“Non possiamo avere una cura che sia peggiore del male. Le persone rischiano di morire più per le conseguenze delle restrizioni alle attività economiche che per il virus”. Così twittò Donald Trump lo scorso 24 marzo, insistendo sulla necessità di riavviare subito l’attività economica negli Stati Uniti nonostante la crescita esponenziale dei contagi da covid-19. Trump è poi tornato altre volte sulla questione evocando lo stesso macabro dilemma politico: le quarantene e i distanziamenti sociali scatenano una crisi economica così violenta che potrebbe provocare una quantità di morti anche superiore alle vittime che il coronavirus farebbe in assenza di restrizioni. A suo avviso, cioè, esiste un “trade-off” tra vittime del virus e vittime della crisi, e c’è il rischio che le seconde soverchino le prime. In questi giorni concitati il macabro “trade-off” trumpiano riaffiora di continuo, trovando adepti numerosi e influenti: ad essa si sono accodati l’Economist, importanti spezzoni delle confindustrie di mezzo mondo, un’ampia varietà di politici e intellettuali, qualche virologo di punta e lo stesso Boris Johnson prima di finire in ospedale. Più in generale, il dilemma evocato da Trump induce anche tanti cittadini a domandare se la strategia dei confinamenti in casa sia razionale o finirà per provocare più danni che benefici.
Si pone dunque con urgenza il seguente interrogativo: il “trade-off” trumpiano tra vittime del virus e vittime della crisi è fondato? Ha solide basi scientifiche? E’ chiaro che la questione sarà decisiva per le scelte politiche che si prenderanno nei prossimi mesi. Proviamo allora noi in quel che segue a sottoporre a una prima verifica il terribile dilemma evocato da Trump.
In primo luogo, dalla letteratura dedicata all’impatto delle recessioni economiche sulla mortalità della popolazione, in generale emergono correlazioni di segno opposto rispetto a quella evocata da presidente americano e dai suoi epigoni. Nelle fasi di crescita economica i lavoratori hanno meno tempo da dedicare ad attività salutari o a visite mediche di routine; aumentano i problemi di salute associati a malattie cardiovascolari; cresce lo stress legato a tassi di migrazione verso le aree urbane e a ritmi di lavoro più intensi, specialmente in caso di maggiori pressioni lavorative o orari di lavoro più lunghi durante espansioni economiche brevi e intense; aumentano gli infortuni sui luoghi di lavoro e le malattie legate al lavoro; possono diminuire i controlli di sicurezza in rapporto all’attività e può aumentare l’inquinamento ambientale a danno dei lavoratori. L’intensificazione dell’attività lavorativa risulta dunque correlata all’aumento dei morti, in primo luogo per incidenti sul lavoro e per malattie professionali ma più in generale per malattie cardiovascolari, polmonite, neoplasie, malattie epatiche, mortalità infantile e neonatale, eccetera. Dagli studi in materia, dunque, si evince che i tassi di mortalità della popolazione tendono ad aumentare durante le espansioni economiche e a ridursi in periodi di più elevata disoccupazione. Questi risultati sono di carattere generale, confermati per vari paesi, per diversi periodi di tempo esaminati, per più tipologie di dati considerati e anche esaminando singolarmente i diversi casi di decesso (Eyer, 1977; Ruhm, 2000; Gerdtham e Ruhm, 2002; Ruhm, 2003; Neumayer, 2004; Tapia Granados, 2004, 2005; Tapia Granados e Roux, 2009). E’ vero che per gli anni più recenti la relazione positiva tra crescita economica e mortalità risulta meno accentuata, ma resta comunque statisticamente significativa e in ogni caso mantiene lo stesso segno e non assume mai il verso opposto evocato da Trump (Stevens et al., 2011; Ruhm, 2015). Infine, è importante notare che nell’eventualità di crisi di maggiore entità come la grande depressione degli anni ’30 e la grande recessione del 2007-09, la correlazione con il calo dei tassi di mortalità risulta ancora più marcata rispetto alle fasi ordinarie del ciclo economico (Tapia Granados, 2005; Van Gool e Pearson, 2014; Toffolutti e Suhcke, 2014; Ruhm, 2015b).
