Nei giorni scorsi ha destato una certa attenzione l’ultima boutade di Tito Boeri e Roberto Perotti, due noti economisti dell’Università Commerciale L. Bocconi, i quali hanno dichiarato che “l’unico modo per migliorare le università italiane è premiare chi fa la ricerca migliore”, e che tuttavia “le tre Vqr non hanno contribuito a rendere più selettiva l’allocazione dei fondi pubblici alle università”[1].
A nostro avviso, ciò che emerge da questa proposta è un tentativo di utilizzare le politiche nazionali di valutazione della ricerca e distribuzione dei finanziamenti pubblici per accentuare le divergenze nelle dotazioni finanziarie degli Atenei (a vantaggio della stessa Università Bocconi). Ciò avviene nel momento in cui nel dibattito accademico iniziano a cadere molte certezze riguardo l’uso scriteriato della meritocrazia e la necessità di spingere i giovani studiosi che vogliono concorrere nelle posizioni accademiche a conformarsi sempre più a un profilo di ricerca standardizzato. Ad oggi, gli economisti che lavorano su campi di ricerca meno popolari e/o con metodi innovativi, comunque non riconducibili al mainstream neoclassico-liberista, hanno meno probabilità di essere abilitati per posizioni accademiche di alto livello, anche indipendentemente dai famigerati indicatori bibliometrici[2]. Si tratta di un esito che sembra confermare i timori espressi da Luigi Lodovico Pasinetti (classe 1930, uno degli economisti italiani più celebri nel panorama internazionale, per i suoi contributi riconducibili al paradigma sraffiano e post-keynesiano[3]) in dissenso con Guido Tabellini (Università L. Bocconi) a proposito della Relazione finale del Panel sull’Area 13 (Economics[4]). Ciò avvenne nel 2006 al termine del primo “esercizio di valutazione” richiesto dal Ministero per promuovere la sperimentazione di nuove metodologie di valutazione, a sostegno della qualità della ricerca scientifica nazionale (CIVR 2001-2003). Tabellini presiedeva il sotto-panel dell’Area 13 dedicato specificamente all’economics di cui faceva parte anche Pasinetti, il quale, esponendosi in modo inconsueto per il mondo accademico italiano, redasse un Nota di dissenso che venne allegata alla Relazione finale. Proponiamo qui di seguito, per la prima volta, la traduzione italiana della suddetta Nota, originariamente scritta in inglese[5].
La Redazione
Nota sui punti di dissenso
Luigi Lodovico Pasinetti
1. Introduzione: la posta in gioco
Sono giunto alla decisione di aggiungere questa nota sui punti di dissenso perché ritengo che la posta in gioco sia importante. Ci è stato chiesto di valutare la ricerca economica nel sistema universitario italiano. Per valutare qualsiasi cosa, si ha bisogno (consciamente o inconsciamente) di un punto di riferimento con cui confrontarsi – un metro di misura di ciò che si sta valutando. Per alcuni dei miei colleghi economisti questo benchmark esiste già. È ben identificato con quello che è dominante negli Stati Uniti e che sta diventando sempre più dominante anche nella maggior parte degli altri paesi. Questo è dovuto a una serie di circostanze storiche che hanno dato forza al sistema educativo statunitense (soprattutto a livello post-laurea) e lo hanno reso attraente per gli economisti che vengono a formarsi da tutto il mondo. Ma in questo modo il sistema statunitense è arrivato a fissare lo standard degli economisti professionisti quasi ovunque. Dice loro cosa è buona ricerca e cosa no.
Cosa c’è di sbagliato in questo modello? Niente, se non pretendesse di essere preso come se stesse fornendo il punto di riferimento per tutto, anche per quelle aree di ricerca economica che negli Stati Uniti non sono presenti, o sono considerate “marginali” (tornerò su questo termine più avanti). In questo modo, però, si cade in due gravi errori: uno nel breve, l’altro nel medio-lungo periodo. In primo luogo, stiamo chiedendo al benchmark statunitense di misurare qualcosa per cui non è appropriato. È come se pretendessimo (per prendere un’immagine sportiva) di valutare prestazioni di atletica leggera semplicemente concentrandoci sui 100 metri (dove, tra l’altro, gli USA sono molto forti!). In secondo luogo, su un arco di tempo più lungo, induciamo una trasformazione strutturale della ricerca economica altrove, per farla diventare esattamente come quella ora presente negli Stati Uniti. (Per continuare l’immagine atletica, niente 500 metri, niente 10.000 metri, niente maratone, ecc… solo i 100 metri, e poco altro).
