Tassi di interesse, distribuzione del reddito e canale di costo della politica monetaria

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Utilizzando modelli SVAR e dati trimestrali per Giappone, Regno Unito e Stati Uniti per il periodo 1960-2019 questo articolo stima l’impatto di una politica monetaria restrittiva sui prezzi e sulla distribuzione del reddito. I risultati mostrano che un aumento dei tassi di interesse provoca un incremento significativo dei prezzi ed effetti negativi e persistenti sui salari reali, poiché l’aumento dei prezzi non è compensato dall’incremento dei salari nominali. Le nostre evidenze sono confermate anche quando vengono considerate diverse misure delle aspettative. Questi risultati sollevano dubbi sull’efficacia della strategia di inflation targeting e richiamano l’attenzione sulle sue conseguenze sociali ed economiche.

Il ritorno dell’inflazione negli ultimi anni ha determinato ripetuti aumenti dei tassi di interesse a breve termine dopo che per più di un decennio si erano attestati su livelli pressoché nulli. Basti pensare che, per mantenere il controllo sul loro obiettivo di inflazione del 2%, nell’Eurozona, negli Stati Uniti e nel Regno Unito le autorità monetarie hanno rispettivamente aumentato i tassi di interesse per 10, 11 e 14 volte in appena due anni. Guardando alle variazioni assolute, quest’aumento appare ancora più impressionante, attestandosi nei rispettivi paesi su 400, 515 e 525 punti base.

Tale risposta sembrerebbe in linea con la regola di Taylor (1993), secondo cui le banche centrali, tramite un’adeguata gestione dei tassi di interesse, sarebbero in grado di mantenere l’output al suo livello potenziale e l’inflazione al suo livello target. L’idea a base di tale regola è che l’aumento dei tassi di interesse ridurrà i livelli di attività economica determinando con ciò il ritorno dell’inflazione al suo valore obiettivo. Tuttavia, accanto a tale effetto dal lato della domanda, vari economisti hanno sottolineato anche un effetto della politica monetaria dal lato dei costi monetari di produzione (Barth e Ramey, 2002; Christiano et al., 2005; Gaiotti e Secchi, 2006; Beaudry et al., 2024), o, come spesso affermato, dal “lato dell’offerta”, evidenziando che un aumento dei tassi di interesse potrebbe addirittura portare, almeno una tantum, ad un aumento dell’inflazione, o comunque generare un aumento del livello generale dei prezzi relativamente ai salari monetari. Metaforicamente, come scritto da Patman, le banche centrali finirebbero in tal modo per “gettare benzina sul fuoco” (Patman, 1957, p. 134), e l’effetto finale sul tasso di inflazione verrebbe a dipendere dall’intensità del meccanismo di trasmissione della politica monetaria dal lato della domanda rispetto a quello dal lato dell’offerta.

L’impatto della politica monetaria sui costi di produzione è stato ripetutamente oggetto di dibattito nella storia del pensiero economico, sia in ambito accademico che istituzionale. Già nella prima metà del diciannovesimo secolo Tooke (1844) evidenziava la possibilità di una relazione positiva tra prezzi e tassi di interesse, essendo quest’ultimi un elemento dei costi monetari di produzione. Nel Trattato sulla Moneta (1930), Keynes definì tale relazione “paradosso di Gibson” riferendosi ai dati pubblicati al riguardo da Alfred Herbert Gibson sul Banker’s Magazine (1923). In un ambito più istituzionale, Nancy Teeters, un membro del consiglio dei governatori della Federal Reserve, scrisse con riferimento alla politica monetaria restrittiva intrapresa da Volcker nel 1979: “Interest rates may be [low] after tax, or in real terms, but they are still contributing to cost and are creating, I think, some of the upward pressure on prices.” (Teeters, FOMC meeting, May 1981).

