Il virus che uccide posti di lavoro
Il 2019 si è chiuso, secondo le statistiche ufficiali Istat, con un numero di occupati in Italia al massimo storico, pari cioè a circa 23,4 milioni di unità. Un aumento del livello che però non si è tradotto in una riduzione dei divari, né con gli altri Stati europei (l’Italia è penultima, prima della Grecia, per tasso di occupazione), nè tra il Nord ed il Sud del Paese.
Pur essendo il dato 2019 sul livello di occupazione molto recente, determina ormai, per l’emergenza sanitaria in corso e i connessi “lockdown”, soltanto un punto di partenza, un trampolino da cui buttarsi giù, senza sapere ancora di quanti metri è il salto.
Appena qualche settimana fa l’Istat ha rilasciato la nota mensile di marzo 2020 sull’andamento dell’economia italiana, con la quale offre il primo approfondimento sull’analisi di impatto economico del Covid-19, compreso quello sul mercato del lavoro.
Le misure di contenimento del virus stanno infatti creando uno shock che coinvolge sia l’offerta (si pensi alla sospensione delle attività delle imprese), sia la domanda (contrazione di consumi e redditi) e per comprendere nel modo più immediato qual è la direzione che sta prendendo il mercato del lavoro in Italia si ha a disposizione una fonte della statistica ufficiale che misura il grado di fiducia nel “futuro” da parte delle imprese.
La Figura 1 mostra infatti come per i prossimi mesi siano peggiorati i giudizi delle imprese sulle attese dell’occupazione in tutti i settori, specialmente quello manifatturiero e dei servizi di mercato.
Figura 1 Attese occupazione per settore di attività (dati destagionalizzati)
Fonte: Istat, anni vari
Inoltre l’Istat rilascia le prime previsioni sui dati occupazionali sulla base di due scenari, a seconda che il lockdown duri fino alla fine di aprile o alla fine di giugno.
Nel primo caso la contrazione del valore aggiunto coinvolgerebbe 385mila occupati (di cui 46mila irregolari) per un ammontare di circa 9 miliardi di euro di retribuzioni, nel secondo caso gli occupati coinvolti sarebbero poco meno di 900mila (di cui 103mila non regolari), per 20,8 miliardi di euro di retribuzioni.
Al momento tali previsioni non sono state regionalizzate pertanto, per un’analisi territoriale, ad oggi ci si può concentrare fino all’attimo prima dell’arrivo dello tsunami Covid.
Il divario Nord/Sud
Come prima anticipato, nel 2019 a livello nazionale si raggiunge il punto più alto dei livelli di occupazione registrati dal 1995. Tuttavia tale fenomeno è vero solo per una parte del Paese, il Centro-Nord, con una conseguente divaricazione del gap, in termini occupazionali, con il resto dell’Italia (Figura 2).
Nel Mezzogiorno infatti il dato 2019 si attesta poco al di sotto del 45%, un tasso sì in crescita, ma su livelli inferiori rispetto al periodo 2001-2008. Non solo, all’interno della stessa area meridionale ed insulare si riscontrano ampie differenze tra regioni (Figura 3), con l’Abruzzo che cerca di avvicinarsi alle dinamiche del Centro e con Calabria, Sicilia e Campania che in modo sufficientemente compatto viaggiano su livelli preoccupanti, quasi sempre inferiori al 45% lungo tutta la serie, con un crollo (meno del 40%) nel triennio 2013-2015.