Ma ci è stato chiesto di valutare la qualità della ricerca in Italia – non di aderire a un modello di ricerca economica dato dall’esterno. Si potrebbe obiettare che, se il modello statunitense è di gran lunga superiore a qualsiasi altro modello concepibile, allora i due obiettivi di fatto coinciderebbero. Ma non è affatto così. Penso che gran parte del successo della teoria economica dominante oggi (negli Stati Uniti) sia dovuto non ad una superiorità intrinseca, ma alla forza attuale dell’establishment universitario statunitense. Se, per assurdo, le circostanze storiche avessero portato una sola altra potenza mondiale a diventare quella dominante, ci saremmo ritrovati con una economia dominante del tutto diversa (non necessariamente migliore; probabilmente peggiore!) e sicuramente con un punto di riferimento molto diverso con cui confrontarsi. Questa storia controfattuale mi suggerisce almeno tre riflessioni:
in primo luogo, sono indotto a non fare troppo affidamento sulla teoria consolidata, soprattutto quando sono coinvolte le scienze sociali e le questioni politiche. (Durante i nostri incontri, ho inserito nell’archivio del CIVR un articolo, pubblicato su Nature, di Jayant Narlikar, un distinto astrofisico indiano, allievo e coautore di Fred Hoyle, anche lui professore al College de France, che, proprio in riferimento all’assegnazione dei fondi di ricerca, ha sostenuto la causa della protezione extra delle teorie non dominanti: in fisica! Quanto più rilevante deve essere il problema in economia!) Vorrei ricordare che la storia del pensiero economico ci ha può insegnare la rapidità con cui, dopo la pubblicazione della teoria dei vantaggi comparati di Ricardo, tutte le idee mercantiliste, che avevano dominato l’economia politica per alcuni secoli, furono spazzate via nel giro di pochi anni. Nel secolo scorso, quando le economie capitaliste caddero in un drammatico crollo negli anni ’30, fu sufficiente che un gruppo di brillanti economisti intorno a Keynes proponesse decisamente alcune misure di politica economica di buon senso, che tutto l’establishment economico dell’epoca aveva considerato assurde, per produrre la più grande “rivoluzione in economia” del XX secolo. Oggi potremmo essere vicini ad una svolta simile: l’economia neoclassica (cioè dominante) è in una fase critica, anche per ammissione di alcuni grandi economisti (si pensi a Samuelson e Arrow) che hanno contribuito alla sua affermazione. Nuovi eventi mondiali, come la “globalizzazione” e l’accelerazione della conoscenza tecnica, stanno generando seri dubbi sull’adeguatezza della teoria economica che stiamo ereditando. Questo sembra essere il momento sbagliato per rafforzare indebitamente il paradigma dominante che abbiamo.
In secondo luogo, in economia, ogni punto di riferimento è influenzato dalle condizioni istituzionali, geografiche e storiche in cui nasce. Ciò che può servire bene a un paese specifico che si trova in determinate condizioni in un dato momento, può non servire altrettanto bene ad altri paesi con tradizioni diverse, o agli stessi paesi in condizioni diverse e in evoluzione.
