A causa del lockdown dovuto all’emergenza CoVID-19, le stime sulla crescita economica italiana per il 2020 vengono riviste continuamente al ribasso da istituzioni nazionali ed internazionali. Si tratta di cifre a cui non siamo affatto abituati: il Fondo Monetario Internazionale prevede una riduzione del 9,1%, la Commissione europea del 9,5% e l’Ufficio Parlamentare di Bilancio italiano del 15%. Questo vuol dire che gli italiani non devono fare i conti solo con una terribile e drammatica emergenza sanitaria, ma anche con problemi di ordine economico sia oggi e sia nel futuro. È per questo che, oltre ad un’accurata strategia sanitaria, abbiamo bisogno anche di un’oculata politica economica di lungo respiro che tenga conto sia degli effetti del lockdown e sia dei processi comunque già in atto nell’economia globale.
Con questo articolo vogliamo quindi porre l’attenzione sul concetto di riconversione, più che sulla semplice riapertura, e con particolare riferimento a quella che riteniamo essere una delle trasformazioni chiave della futura ripresa economica globale, anche di lungo periodo: la trasformazione digitale. Proprio in questi giorni, infatti, anche la Commissione europea fa sapere che la conversione digitale è tra i punti cardine del proprio Recovery Plan e, tenendo conto soprattutto delle specificità dell’economia italiana, in questo articolo proviamo a delineare alcune direttrici che riteniamo fondamentali.
Contesto macroeconomico
La distruzione creatrice di schumpeteriana memoria generata dall’innovazione digitale era in atto prima del lockdown globale, ma le condizioni attuali hanno impresso una considerevole accelerazione a questo processo. Come sempre accade, infatti, l’innovazione porta con sè anche una conseguente conversione nella composizione della domanda che, in questo caso, viene ulteriormente accelerata dal lockdown come conseguenza di divieti, di modalità di accesso ai servizi divenute improvvisamente esclusive, nuove abitudini destinate verosimilmente a perdurare, e così via.
Il tessuto produttivo italiano si trova fortemente impreparato dinanzi ai nuovi scenari. Secondo l’Indice di digitalizzazione dell’economia e della società (DESI) della Commissione europea (European Commission 2019), l’integrazione delle tecnologie digitali da parte delle imprese è decisamente lontana dalla media europea (con un indice pari a 32,3 contro una media di 41,1).
Come si legge dal rapporto (costruito su dati 2017-18), infatti, solo il 10% delle piccole e medie imprese (PMI) vende online (contro una media UE del 17%), solo il 6% effettua vendite transfrontaliere (UE 8%) e solo il 7% fa uso di Big Data (UE 12%). Le pubbliche amministrazioni italiane, al contrario, sono quasi in linea con la media UE (con un indice di 58,7 contro una media di 62,9), grazie soprattutto agli Open Data, al livello di completezza dei servizi online e anche grazie proprio ai servizi digitali pubblici offerti alle aziende.
Temiamo quindi che, in assenza di un rivoluzionario intervento pubblico, la ripresa sarà considerevolmente più dura per il tessuto produttivo italiano, già fortemente in ritardo su questo fronte, con gravi conseguenze di carattere sociale e macroeconomico, soprattutto nel lungo periodo. Alcuni economisti considerano infatti la trasformazione digitale addirittura il motore di un contemporaneo ciclo economico alla Kondratiev, che segnerebbe quindi un vero e proprio cambio di paradigma per l’economia globale (cf. Malecki e Moriset 2008).
