Il 10 ottobre scorso Ubi Banca ha approvato la trasformazione in società per azioni. E’ la prima delle dieci banche popolari che, per effetto della recente riforma delle banche popolari, dovranno trasformarsi in società per azioni. Il MEF ha accolto con grande ottimismo questa prima conversione: «… ci si augura che questa trasformazione inneschi un processo di rafforzamento del settore che porti le banche ad avere un ruolo più incisivo per lo sviluppo del sistema delle imprese».
Solo tra qualche anno potremo dire se il cambio di struttura proprietaria e di governance ha migliorato azioni e risultati delle popolari coinvolte. Oggi possiamo solo verificare se il passato in qualche misura autorizzi a ritenere ex ante che questo cambiamento, voluto dalla riforma, possa essere portatore di vantaggi o meno.
Contro la riforma delle banche popolari si sono espresse posizioni critiche da più parti.
Alcune hanno fatto riferimento alla superiorità del modello di governance delle popolari (banche a voto capitario), che rispetto a quello di società per azioni:
- perseguirebbe l’obiettivo della massimizzazione del valore aggiunto, a vantaggio dell’intero gruppo di stakeholders (depositanti, soci, lavoratori, comunità locali, ecc.) e non quello della massimizzazione del valore per gli azionisti, cui invece tenderebbe il modello di società per azioni; per intenderci, l’intera torta (il benessere economico nel complesso) e non la sola fetta degli azionisti;
- ridurrebbe il conflitto di interessi tra azionista e risparmiatore, limitando lo sbilanciamento nelle scelte di gestione a favore dell’azionista (che ha responsabilità limitata) verso strategie di aumento dei margini di profitto e, gioco forza, più rischiose.
Altre hanno sottolineato la rilevanza che il modello di banca a voto capitario ha in ambito internazionale, con una presenza di tutto rilievo in termini di sportelli in Francia (60%), Germania e Canada (50%), Olanda e Austria (40%), e quindi, in ottica darwiniana, la resistenza di questo modello di banca, anche nelle avverse sorti della crisi recente, che ha invece colpito e visto fallire molte grandi banche organizzate in società per azioni.
Altre posizioni, ancora, guardando alle politiche di gestione e alle implicazioni in termini di performance e rischio delle banche a voto capitario rispetto alle spa, hanno rilevato come l’evidenza empirica mostri che le popolari prestino di più, abbiano utili meno volatili e non siano affatto più rischiose delle società per azioni.
Infine si è sottolineato il pregio della biodiversità dei sistemi finanziari così come degli ecosistemi: l’esistenza di diverse specie di intermediari finanziari aumenterebbe la resistenza del sistema agli shocks e quindi l’eliminazione di una specie (le grandi popolari) lo renderebbe più fragile.
L’intervento di Becchetti (2015) al Senato descrive con chiarezza e completezza le diverse posizioni sopra riportate in estrema sintesi.
L’obiettivo di questo scritto è quello di indagare, utilizzando i dati Mediobanca-R&S (2015), le principali differenze tra le banche popolari italiane e le banche italiane spa (quelle che erogano credito a breve), per verificare se, dati alla mano, limitatamente agli aspetti economici, finanziari e patrimoniali, il modello proprietario “società per azioni” possa avere dimostrato nel passato precedente la riforma un vantaggio comparativo rispetto al modello “banca popolare”, tale da giustificare, almeno per questi aspetti, la citata riforma.