In terzo luogo, l’adozione estensiva di un benchmark, espressione di un sistema teorico dominante (ma inevitabilmente riduttivo), costringerebbe la ricerca attuale non solo a confrontarsi con lo standard dominante (il che va bene), ma anche – e questo sarebbe il suo effetto più pernicioso – a conformarsi ad esso, forzando un cambiamento strutturale nella composizione delle diverse discipline che costituiscono l’economia. Nel nostro caso specifico, in Italia, gli economisti hanno sì usato la matematica e l’econometria, come negli Stati Uniti, ma hanno anche fatto affidamento sulla storia e sull’analisi istituzionale, molto più estesamente che negli Stati Uniti. Perché gli economisti italiani dovrebbero rinunciarvi? Non credo proprio che si possano ottenere grandi miglioramenti semplicemente conformandosi in modo acritico al modello di ricerca statunitense; si rischia invece di distruggere la grande varietà della ricerca economica italiana (ed europea); ciò non significa, ovviamente, astenersi dall’avvalersi degli efficienti studi universitari e di ricerca statunitensi, ma non può significare rinunciare alle nostre migliori tradizioni; l’obiettivo di migliorare la qualità della ricerca economica in Italia non può comportare la distruzione della sua tradizionale varietà e ampiezza.
Posso ora passare ad esporre i miei dissensi su punti specifici
2. Sulla “relazione finale: Economics”.
Durante la stesura di questa “relazione”, ho presentato al nostro coordinatore (Tabellini) una mia bozza. Sono grato a Tabellini per aver accettato, in buona misura, un compromesso con i miei suggerimenti, inserendone alcuni nella prima parte della relazione, e assegnandomi esplicitamente alcuni paragrafi nella seconda parte della relazione.
Nonostante questo spirito di compromesso, alla fine non ero d’accordo con due punti (nella prima parte della relazione):
- Il primo punto è una frase introdotta in una fase tardiva della stesura; se mantenuta (cosa che avrei consigliato di non fare), avevo chiesto di aggiungere una nota in calce contenente una diversa interpretazione delle cifre fornite. La mia proposta è stata respinta a maggioranza dai membri del gruppo di economia.
La frase (pagina 1 della relazione finale, Economics) recita come segue:
“Per la stragrande maggioranza del restante terzo (i prodotti su cui il consenso non è stato raggiunto all’unanimità neanche nella seconda fase del processo descritto sotto), il consenso è stato negato da un panelist soltanto. Alla fine il consenso è stato negato da più di un panelist in solo circa il 5 % dei casi (25 prodotti, su circa 500 prodotti valutati dal gruppo di economia), sebbene concentrati su un’area in particolare.”
La mia nota (respinta) era la seguente:
“Luigi Pasinetti si è opposto all’aggiunta di questo paragrafo … e dissente dal messaggio conciliante che esso vuol lasciar trasparire. La sua versione è la seguente: non c’è stato alcun esito plebiscitario nel giudizio finale. Si sono creati, come si evince dalla seconda parte del rapporto, tre gruppi. Dehez e Fitoussi hanno concesso il consenso a tutti i prodotti. Pasinetti ha giudicato caso per caso, distribuendo consensi e non-consensi. Gros, Petretto e Tabellini [formando la maggioranza] hanno agito spesso in sintonia nella loro distribuzione dei consensi. Quindi il 95% dei consensi significa solo che Gros, Petretto e Tabellini alla fine hanno agito nella quasi totalità dei casi all’unisono.”
- Il secondo punto di disaccordo riguarda alcuni fatti sui quali sono stato coinvolto.
Lo stralcio di relazione contestato (vedi p. 5, punto e del rapporto finale: Economics) è il seguente:
“Nella riunione tenutasi a Roma il 17 ottobre si decise di delegare al presidente del panel (Peracchi) la proposta di un terzo referee, tenendo conto dei suggerimenti avanzati da parte dei panelist che volessero farlo. In quell’occasione, alcuni panelist (Dehez e Pasinetti) manifestarono perplessità e successivamente (insieme a Fitoussi) contestarono questa decisione perché, a loro avviso, essa metteva in discussione il ruolo del panelist a cui era stato originariamente assegnato il prodotto. In seguito a conversazioni con il Presidente del CIVR e d’accordo con il Presidente del Panel, il panelist Pasinetti ha pertanto proceduto a scegliere il terzo referee, motivando la sua scelta e discutendola con il presidente del panel, ma in alcuni casi discostandosi dalle proposte avanzate dal presidente del panel. Una volta raccolto il parere del terzo referee, il consenso è stato raggiunto all’interno del gruppo di economia per quasi tutti i prodotti; per i pochi prodotti su cui restava il dissenso anche dopo il parere del terzo referee, il consenso è stato raggiunto dall’intero panel.”