L’attenzione su una relazione diretta tra tassi di interesse e livello dei prezzi si è riaccesa quando una correlazione positiva tra essi è emersa nei modelli autoregressivi vettoriali (VAR) di Sims (1992). Questo fenomeno, successivamente denominato “price puzzle”, ha suscitato un ampio dibattito sia da un punto di vista empirico che teorico (per una panoramica, si vedano Cucciniello et al., 2020 e Levrero, 2023). Da un lato, seguendo la strada di Sims (1992), molti autori hanno cercato di risolvere tale relazione “paradossale” affermando che essa potrebbe essere il frutto di un errore di specificazione del modello dovuto all’omissione di variabili rilevanti, tra cui gli aggregati monetari, i prezzi delle materie prime, l’output gap e l’inflazione attesa. In particolare, si è argomentato che l’esclusione delle aspettative di inflazione condurrebbe a interpretare erroneamente come uno shock esogeno il rialzo dei tassi di interesse, che invece rappresenterebbe una risposta endogena della politica monetaria a un atteso rialzo dei prezzi. Si è poi argomentato che il price puzzle si manifesterebbe solo in presenza di una politica monetaria passiva rispetto all’inflazione, come nel caso degli Stati Uniti prima della stretta di Volcker nel 1979, non reagendo la banca centrale in modo più che proporzionale agli scostamenti dell’inflazione dal suo target (Castelnuovo e Surico, 2010), e che comunque l’inserimento dell’inflazione attesa ridurrebbe l’errore di specificazione del modello, risolvendo così il price puzzle e riaffermando pertanto la “vera” relazione inversa tra prezzi e tassi di interesse.

Al contrario, altri studi hanno cercato di giustificare la relazione positiva tra queste variabili enfatizzando gli effetti della politica monetaria sui costi delle imprese. Da questa prospettiva, l’evidenza di un effetto positivo delle misure monetarie restrittive sui livelli dei prezzi e, almeno per un certo periodo, sull’inflazione, non sarebbe paradossale, ma indicherebbe piuttosto la prevalenza del canale di costo rispetto al più tradizionale canale della domanda. Come già accennato, questa visione non è nuova. Già prima della letteratura sul price puzzle, diversi autori eterodossi avevano evidenziato l’idea che i costi per interessi venissero trasferiti sui prezzi. Ad esempio, Kalecki (1971) suggerì che un aumento degli overhead costs (che includono anche gli interessi passivi) condurrebbe a un incremento del grado di monopolio e del mark-up sui costi fissato dalle imprese. Allo stesso modo, Kaldor (1985) sottolineò l’effetto di riduzione dei prezzi derivante da una diminuzione dei tassi di interesse, affermando che i costi per interessi si trasferirebbero sui prezzi in modo analogo ai costi salariali.

Sebbene alcuni abbiano associato questa prospettiva del canale di costo a condizioni di oligopolio, è importante evidenziare che tale visione non si limita a questa ipotesi. Infatti, secondo diversi autori classico-keynesiani (Garegnani, 1978-79; Panico, 1988; Pivetti, 1991) che hanno sviluppato la cosiddetta Teoria Monetaria della Distribuzione, dati:

  1. i salari monetari (w);
  2. i profitti normali d’impresa (np), considerati una grandezza sufficientemente stabile;
  3. i metodi di produzione (A,l), dove A rappresenta la matrice della tecnica e l il vettore dei coefficienti di lavoro;

un aumento del tasso di interesse (i) comporterebbe un incremento dei prezzi delle merci (p), in condizioni di libera concorrenza in cui i prezzi uguagliano i costi monetari di produzione. Tale teoria può essere espressa attraverso un sistema di equazioni di prezzo:

p = Ap(1 + r) + lw

r = np + i

dove il saggio normale di profitto (r) è composto da due componenti autonome: i profitti normali d’impresa (np), che rappresentano la compensazione per il “rischio e il fastidio” di impiegare produttivamente il capitale (non necessariamente uniforme tra i diversi settori)[1], e il tasso di interesse a lungo termine su attività prive di rischio (i), che costituisce la remunerazione “pura” o costo opportunità del capitale. Di conseguenza, un aumento persistente dei tassi di interesse a lungo termine, causato da una politica monetaria restrittiva, porterà a un incremento dei costi normali di produzione e, quindi, del livello dei prezzi. Dato il salario monetario, ne deriverà un cambiamento nella distribuzione del reddito, consistente in un minore saggio di salario reale e in un maggiore tasso di profitto normale.