Il campione comprende 33 popolari (di cui 10 con attivo superiore a 8 miliardi di euro e quindi le sole sottoposte alla riforma, almeno per ora) e 49 banche spa. Il campione è molto rappresentativo perché considera tutte le banche popolari e le banche spa di credito a breve che hanno un attivo netto tangibile non inferiore ai 50 milioni di euro nel 2013. L’analisi è stata svolta per l’anno 2013; tuttavia il dato, per gli indicatori riferiti alla struttura degli attivi/passivi, è piuttosto stabile e rappresentativo del decennio 2004-2013. I dati sono riassunti nella tabella 1, che aggrega tutte le popolari e tutte le spa, ad esclusione delle prime 2 banche, cioè Unicredit e Banca Intesa, che sono casi a sé, con un attivo netto tangibile che è, rispettivamente, 4-3 volte quello della terza spa (Monte dei Paschi di Siena) e 10-8 volte quello della quarta (Banca Nazionale del Lavoro), i cui dati sono riportati separatamente, per completezza. Di seguito le principali differenze [1] :
- in media le popolari sono più grandi (per numero di dipendenti) e hanno una maggiore copertura del territorio (numero di sportelli) delle spa;
- il maggior numero di sportelli delle popolari non implica però, come da alcuni parti è stato evidenziato a parziale sostegno della riforma, una struttura ipertrofica, troppo pesante o meno efficiente di quella delle spa. Non risultano statisticamente significative, infatti, le differenze di attivo netto tangibile per dipendente (cioè le masse gestite da ciascun dipendente) e numero medio di dipendenti per sportello delle due tipologie di banche considerate;
- le popolari sono maggiormente orientate al mestiere tradizionale della banca, cioè quello della intermediazione creditizia: maggiore è, infatti, l’incidenza dei crediti alla clientela sull’attivo netto tangibile e maggiore è la quota di mezzi raccolti presso la clientela;
- il modello proprietario non sembra incidere sul conto economico: le popolari e le spa non differiscono in maniera statisticamente significativa per redditività (ROE = return on equity, ovvero quanto rende il capitale dei proprietari della banca), né per incidenza sui ricavi del margine di interesse e delle commissioni. Tuttavia, poiché le popolari prestano di più alla clientela, pari incidenza sui ricavi del margine di interesse (cioè quanto la banca guadagna dall’attività di intermediazione come spread tra tassi attivi e passivi) implicherebbe una forbice dei tassi all’intermediazione più contenuta. Evidente invece è la maggiore variabilità della performance del gruppo delle spa rispetto alle popolari, con distribuzione dei valori molto più ampia e valori estremi doppi/tripli: elemento questo di rischio per il sistema nel complesso;
- è statisticamente significativa la differenza tra i due campioni per quanto attiene alla quota dei crediti dubbi (sofferenze e incagli) sul totale dei crediti alla clientela; le popolari hanno una maggiore quota di crediti dubbi sul totale dei crediti erogati (la mediana è maggiore di 4 punti %). Va però notato che erogano più credito e quindi, inevitabilmente, risultano meno selettive delle spa. Mostrano, però, minore disomogeneità tra loro rispetto alle spa che hanno dispersione quasi doppia e range di variazione molto più ampio. Questo implica un minore rischio delle popolari per il sistema bancario nel complesso, sul versante sofferenze;
- la patrimonializzazione non differisce in maniera statisticamente significativa: la copertura con il patrimonio netto (base e di vigilanza)[2] degli attivi ponderati per il rischio è simile;
- sembrerebbero invece più rischiosi gli attivi delle popolari rispetto alle spa; maggiore risulta infatti il rapporto tra attività ponderate per il rischio (RWA = risk weighted assets) e attivo totale. Qui però interviene un fattore distorcente non di poco peso, dovuto ai meccanismi di ponderazione per il rischio previsti da Basilea II. Infatti, il sistema delle ponderazioni per il rischio delle attività delle banche di Basilea II penalizza i crediti verso la clientela corporate (le imprese non finanziarie) rispetto ai crediti verso governi, banche centrali e altre banche, prevedendo per i primi, a parità di merito creditizio, coefficienti di ponderazione superiori rispetto ai secondi. Scelta inspiegabile, peraltro, perché trascura del tutto l’effetto di amplificazione sistematica che l’insolvenza/default di governi e banche ha rispetto a eventi analoghi di imprese non finanziarie. Questo effetto distorsivo dei coefficienti di ponderazione per il rischio di Basilea II sembra confermato anche dai legami che emergono del rapporto RWA/totale attivo (fig.1) con l’incidenza del credito alla clientela sull’attivo, di segno positivo, da un lato e, dall’altro, con il peso dei derivati sul totale del patrimonio netto tangibile delle banche, di segno negativo, rilevati dal Rapporto Mediobanca-Ricerche & Studi sulle principali banche internazionali (Mediobanca-R&S, 2014; Barbaresco, 2015a). Quanto precede solleva dubbi, in conclusione, sull’attendibilità di questo indicatore come misura del rischio effettivo degli attivi bancari;
- ultimo dato estremamente importante è la maggiore omogeneità interna delle popolari rispetto alle spa. Pur escludendo da queste ultime le due big, i dati mostrano un modello di “fare banca” delle popolari omogeneo e riconoscibile, anche in presenza di un ampio ventaglio dimensionale (maggiore di quello delle spa), con una volatilità tra banche dei vari fondamentali economico-finanziario-patrimoniali considerati molto ridotta e comunque sempre inferiore a quella delle spa, che invece presentano una maggiore disomogeneità interna, con un range di variazione più ampio e casi estremi. La disomogeneità cross-sectional è calcolata sia da due indici di dispersione, rispettivamente la deviazione standard rapportata alla media e la differenza interquartilica rapportata alla mediana, che dai percentili 5% e 95% che indicano gli estremi del 90% dell’intera distribuzione. Cioè a dire che il modello di banca popolare consente di limitare gli eccessi nei due versi, stabilizzando i fondamentali.