Avevo proposto di inserire una nota (respinta), dando la mia versione degli eventi, cioè:
“Pasinetti dissente da questa lettura. Dal suo punto di vista, i fatti, si sono svolti nel modo seguente. Nella riunione del 17 ottobre si è fatta una proposta, non votato una decisione. Di fronte alla concretizzazione della proposta nei giorni successivi di lasciare al Presidente Peracchi la scelta dei referee di “appello” si sono opposti (nell’ordine) Dehez, Fitoussi e Pasinetti, nel senso che doveva essere il “panelist in charge” ad avanzare una lista e gli altri panelist eventualmente a contestarla. Pasinetti ha esposto la sua lista dei referee nel messagge-box del CIVR. Il Presidente ha ricevuto altri suggerimenti via e-mail sui referee e ha stilato una sua lista iniziale (letteralmente) ignorando – a sua discolpa in modo non intenzionale – quella di Pasinetti. Quest’ultimo ha protestato e, dopo colloqui con i Presidenti del CIVR (Cuccurullo), e del Panel (Peracchi), si è giunti alla decisione che le designazioni fossero fatte dal “panelist in charge” (Pasinetti), dopo aver considerato i suggerimenti del Presidente Peracchi, lasciando comunque a quest’ultimo (e anche agli altri panelist) la possibilità di contestare le sue designazioni finali. Questa procedura è stata seguita alla lettera.”
Aggiungerò semplicemente che questa versione (rifiutata) è stata redatta dall’unico relatore del gruppo di economia che aveva vissuto personalmente l’evento. Gli altri 5 relatori (che hanno approvato la versione senza questa nota) avevano tutti appreso i fatti di seconda mano. Un esempio interessante di paradosso del voto a maggioranza.
3. Sulla “Relazione finale dell’Area 13”.
Tutto sommato, non trovo che il mio punto di vista – in quei luoghi in cui appare in questa Relazione – sia presentato in modo corretto. Durante la fase di redazione, ho inviato al nostro Presidente molte osservazioni che non sono state inserite nel Rapporto finale. Ecco un esempio di questi casi:
- durante la prima fase dell’esercizio CIVR, ci sono stati casi di non consenso alle sintesi di altri panelist sulle valutazioni dei referee. All’inizio avevo 20 prodotti bloccati in questa fase, molto più di qualsiasi altro panelist in tutta l’Area. Il rapporto presenta questo fatto nel modo seguente:
“Per questi prodotti [bloccati], le valutazioni date dagli esperti e la proposta di consenso dei Panelisti incaricati sono state messe in discussione da altri Panelist in quanto non del tutto coerenti con i criteri del CIVR”.
Mi dispiace sottolineare che sono stati effettivamente messi in discussione “in quanto non del tutto coerenti con la loro personale interpretazione dei criteri del CIVR”. Il corsivo è inserito per il suo alto significato. Qual era la loro interpretazione? La metterò all’estremo, per semplicità e chiarezza. Era la seguente: se l’articolo è pubblicato in una “top field journal” (secondo gli standard americani) è “eccellente”; se non è pubblicato lì, non può essere generalmente eccellente, e nemmeno “buono”. Può essere “accettabile” o più spesso “limitato”. Questo si è rivelato un caso quasi inevitabile, quando il prodotto in esame proviene da “aree marginali” (vedi sotto per questo termine). Un caso emblematico si è presentato alla fine: un prodotto di storia economica, pubblicato come libro italiano, è stato bloccato da alcuni panelist fino alla fine. Due stimati referee esterni, dopo aver letto il libro, lo avevano valutato entrambi come “buono”, e il panelist responsabile lo aveva confermato come “buono”. Ma alcuni panelist si sono opposti (sia ai due arbitri, sia alla sintesi elaborata dal panelist incaricato) sostenendo che il prodotto doveva essere declassato. I tre panelist che si sono opposti avevano quindi basato le loro valutazioni su un puro valore nominale di 10 righe di abstract o su alcune sfumature nelle relazioni dei referee – per un libro di 500 pagine, un lavoro di 4 anni! Il caso doveva essere risolto dal Presidente alla fine, “secondo saggezza e buon senso”, come gli ho scritto. Ma rimane il dubbio: l’opposizione era conforme ai criteri del CIVR o un’interpretazione molto personale di tali criteri?