Ad ogni modo, dal punto di vista macroeconomico, se l’economia italiana dovesse continuare ad operare lontano dalla frontiera innovativa, in futuro non potrà che dipendere sempre di più dalle importazioni dall’estero per fornire le tecnologie e servizi necessari alla nuova domanda di pubbliche amministrazioni, imprese e cittadini (cf. Dosi, Pavitt e Soete 1990 e Lucarelli e Romano 2017, già recensiti su eep a questo link). Il segreto dell’innovazione è dunque cruciale ed ha carattere strategico per l’economia nazionale. Questo segreto non giace ovviamente nelle maglie del libero mercato concorrenziale e non si rivela neanche in sterili incentivi pubblici all’impresa privata, ma si estrinseca nella capacità dello Stato di guidare e governare simili processi (cf. Mazzucato 2013).
Politiche per la digitalizzazione in Italia Post Covid-19
In una situazione come quella che stiamo vivendo, in cui alcuni servizi digitali sono diventati beni essenziali e tanti altri sono destinati ad espandersi, e per tutte le ragioni esposte in precedenza, crediamo che l’economia digitale debba essere anche oggetto di pianificazione pubblica. Dopo grandi eventi traumatici, come ad esempio i conflitti bellici del secolo scorso, gli Stati nazionali in passato hanno avviato grandi opere di infrastrutturazione, di programmazione politico-economica nell’interesse nazionale e vere e proprie nazionalizzazioni delle industrie più strategiche. Nel XXI secolo, l’intervento pubblico – sia nella forma di indirizzo delle attività private e sia nella forma di controllo diretto – deve quindi riguardare anche le piattaforme digitali, la raccolta dei Big Data e la ricerca di base del settore.
A nostro parere, quattro devono essere le direttrici di un’azione pubblica in tal senso, riassumibili in quattro parole d’ordine: infrastrutture, incentivi, regolamentazioni e grandi aziende pubbliche.
Con riferimento alla prima direttrice, riteniamo che una quota importante della spesa pubblica in investimenti debba essere orientata alla infrastrutturazione digitale di tutta la penisola, con l’obiettivo di superare definitivamente il digital divide e fornire quindi al sistema produttivo adeguate condizioni ambientali e mercati locali in espansione.
Riguardo la seconda direttrice, riteniamo che sia necessario incentivare una sana riconversione del tessuto produttivo nazionale. I nuovi sussidi e gli incentivi alle imprese non devono infatti essere erogati a pioggia e indistintamente, ma una quota importante di essi deve essere prevalentemente condizionata e orientata ad investimenti digitali e in formazione per le aziende operanti in quei settori dove vi è margine di riconversione. Le possibilità di azione da questo punto di vista sono decisamente estese considerando che, come ci spiega l’ISTAT, tra le imprese con almeno 10 dipendenti ben l’86% non investe in campi riconducibili alla cosiddetta Industria 4.0 e che solo il 16,9% di esse forma in ICT i propri dipendenti (ISTAT 2018). Si pensi che, ancora oggi, quasi un terzo di esse non ha neanche un sito web. Ricordando che le rilevazioni ISTAT sono ovviamente precedenti al lockdown, temiamo che molte di queste aziende abbiano infatti trovato difficoltà enormi e forse insuperabili dinanzi all’accelerazione dell’espansione dell’economia digitale a cui stiamo assistendo in seguito allo scoppio della pandemia.
La regolamentazione costituisce invece la nostra terza direttrice. Riteniamo fondamentale una nuova e più capillare regolamentazione del settore delle piattaforme digitali, a partire dalla regolamentazione di un mercato del lavoro finora estremamente frammentato e precario. Come spiegano Dube et al. (2018), infatti, grazie ad una posizione monopsonistica, le piattaforme digitali riescono ad imporre anche salari molto bassi pur preservando un’offerta di lavoro consistente.
A titolo d’esempio, concentrandoci sui lavoratori della gig economy in Italia, secondo le rilevazioni della Fondazione Debenedetti pubblicate nel XVII Rapporto annuale INPS, coloro che svolgono la gig come unica attività lavorativa percepiscono una media di soli 570 euro al mese circa e, proprio per la natura delle prestazioni svolte, la loro retribuzione può variare addirittura dai 6 ai 1500 euro (INPS 2018). E’ possibile invece regolamentare anche queste forme di lavoro che sembrano sfuggire ai tradizionali meccanismi del mercato del lavoro, come dimostrano ad esempio le proposte di tecno-regolamentazione delle labour platforms (cf. De Minicis et al. 2019).