Partendo da queste premesse, il nostro studio si propone di valutare l’influenza della politica monetaria sui prezzi e sulla distribuzione del reddito, con un’attenzione particolare ai salari nominali e reali[2]. A tal fine, applicheremo modelli strutturali autoregressivi vettoriali (SVAR) ai dati trimestrali relativi al periodo 1960-2019 per Giappone, Regno Unito e Stati Uniti. Il Modello 1 [W-GDP-P-i-REER] include i salari nominali (W), il prodotto interno lordo reale (GDP), il deflatore del PIL (P), i tassi di interesse a breve termine (i) (che si ipotizza reagiscano ad aumenti dei prezzi), e il tasso di cambio effettivo reale (REER), così da considerare l’influenza delle variazioni del costo dei beni importati sui prezzi interni. In linea con la letteratura empirica sul meccanismo di trasmissione della politica monetaria, l’identificazione degli shock di politica monetaria avviene tramite la fattorizzazione di Cholesky.[3]

Successivamente, per affrontare la critica relativa all’omissione di variabili rilevanti (Castelnuovo e Surico, 2010) e verificare la robustezza dei risultati, il Modello 1 è stato ampliato nel Modello 2 [FGROWTH-FINF-W-GDP-P-i-REER], includendo misure relative alle aspettative di inflazione (FINF) e alle aspettative di crescita economica (FGROWTH).[4]

I risultati, presentati nella Tabella 1 e nella Figura 1, indicano che un aumento dei tassi di interesse provoca una risposta positiva dei prezzi in tutti e tre i paesi considerati, suggerendo l’effettiva presenza di un canale di costo della politica monetaria. Ciò avviene nonostante il contemporaneo apprezzamento del tasso di cambio reale, che dovrebbe avere un effetto deflazionistico dovuto al minor costo dei beni importati, e la simultanea contrazione del PIL, che potrebbe comportare un ulteriore impatto negativo sui prezzi. Pertanto, sebbene queste stime econometriche evidenzino l’esistenza di specifici canali, come quello estero e quello della domanda, in grado di spiegare una relazione negativa tra tassi di interesse e prezzi, sembra che il canale di costo prevalga nel determinare il meccanismo di trasmissione della politica monetaria ai prezzi nei tre paesi analizzati. Inoltre, un’analisi più approfondita della distribuzione del reddito mostra che uno shock monetario restrittivo genera una reazione positiva nei salari nominali, seguendo un pattern simile a quello dei prezzi. Questa risposta positiva dei salari può essere interpretata come il risultato di un processo inflazionistico alimentato dal conflitto distributivo tra lavoratori e capitalisti. Infatti, nel tentativo di contrastare l’impatto sui prezzi del canale dei costi, i lavoratori tendono a chiedere salari più alti per proteggere il loro potere d’acquisto (Stirati, 2001; Levrero, 2024). Tuttavia, nelle nostre stime, l’aumento dei salari nominali non riesce a compensare l’incremento dei prezzi, evidenziando l’impatto negativo delle politiche monetarie restrittive sui salari reali, sia per il canale di costo che prevale con riferimento al livello dei prezzi, sia per l’effetto negativo di tali politiche sull’occupazione tramite il canale della domanda, che indebolisce i lavoratori nelle loro richieste di incremento dei salari nominali.

Tabella 1. Valore massimo o di picco, medio e finale della risposta dei prezzi (P) e dei salari reali (WR) a uno shock di politica monetaria (i) normalizzato all’1%. Tra parentesi il trimestre in cui si verifica il picco e in grassetto i valori significativi al 68%.
Figura 1. Funzioni di risposta all’impulso delle variabili a uno shock di politica monetaria (i)nel modello 1. L’area ombreggiata rappresenta l’intervallo di confidenza del 68% e l’orizzonte temporale è pari a 20 trimestri.

Come mostrato nella Tabella 1 e nella Figura 2, e al contrario di quanto argomentato da Castelnuovo e Surico (2010), l’impatto positivo delle politiche monetarie restrittive sui prezzi persiste nei tre paesi analizzati anche quando si includano nella analisi diverse misure di aspettative, determinando anche in tal caso uno spostamento duraturo nella distribuzione del reddito sfavorevole ai lavoratori in Giappone, Regno Unito e Stati Uniti.

Figura 2. Funzioni di risposta all’impulso delle variabili a uno shock di politica monetaria (i)nel modello 2. L’area ombreggiata rappresenta l’intervallo di confidenza del 68% e l’orizzonte temporale è pari a 20 trimestri.

Contestualizzando i nostri risultati, possiamo dedurne diverse implicazioni per l’attuale strategia delle banche centrali basata sull’inflation targeting. La rilevanza del canale di costo pone serie sfide al controllo dell’inflazione da parte delle autorità monetarie, con il rischio, almeno nel breve periodo, di effetti perversi derivanti da politiche monetarie restrittive, che potranno protrarsi nel tempo tanto maggiore è la capacità di reazione dei lavoratori e delle loro organizzazioni al maggiore incremento dei prezzi che quelle politiche potranno determinare. Inoltre, le nostre stime evidenziano l’importanza di considerare gli effetti distributivi della politica monetaria. L’evidenza suggerisce che le politiche monetarie restrittive abbiano un impatto negativo permanente sulla posizione distributiva della classe lavoratrice, causando una diminuzione duratura dei salari reali. Questo contraddice l’idea di neutralità della politica monetaria nel lungo periodo, evidenziando la necessità di una maggiore attenzione alle conseguenze sociali ed economiche di tali politiche.