- Il linguaggio è un segnale delle convinzioni personali. L’uso che viene fatto nella Relazione del termine “zone marginali” è rivelatore. Nella Relazione si legge[6]:
“Altri due panelist (Dehez, Fitoussi) hanno anche espresso preoccupazione per la possibile penalizzazione di alcune aree marginali”.
In realtà i due panelist hanno nominato queste aree come “aree specifiche”. Il termine “specifico” è stato quindi trasformato in “marginale”. È vero che non è giusto impiccare una persona per una parola. Ma il dubbio rimane: cosa sono queste aree marginali, e perché sono “marginali”?
Ho dato la mia timida interpretazione suggerita nell’ “Introduzione: la posta in gioco” di cui sopra.
- C’è poi un problema di natura ” è nato prima l’uovo o la gallina?”: Impact Factor vs qualità del prodotto. Il Rapporto recita:
“Un panelist (Pasinetti) sostiene che questa evidenza statistica rivela un chiaro bias verso i prodotti pubblicati in riviste con un IF”.
Per amor di giustizia non si tratta di “evidenza statistica”. Si tratta di un’evidenza documentata da fonti primarie grazie alla lettura diretta dei rapporti dei referee, prima di offrire (o negare) il mio consenso di panelist. I referee (due per ogni prodotto) hanno dovuto compilare le risposte a 4 domande diverse riguardanti:
qualità, pertinenza, originalità, internazionalizzazione. Casi come il seguente sono stati la prima causa del mio rifiuto al consenso (senza alcun effetto, essendo sempre in minoranza). Qualità del prodotto[7]: “Questo articolo è pubblicato in una rivista di settore di alto livello, l’IF della rivista è alto, quindi l’articolo è eccellente” o al contrario (sempre sulla qualità dell’articolo) “questo articolo è pubblicato secondo me in una rivista non seria [nel caso specifico di questa citazione era il Journal of Post Keynesian Economics], quindi la qualità è “limitata”. Notate che la valutazione a cui mi riferisco è sulla qualità, non sull’internazionalizzazione del prodotto! Il nostro Presidente sembra, alla fine, orgoglioso di scrivere:
“Il 40% dei prodotti pubblicati in riviste senza IF ha ricevuto un voto di “buono” o “eccellente”, e così circa il 20% dei capitoli di libri e circa il 25% dei libri.”
Se si fosse informato un po’ più a fondo su chi erano i panelist che lo avevano salvato dall’imbarazzo di trovare più chiaramente “quale fosse l’uovo e quale la gallina”, avrebbe forse trovato più simpatia per i panelist che prestavano più attenzione alle aree “marginali”.
- Non posso resistere a questo punto ad una parola di dissenso su una proposizione che segue di poco la precedente, nella Relazione:
“Altri panelist (Gros, Petretto, Tabellini) hanno invece sostenuto che esiste un ampio accordo tra la comunità scientifica internazionale sui criteri di valutazione di base, e che allontanarsi da quei criteri può portare all’autoreferenzialità e all’adozione di criteri che favoriscono indebitamente alcune aree marginali.”
Lasciando da parte le “aree marginali”, sulle quali ho già commentato, ciò che mi fa alzare le sopracciglia qui è la parola chiave “autoreferenzialità”. Ma l’Impact Factor stesso è tutto basato sull’autoreferenzialità! Vorrei chiedere: qual è il diverso grado di autoreferenzialità tra i referee, diciamo, del Cambridge Journal of Economics e tra quelli dell’American Economic Review? Posso ricordare che la teoria economica neoclassica è stata recentemente osteggiata da un movimento europeo di studenti (principalmente con sede in Francia, ma non solo) per essere una teoria autistica, cioè una teoria chiusa in se stessa.
