le autorità dichiarino l’inconvertibilità dei depositi in contante e impediscano il trasferimento di depositi all’estero, la moneta bancaria assume le caratteristiche della moneta legale (anzi, assume un vero e proprio corso forzoso) e il sistema bancario nel suo complesso replica le caratteristiche della banca centrale, presso cui le riserve create sussistono e dalla quale non possono fuoriuscire (se non dopo essere state convertite in altre valute): ogni banca commerciale può cercare di disfarsene cedendole alle altre, ma tutte insieme non possono disfarsene poiché le riserve create restano tali sino a che non vengano distrutte attraverso la loro restituzione o cessione alla banca centrale. Stessa cosa per i depositi bancari sotto le condizioni anzidette.
[5] Il prestito di depositi presenta strettissime analogie con la vendita degli stessi. Allorché le banche emettono titoli di deposito a favore della clientela in cambio di danaro, esse entrano in possesso del danaro ricevuto, acquisendo il diritto di deciderne l’uso (nel rispetto delle date norme). E se anche le banche sono vincolate nell’utilizzo del danaro ricevuto (come nel caso, per esempio, dei vincoli riguardo alla tipologia di attività nelle quali detenere il danaro medesimo), esse (non i depositanti) sono titolari delle attività acquisite, così come pure sempre le banche (non i depositanti) sono titolari dei redditi prodotti dalle attività acquisite.
[6] La dimensione qui si riferisce specificamente al volume che la banca intermedia rispetto al totale dei pagamenti eseguiti nel sistema.
[7] Si veda il Conceptual Framework of Financial Reporting.
[8] Paragrafo 4.46 del Quadro.
[9] In particolare, in base all’IAS 8, che regola i criteri di discrezionalità da adottare, in base al “judgment”, in assenza di specifici principi contabili. Secondo i paragrafi 10-11 dell’IAS 8, “In the absence of an IFRS that specifically applies to a transaction, other event or condition, … management shall refer to, and consider the applicability of, the following sources in descending order:
(a) the requirements in IFRSs dealing with similar and related issues; and
(b) the definitions, recognition criteria and measurement concepts for assets, liabilities, income and expenses in the Framework.”
L’IAS 8 ricalca quello che nel diritto comune è il cosiddetto criterio di analogia e, come in quel caso, privilegia dapprima l’analogia legis, cercando la legge che regola casi simili, e, in seconda battuta, l’analogia juris, cioè ricorrendo ai principi generali dell’ordinamento, qui rappresentati dal Quadro.
[10] Cfr. IAS 32, paragrafi 28 et ss. Si osservi che nel caso in parola lo strumento ibrido ha natura di “passività-capitale proprio” e non di “passività-ricavo”, e tuttavia costituisce pur sempre un ibrido tra passività ed elemento del patrimonio netto. Il patrimonio netto, o capitale nelle imprese, è infatti costituito – com’è noto – da diverse componenti o parti “ideali”. In estrema sintesi, e con linguaggio internazionale, il capitale può essere scisso in due parti: capitale sociale e riserve di capitali da un lato (ownership’s contributions) e riserve di utili dall’altro (retained earnings). L’IAS 32 regola la scissione degli strumenti finanziari ibridi, che hanno parte natura di capitale, sub specie di ownership’s contributions, come gli strumenti azionari o partecipativi, e parte natura di debito. E, come è stato detto, riscontrano la quota che, secondo quanto dettato dal Quadro, è qualificabile come debito, attribuendo la restante parte al capitale in modo residuale.
[11] Cfr. IAS 37, paragrafi 12-13, nei quali si legge la fondamentale distinzione tra l’aggettivo “probable” per i veri e propri debiti, e l’aggettivo “possible”, per le passività potenziali da indicare in Note.
[12] Si veda Bossone (2017).