In sintesi, possiamo affermare che nel corso di fluttuazioni ordinarie dell’economia si rileva che per ogni aumento di un punto percentuale della disoccupazione il tasso di mortalità registra fino a mezzo punto percentuale di riduzione, e che durante le grandi crisi la mortalità può segnare fino quasi a un punto e mezzo percentuale di caduta. Dunque, per quanto possa sembrare controintuitivo, non è la recessione ma è la crescita capitalistica che fa più morti. L’esistenza del “trade-off” evocato da Trump risulta pertanto smentita dalle analisi sugli andamenti generali dei tassi di mortalità.
Sussiste però un’eccezione: la recessione economica risulta statisticamente associata a un incremento dei suicidi. Significativi aumenti dei suicidi nelle fasi di crescita della disoccupazione si registrano in un numero elevato di paesi, soprattutto dove carente è il welfare e scarse sono le protezioni normative a tutela dei lavoratori (Stuckler et al., 2009; Norström e Grönqvist, 2015). La crisi del 2007-09 rappresenta in questo senso un rilevante caso di studio, con aumenti particolarmente accentuati del tasso dei suicidi e dei tentativi di suicidio (Chang et al., 2013; Harper e Bruckner 2017).
Studio | Paesi | Periodo | mortalità totale | Suicidi |
Ruhm (2000) | USA | 1972-91 | -0,50% | +1,30% |
Gerdtham, Ruhm (2004) | 23 OECD | 1960-97 | -0,40% | +0,40% |
Tapia Granados (2005) | Spagna | 1980-97 | -0,30% | +0,50% |
Stevens et al. (2011) | USA | 1978-91 | -0,40% | |
1978-06 | -0,19% | |||
Van Gool, Pearson (2013) | 34 OECD | 1997-01 | -0,18% | +0,52% |
Ruhm (2015a) | USA | 1976-95 | -0,04% | +0,41% |
1991-10 | -0,10% | +1,71% | ||
Ruhm (2015b) | USA | 1989-13 | -0,30% | +1,30% |
Grandi Crisi | -1,40% |
Variazioni statisticamente significative dei tassi di mortalità totali e dei tassi di suicidi in relazione a un aumento di un punto percentuale dei tassi di disoccupazione
A ben guardare, tuttavia, gli ordini di grandezza dei suicidi rispetto alle vittime del covid-19 appaiono così diversi da rendere difficilmente giustificabile qualsiasi tentativo di paragonare i due fenomeni. Un banale “back of the envelope calculation” può aiutare a chiarire i termini della questione. Prendiamo come riferimento il dato più estremo disponibile, ossia il più favorevole alla tesi di Trump: ogni aumento dell’1% della disoccupazione è correlato con un aumento del tasso dei suicidi dell’1,71% rispetto al loro andamento medio annuo. A titolo di esempio, immaginiamo poi che a causa della politica delle quarantene e dei distanziamenti sociali si verificherà nel 2020 un colossale aumento medio della disoccupazione, nell’ordine dei dieci punti percentuali. Prendendo come riferimento i dati OECD sulla media dei suicidi dell’ultimo decennio disponibile – in Italia una media di 4015 all’anno tra il 2006 e il 2015 e negli USA una media di 39841 annui tra il 2007 e il 2016 – possiamo azzardare che l’ipotetico incremento di dieci punti della disoccupazione sarebbe associato a 660 suicidi in più in Italia e a 6900 suicidi in più negli Stati Uniti. Confrontiamo ora queste stime con un altro scenario del tutto ipotetico, quello in cui nessuna quarantena si attui e quindi nessuna crisi economica si verifichi. Supponendo sempre a titolo di esempio che in tal caso il 50% della popolazione totale sarebbe rapidamente contagiato e immaginando un tasso di mortalità del virus dello 0,5% totale, possiamo ipotizzare che si avrebbero 150 mila morti in Italia e 825 mila negli Stati Uniti. Confrontando le cifre, è facile rendersi conto che l’incremento dei suicidi causato da una grande crisi economica si situa al di sotto dell’uno percento delle vittime che il virus farebbe nel caso di una pandemia fuori controllo. E il tutto senza tener conto che le altre cause di morte tenderebbero a declinare.