Quarta fondamentale direttrice: l’istituzione nel lungo periodo di una grande azienda pubblica che competa nell’economia delle piattaforme digitali. Come ha dimostrato l’emergenza Coronavirus, al giorno d’oggi alcuni servizi digitali – come quelli offerti ad esempio dalle logistic platforms come Amazon e dalle work platforms come Delivaroo – possono assumere la natura di veri e propri servizi essenziali e, di conseguenza, non possono che rientrare anche nella sfera pubblica.
Inoltre, la gestione diretta delle piattaforme digitali permette l’estrazione di una moderna materia prima preziosa: i dati degli utenti. Attualmente, le grandi piattaforme gestiscono grandi quantità di dati – i cosiddetti Big Data – con vantaggi consistenti in termini di conoscenza, contenimento dei costi e riduzione delle asimmetrie informative. Una serie di vantaggi che possono costituire preziose opportunità anche e soprattutto per l’intera macchina amministrativa pubblica. Forme simili di intervento pubblico nell’economia digitale, di carattere nazionale o sovranazionale, sono state proposte dall’economista Nick Srnicek (2018) e dai ricercatori del Forum Disuguaglianze Diversità coordinato dall’ex ministro Fabrizio Barca. Una simile realtà pubblica avrebbe ovviamente, nella nostra visione, anche la mission strategica di investire in ricerca e sviluppo, orientare i mercati e governare i cambiamenti tecnologici.
innovazione pmi: mission e pratiche di una piattaforma digitale pubblica
differenza fra Amazon e Alibaba e innovazione nelle pmi italiane
Seguendo, ad esempio, la strategia della Repubblica Popolare Cinese nel settore, un’azienda “pubblica” potrebbe assistere l’economia locale in modo simile a come fa Alibaba in Cina. La strategia della geolocalizzazione della vendita di Alibaba è ad esempio estremamente differente da quella dei competitors privati. Alibaba vende “per conto di”, e possiamo intenderla come una gigantesca piattaforma marketplace dove tutte le aziende possono vendere traendo giovamento proprio dalla spinta di questa azione corale.
Piattaforme digitali private come Amazon, al contrario, vendono “per conto di” sono dei distributori, ma, allo stesso tempo, cercano di conquistare fette di mercato con il proprio marchio, esattamente negli stessi mercati delle aziende presenti nella piattaforma. Esempio calzante è il recente lancio sul mercato di ben due differenti marchi nel settore arredo, come sfida ad Ikea e ad altri grandi colossi del settore (Forbes 2019).
Grazie all’analisi dei Big Data – che ancora oggi sono accessibili a pochi grandi oligopolisti per il loro costo e per il costo della loro analisi – difficilmente un’operazione simile è destinata fallire.
Amazon ha infatti acquisito, attraverso il motore di ricerca interno, dati come: gusti, periodo di ritorno all’acquisto, caratteristiche di ogni iscritto. Queste notizie, sono state apprese durante gli anni proprio dalla vendita di prodotti di quelli che ora sono diventati suoi competitors o competitors dello stesso settore. Un discorso che, ovviamente, è estendibile a qualsiasi categoria di prodotto o servizio.
Come rafforza ulteriormente la sua posizione sul mercato Amazon? Tralasciando il discorso tasse, proprio con la geolocalizzazione sui motori di ricerca.