Figura 2 Il tasso di occupazione totale (15-64 anni) in Italia, per ripartizione geografica, 1995-2019
Fonte: elaborazione IFEL-Dipartimento Studi Economia Territoriale su dati Istat, anni vari
Figura 3 Il tasso di occupazione totale (15-64 anni) nelle regioni del Mezzogiorno, 1995-2019
Fonte: elaborazione IFEL-Dipartimento Studi Economia Territoriale su dati Istat, anni vari
Le disuguaglianze territoriali in termini occupazionali sono evidenti ed è proprio il 2019 l’anno in cui si fanno più accentuate: il 45% del Sud ed Isole si scontra infatti con il 68% del Nord, con un differenziale pari a 23 punti percentuali. La Figura 4 descrive proprio l’andamento di questo delta tra i tassi di occupazione del Nord rispetto a quelli rilevati nel Mezzogiorno: un trend in costante e rapida crescita (ad eccezione di rari e davvero modesti “avvicinamenti”) che dimostra quanto la frattura territoriale si sia progressivamente ampliata negli anni. Nel 1995 infatti il gap tra i tassi di occupazione delle due aree ammontava ad “appena” 15 punti percentuali, una differenza che oggi suscita quasi nostalgia. Quello che succederà il prossimo anno, con un mercato del lavoro infettato da un virus per il quale ancora non esiste un vaccino, al momento è di difficile previsione, tuttavia il paradosso potrebbe riguardare – nel breve periodo – un effetto convergenza tra le aree causato dall’impatto più forte del Covid al Nord, dove si concentra il cuore produttivo del Paese.
Figura 4 Differenziale del tasso di occupazione totale (15-64 anni) tra Nord e Mezzogiorno, 1995-2019
Fonte: elaborazione IFEL-Dipartimento Studi Economia Territoriale su dati Istat, anni vari
Di certo, però, si tratterà di un effetto ottico che non cambierà la situazione di un Paese completamente spaccato a metà anche sulle dinamiche occupazionali da oltre venti anni, privo di qualsiasi politica industriale e di sviluppo capace di far registrare una qualche inversione di tendenza. Un effetto ottico che poco potrà sulle reali condizioni di vita delle persone che, invece, hanno già registrato, in un mese e mezzo di Covid-19, un forte peggioramento della loro quotidianità. E ciò perché quello che viene registrato è un delta occupazionale che non fotografa una situazione effettiva. Anzi questa fotografia dei dati conferma senza mezzi termini come una certa “pax sociale” lunga oltre venti anni sia stata di fatto sostenuta da una economia sommersa e di malaffare – oltre che da misure anticicliche prive di qualsiasi effetto sulla produttività (tipo reddito di cittadinanza) – molto più diffusa di quanto le statistiche ufficiali cerchino di cogliere. Un’economia a tutti gli effetti parallela che pervade ogni settore produttivo, dal primario al terziario, senza particolari differenze. E come se al mattino su un tot. di lavoratori che si svegliano per andare a lavorare buona parte di loro nel Nord Italia ci vanno effettivamente; nel Mezzogiorno d’Italia, invece, un’altrettanta buona parte – e non per le statistiche ufficiali – rimane a letto! Purtroppo con il Covid-19 è proprio quello che è successo: fine delle pax sociale.
Bisogna intervenire presto e le misure a sostegno del reddito che il Governo e Regioni hanno messo in campo, per qualcuna di queste ultime fortemente influenzate dalle prossime scadenze elettorali, sono un segnale importante ma per nulla condizionante la produttività Paese, ovvero la crescita occupazionale. Occorre ripensare l’Italia imparando dall’emergenza: investimenti pubblici e privati “agili”; disavanzo produttivo, ossia legato a scelte industriali strategiche capaci di incidere in dieci anni sul futuro lavorativo delle nuove generazioni; occupazione intelligente, ad esempio in servizi on line grazie alle nuove tecnologie, che abbia il coraggio di eliminare incrostazioni occupazionali e riconvertire intere generazioni di lavoratori abituati a timbrare il cartellino. In un mese e mezzo di Covid-19 proprio in materia di occupazione, in particolare nell’ambito dei servizi, abbiamo imparato più che in trenta anni di politiche attive del lavoro. Abbiamo imparato che la produttività non cala se non si sta fisicamente dietro una scrivania; abbiamo forse capito che in materia di lavoro ciò che conta non è tanto come si produce e dove si produce, ma soprattutto cosa si produce. Sarebbe bene ripartire da questo semplice, banale, assunto.
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