Bibliografia

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[1] Nel caso di profitti normali di impresa non uniformi, il termine (1+r) nel sistema dei prezzi dovrà essere sostituito da una matrice diagonale  con elementi sulla diagonale principale dati da (1+i+npj), con npj i profitti normali di impresa specifici ad ogni settore j. Il sistema dei prezzi sarà in tal caso p = AΩp + lw .

[2] Sebbene il quadro teorico appena descritto si basi sull’assunzione di una modifica permanente nelle condizioni di politica monetaria, sintetizzabile in un cambio di regime, come avvenuto, ad esempio, con l’esperimento statunitense di Volcker, è opportuno sottolineare che le attuali tecniche econometriche non consentono ancora di determinare con chiarezza l’effetto causale di tali interventi permanenti. In assenza di ciò, non si può escludere che le variazioni dei tassi di interesse decise dalle banche centrali, definite shock di politica monetaria, possano essere completamente assorbite dopo un certo periodo di tempo, perdendo così la loro natura permanente. Per quanto per questo sarebbero necessarie ulteriori ricerche per identificare gli effetti sul livello dei prezzi e sulla distribuzione del reddito di cambiamenti nei regimi di politica monetaria, osserviamo comunque che nei nostri esercizi econometrici lo shock di politica monetaria permane positivo fino a 20 trimestri, in particolare negli Stati Uniti e nel Regno Unito (si vedano le figure 1 e 2).

[3] Tuttavia, per la strategia identificativa di Cholesky, l’ordine delle variabili è rilevante (Christiano et al., 1999). La prima variabile è quella più esogena nella relazione contemporanea, mentre l’ultima è la più endogena (per applicazioni simili si vedano Bernanke e Gertler, 1995, e Castelnuovo e Surico, 2010). Lavorando con dati trimestrali, includiamo una costante e 4 ritardi in ogni modello. 

[4] I tassi di interesse (i), che rappresentano lo strumento di politica monetaria, sono stati scaricati dai siti delle banche centrali nazionali e corrispondono rispettivamente al Discount rate per il Giappone, al Bank rate per il Regno Unito e al Federal Funds rate per gli Stati Uniti. In ogni specifica del nostro modello, includiamo il PIL reale (GDP) e il deflatore del PIL (P), entrambi scaricati dal sito dell’OCSE. Per quanto riguarda i salari nominali (W), per gli Stati Uniti e il Giappone utilizziamo i salari orari manifatturieri forniti dall’OCSE, mentre per il Regno Unito i dati provengono dal dataset della Bank of England. Seguendo Cantore et al. (2021) e Christiano et al. (1999, 2005), in un terzo modello abbiamo valutato anche l’effetto della politica monetaria sui salari reali (WR), ottenuti deflazionando i salari nominali con il deflatore del PIL. Per motivi di spazio, non riporteremo le risposte all’impulso di questo modello, ma includeremo solo alcuni valori nella tabella 1. Il tasso di cambio reale effettivo (REER) è stato prodotto dal Bruegel Institute (Darvas, 2021): un suo incremento indica un apprezzamento della valuta nazionale rispetto a un paniere di valute internazionali.
In linea con la letteratura sul price puzzle, abbiamo dedicato particolare attenzione alla ricerca di serie storiche sull’inflazione attesa (FINF) per il periodo considerato in questa analisi. In particolare, le serie giapponesi e statunitensi provengono dalle previsioni sull’inflazione contenute negli Economic Outlook dell’OCSE, mentre per il Regno Unito sono stati utilizzati i dati sulle previsioni di inflazione fornite dal NIESR. Il nostro dataset è stato arricchito con una misura delle attese sul tasso di crescita del PIL (FGROWTH), anch’essa contenuta negli Economic Outlook dell’OCSE e disponibile per tutti i paesi analizzati.
Ad eccezione dei tassi di interesse, delle aspettative e dei salari reali, tutte le variabili sono state trasformate in forma logaritmica.

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