In conclusione, dai dati qui analizzati emerge con chiarezza che le spa non sono un modello migliore di fare banca, tale da rappresentare un esempio da imitare. Le popolari non sono meno redditizie né più rischiose, fanno di più e meglio (contenendo la forbice dei tassi) il mestiere tradizionale di intermediazione creditizia, prendendosi qualche rischio in più, che tuttavia non inficia né la redditività né l’adeguatezza patrimoniale: in questi anni di crisi e di restrizione del credito alle imprese sembra essere un punto di forza non di poco conto. La forma di popolare, peraltro, non preclude la crescita dimensionale, favorisce la presenza sul territorio, stabilizza struttura patrimoniale e performance, evitando gli eccessi.
Da ultimo, alcune considerazioni sul sub-obiettivo che, secondo alcuni commentatori, la riforma delle banche popolari nasconderebbe, cioè quello di favorire l’aggregazione delle banche italiane e quindi il processo di concentrazione del sistema finanziario, tramite fusioni/acquisizioni, che evidentemente la forma di spa agevola. Sotto questo versante, appare ulteriormente discutibile la riforma, in considerazione di due elementi:
- l’elevato grado di concentrazione già esistente nel sistema bancario europeo e mondiale, accentuato paradossalmente proprio dalla crisi e dai salvataggi pubblici (6 mega-mergers dopo il 2007 in USA e 4 in Europa);
- gli effetti negativi che questa concentrazione (e in generale l’aumento dimensionale delle banche) ha comportato in termini di maggiore rischio sistemico e difficoltà a controllarlo, sia da parte delle autorità di regolamentazione che del management delle stesse banche. La Banca dei Regolamenti Internazionali (il tempio dei sistemi di regolamentazione di Basilea), nel rapporto annuale del 2009 afferma: «…le banche devono riprendere l’attività creditizia, ma devono altresì operare un aggiustamento divenendo più piccole, più semplici e più sicure…..in futuro, un’impresa finanziaria troppo grande e troppo interconessa per fallire dovrà anche essere troppo grande per esistere».
Il quadro attuale degli operatori bancari è inquietante per gigantismo (Mediobanca-R&S, 2014). Le 33 maggiori banche europee hanno attivi, netti da derivati, pari a 2 volte il PIL europeo, in media nel decennio 2004-2013 (le 13 maggiori USA il 60%). In Svizzera e Paesi Bassi le prime 2 banche nel 2013 hanno attivi pari a circa tre volte il PIL, in Francia, Spagna e Regno Unito tra 2 volte e una volta e mezzo, in Italia uguagliano il PIL, in Germania ne raggiungono l’80%. Rapportare l’attivo bancario al PIL non è proprio corretto (trattandosi di grandezze disomogenee, fondo l’attivo e flusso il PIL), ma può dare un’indicazione di larga massima delle dimensioni raggiunte da alcuni intermediari. Confrontando l’attivo medio delle banche europee con l’attivo medio delle multinazionali non finanziarie, sempre europee, il rapporto è di 11,4 a 1.
Fenomeno parallelo al processo di concentrazione è quello dell’aumento della complessità e interconnessione delle attività svolte dalle banche e del loro mix, che mostra un cambio di mestiere delle banche (Barbaresco, 2015b).