Eseguendo ricerche nei vari motori di ricerca, per tantissimi prodotti in qualsiasi località ci troviamo, è facile trovare Amazon tra le primissime posizioni (annunci a parte). Stando ai studi sul CTR (Click through rate), circa il 32% dei click da parte dei potenziali clienti viene effettuato nella prima posizione, e così via a decrescere arrivando a quasi zero nella seconda pagina. Se in una città presa a campione vi è un negozio di quartiere che vende un determinato prodotto, è comunque molto probabile trovare in una ricerca online Amazon piuttosto che il negozio sotto casa. Amazon è quindi una multinazionale con sede in ogni quartiere, anche se non ha di fatto una sede fisica in quella zona. Possiamo quindi definirlo un competitor invisibile per l’economia locale.
Sarebbe possibile creare una piattaforma di commercio elettronico pubblica dove, al contrario, sia lo Stato a virtualizzare il territorio allo scopo di tutelare e sviluppare strategicamente l’economia nazionale? Decisamente sì.
Torniamo un attimo in Cina. Sappiamo che ci sono restrizioni sulla ricerca di alcune keyword, e questo perché il governo ha imposto di eliminare dal database alcune parole non considerate utili. È possibile farlo anche nel piccolo, escludendo un’area o includendola per diversi fattori.
Ad esempio, è possibile escludere da una determinata area tutti i risultati di ricerca di aziende che non hanno la propria sede nell’area dove esiste il punto vendita (discorso semplice è la differenziazione tra sede legale e punto vendita, ufficio etc. dove viene erogato il servizio). Ancora meglio, è possibile abilitare un’azienda alla vendita in un’area non fornita di quel bene o servizio, magari di un’area in prossimità a quella di ricerca così da evitare enormi spostamenti.
Un processo simile aumenterebbe il volume di tasse versate all’interno delle casse dello Stato, genererebbe un controllo maggiore della qualità dei prodotti e di tutta la filiera (made in Italy o EU o extra europea) e un potenziamento di tutti i servizi, quali consegna, pagamenti, giacenze, import e export, con la possibilità di stanziare fondi per lo sviluppo di tutto il sistema di gestione centralizzato. Così facendo, le imprese italiane avranno al loro fianco un sistema di gestione del mercato interno anche sul web.
Francesco Russo è eCommerce Manager e consulente per la digitalizzazione aziendale, SEO analyst per EeP.
Angelantonio Viscione è Funzionario pubblico e dottore di ricerca in Economia Politica. Le opinioni espresse nell’articolo sono responsabilità dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione dell’istituto di appartenenza.
Bibliografia
De Minicis M., Donà S., Lettieri N., Marocco M. (2019). Disciplina e tutela del lavoro nelle digital labour platform. Un modello di tecnoregolazione. INAPP WP.
Dube A., Jacobs J., Naidu S., Suri S. (2018). Monopsony in Online Labor Markets. NBER Working Paper No. 24416.
Dosi G., Pavitt K. e Soete L. (1990). The Economics of Technical Change and International Trade, New York University Press, New York.
European Commission (2019). The Digital Economy and Society Index (DESI). Available at: https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/scoreboard/italy.
INPS (2018). Alla frontiera del lavoro autonomo: la gig economy. In: XVII Rapporto annuale INPS, pp. 81-132. Available at: https://www.inps.it/docallegatiNP/Mig/Dati_analisi_bilanci/Rapporti_annuali/Inps_R.A._XVII_bassa.pdf
ISTAT (2018). Cittadini, imprese e ICT. Available at: https://www.istat.it/it/archivio/226240
Lucarelli S. e Romano R. Squilibrio. Squilibrio. Il labirinto della crescita e dello sviluppo capitalistico. Ediesse, Roma, 2017.
Malecki, E. J., & Moriset, B. (2008). The digital economy: Business organization, production processes, and regional developments. London: Routledge
Mazzucato M. (2013), The Entrepreneurial State. Debunking Public vs. Private Sector Myths. London: Anthem Press.
Srnicek N. (2018). The Social Wealth Fund: The Social Wealth of Data, Authonomy: 03: May / June 2018.