Ovviamente, questo è un calcolo estremamente rozzo, utile solo come primissima approssimazione. Può essere raffinato sia dal lato epidemiologico che economico, approfondendo con gli esperti in materia le stime sui contagi e sulla mortalità del covid-19, indagando in modo meno grossolano sulla correlazione tra le strategie di contenimento del virus e l’aumento della disoccupazione, esaminando più in dettaglio i nessi tra disoccupazione e suicidi, e così via. Tuttavia, pare evidente che nessun raffinamento delle stime potrebbe mettere in discussione che gli ordini di grandezza dei due fenomeni sono comunque troppo diversi: anche immaginando un boom della disoccupazione senza precedenti, l’aumento conseguente dei suicidi sarebbe in ogni caso una frazione minima delle vittime che scaturirebbero da una pandemia fuori controllo, il tutto sempre senza contare che le altre cause di morte si muoverebbero in controtendenza rispetto al trade-off immaginato da Trump. Possiamo insomma affermare che quella di Trump e dei suoi epigoni è una lugubre bufala: i morti causati da un virus fuori controllo sarebbero enormemente di più dei morti causati dalla crisi economica.
La bufala di Trump e dei suoi epigoni ovviamente non è casuale. In apparenza sembra voler suscitare il sentimento eroico dell’umanità, esortata a misurarsi a viso aperto con una ineluttabile selezione naturale in base all’idea tragica che i morti ci sarebbero nell’uno come nell’altro caso. La verità tuttavia è un’altra ed è meno edificante. Il falso “trade-off” di Trump riflette quel coacervo di interessi prevalenti che mira a rilanciare al più presto l’accumulazione di capitale e la formazione del profitto. C’è da temere che questi interessi punteranno a fare ripartire la produzione ben prima che le condizioni di salute dei lavoratori e della cittadinanza saranno garantite, col serio pericolo di provocare un nuovo boom di contagi e di vittime soprattutto tra i lavoratori e tra le classi subalterne. Nelle prossime settimane sarà bene dunque non lasciarsi sedurre da queste narrazioni interessate, che come abbiamo visto si fondano su un “trade-off” privo di riscontri scientifici.
Tutto questo però non può nemmeno significare che dobbiamo limitarci a restare chiusi in casa ripetendo religiosamente che “andrà tutto bene”. Noi siamo tra le cassandre che fin dall’inizio hanno messo in chiaro che le quarantene e i distanziamenti sociali potrebbero dar luogo al più grande tracollo economico nella storia del capitalismo. Anche se in quanto tale non accresce il tasso di mortalità, questa grande crisi economica sconvolgerà gli assetti sociali e devasterà comunque la vita di decine di milioni di persone. Per affrontare in modo razionale questa immane tragedia occorre allora comprendere che il covid-19 sta lanciando all’umanità una sfida di sistema. Sono sotto i nostri occhi i danni che sta provocando un trentennio di cultura liberista prevalente: meccanismi decisionali scoordinati, conflittuali, dominati dalla competizione privata e dalla speculazione, che governano i mercati e ormai invadono anche le istituzioni pubbliche, in ambito sanitario e non solo. Questo sistema andrebbe cambiato profondamente, in base a quello che abbiamo definito un piano “anti-virus”: ovvero, una logica di pianificazione pubblica che parta dalla sanità per estendersi a tutti i settori in cui il mercato privato sta sistematicamente fallendo (Brancaccio, Realfonzo, Gallegati, Stirati 2020). La pianificazione pubblica, tra l’altro, è anche l’unica garanzia per coordinare gli sforzi della comunità scientifica internazionale e far progredire più rapidamente la ricerca contro il virus, che invece Trump e i suoi epigoni vorrebbero ancora tenere al guinzaglio delle potenze private del settore (Brancaccio e Pagano 2020).
Una logica pubblica di piano, insomma, è l’unico livello a cui dovrebbe situarsi l’azione politica per superare contestualmente sia la crisi sanitaria che la crisi economica. Speriamo che lo si terrà a mente quando, favoriti dal dilagare della miseria e della disperazione sociale, i megafoni delle forze sociali dominanti rievocheranno la bufala di Trump per convincerci che in fondo si muore comunque, e per indurci così a un rapido ritorno al “business as usual”, a macinare capitale e profitti senza badare troppo alla salute dei lavoratori e della cittadinanza.
Riferimenti bibliografici
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