La maggiore dimensione va a braccetto con la diversificazione delle attività svolte e con la presenza di conflitti di interesse che questa diversità comporta (Walter, 2003). Dentro la stessa banca sono presenti le funzioni più disparate, dall’attività tradizionale di intermediazione creditizia all’investment banking, dall’asset management al trading proprietario, dai servizi finanziari e di consulenza alle imprese alla gestione della loro previdenza integrativa, miscelando e interconnettendo l’attività di intermediazione (di rilevanza e tutela pubbliche) con attività più speculative, caratterizzate da un profilo di rischio-rendimento più accentuato.
Gli attivi e i passivi delle banche sono cambiati in maniera radicale: nelle banche europee (dato medio) scende il peso del credito alla clientela tra gli impieghi (42,5% nel 2013) e quello della provvista da clienti (55,6%) tra le fonti, mentre aumenta l’incidenza dei titoli (20%), dell’interbancario (14% i crediti vs banche e 11% la provvista da banche), e delle altre attività/passività (rispettivamente 23% e 28%), tra cui i derivati (16,5% dell’attivo il peso di quelli attivi a giugno 2014, pari a 3,8 volte il patrimonio netto tangibile, che significa che una svalutazione di un quarto del valore di carico dei derivati assorbe l’intero patrimonio (Mediobanca-R&S, 2014; Barbaresco, 2014). Il confronto con le banche cinesi, che in qualche modo replicano il profilo delle banche europee di qualche decennio fa, è di tutta evidenza: impieghi alla clientela (50%), provvista dalla clientela (78%), altri attivi/passivi inferiori al 3%. Tra le europee, le banche italiane sono quelle in cui questo cambiamento è meno marcato: forse l’obiettivo non dichiarato di questa riforma è anche quello di ridurre questo gap?
Tabella 1 – Indicatori economici, finanziari e patrimoniali di banche popolari e spa a confronto (anno 2013)
Figura 1 – Più credito, più capitale. Più derivati, meno capitale (2013)
fonti: Mediobanca-R&S (2014) e Barbaresco (2015a)
* Professore ordinario di Finanza aziendale – Università degli Studi di Roma Tre (venanzi@uniroma3.it)
Riferimenti bibliografici
Barbaresco G. (2015a), “Zibaldone su banche, Stato e regolamentazione” – Relazione Convegno ABI “La ristrutturazione delle banche e dei sistemi finanziari nell’area Euro”, Roma 28 gennaio
__________ (2015b), “Economia senza banche o banche senza economia? Lezione da Stati Uniti ed Europa” – Presentazione Rapporto Mediobanca-R&S su Le principali banche internazionali, Università degli Studi Roma Tre – Dipartimento di Economia – Laurea Magistrale in Scienze Economiche, Roma 14 aprile
__________ (2014), “Affinità e distanze tra le grandi banche internazionali sulle due sponde dell’oceano (2003-2013)” – Relazione al convegni Fondazione Ugo La Malfa, Roma 24 novembre
Becchetti L. (2015), Elogio della diversità bancaria (ed errori del decreto popolari), http://www.fondazionetorvergataeconomia.it/index.php/2015/02/elogio-diversita-bancaria/
Mediobanca-R&S (2015), Focus comparativo sulle Banche Popolari Italiane, www.mbres.it
Mediobanca-R&S (2014), Dati cumulativi delle principali Banche Internazionali, www.mbres.it
Walter I. (2003), Conflicts of interests and market discipline among financial services firms – NYU-Salomon Center for the Study of Financial Institutions
[1] La significatività statistica delle differenze è stata controllata con il test parametrico di Mann-Whitney, che è più robusto dei test parametrici in presenza di campioni di numerosità limitata e quando le variabili analizzate non si distribuiscono come una normale. Le differenze statisticamente significative hanno una significatività del 90% o superiore. Per brevità si omettono i dati.
[2] Il patrimonio di base rappresenta il capitale di rischio in senso stretto (tangibile, cioè eliminando le attività immateriali che spesso nascondono attivi di soggettiva valutazione come gli avviamenti nel caso di crescita per acquisizione/fusione) anche denominato Tier 1 o core capital; il patrimonio di vigilanza, invece, somma al patrimonio di base voci di natura ibrida, quali le riserve di valutazione e il debito subordinato.