- Una nota finale. La Relazione dice[8]:
“Un panelist (Pasinetti) sostiene che è difficile trarre conclusioni sui punti di forza e di debolezza della ricerca economica in Italia, a causa della diversità dei criteri e dell’eterogeneità delle diverse aree.”
In effetti, la presentazione della mia argomentazione è stata invertita. Il lettore può verificare da solo. Ho effettivamente tratto conclusioni specifiche. Alcune di esse sono riportate nella “Relazione finale: Economics”. Altre, più ampie, sono state date in una bozza e, per motivi di spazio, non sono state incluse. Ma dopo aver tratto tali conclusioni, ho sempre sottolineato la cautela sul loro significato, poiché tali risultati non erano robusti, nel senso che la rimozione delle valutazioni di un panelist (o meglio ancora di due panelist, entrambi interessati ad aree “marginali”) avrebbe prodotto risultati molto diversi.
4. Una nota conclusiva e un invito alla riflessione
Vorrei concludere con una nota più positiva. È chiaro che abbiamo avuto discussioni vivaci e forti disaccordi durante l’esercizio CIVR. Ma i forti disaccordi, quando sono fortemente fondati, non sono mai da temere. Quando le poste in gioco sono importanti, come nel nostro caso credo lo siano, è meglio accoglierle piuttosto che sopprimerle. Il disaccordo che è emerso tra noi – ne sono convinto – non riguardava tanto la valutazione di questo o quel particolare “prodotto”. Era più fondamentale. Riguardava la ricerca del corretto punto di riferimento con cui affrontare la ricerca economica. Il risultato dei nostri sforzi si materializzerà ora in una classifica apparentemente scarna, ed è tutto ciò a cui si presterà attenzione, poiché sarà importante per la distribuzione dei fondi di ricerca. Ma i sottoprodotti dei nostri sforzi possono essere a lungo termine ancora più importanti dei risultati materiali immediati. Valutare la ricerca nella nostra disciplina è un affare serio, da non prendere alla leggera. Soprattutto, deve essere fatto con la piena consapevolezza del fatto che ha il potere di plasmare il modo in cui la ricerca economica si svilupperà in futuro. Coloro che si preoccupano del futuro dell’economia dovrebbero discutere apertamente e responsabilmente i metodi appropriati per separare il grano dalla pula; considerare attentamente quali sono i loro vantaggi e svantaggi, in modo da evitare di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Questo rischio è tanto più alto quanto più forte è la teoria dominante e quanto più organizzate e rigorose sono le regole per la valutazione dei risultati. C’è poco da fare nell’immediato, ma dobbiamo esserne consapevoli e cercare di trovare tutte le precauzioni. Questa è la ragione per cui sono stato così determinato nell’esaminare gli obiettivi e le idee dei tentativi meno convenzionali, nei campi più ampi. Certo, si vorrebbe sempre vedere l’immaginazione e l’originalità presto e subito, ma non è spesso così; eppure, chi può essere sicuro dell’assenza di semi di possibilità future, che ora non si vedono? Ho trovato interessante che un eminente scienziato, l’astrofisico, che ho menzionato nella mia sezione introduttiva sopra, abbia posto questo problema nei termini più impegnativi; e abbia persino osato proporre – con tutte le precauzioni – alcuni accorgimenti per evitare di uccidere dall’inizio tutti i tentativi di ricerca potenzialmente fruttuosi in campi non convenzionali. Lo cito e lo prendo come un invito, per noi economisti, ad essere un po’ più umili, e ad imparare a riflettere.
Post scriptum (10 gennaio 2006)
Il Presidente Peracchi, dopo aver ricevuto questa “Nota sui punti di dissenso”, il 9 gennaio, ha cambiato due parole nella sua Relazione finale (che era stata data per chiuso e approvata il 31 dicembre). Sono quindi costretto ad aggiungere questo post-scriptum, per evitare l’impressione di fare citazioni inesatte.1) Il termine “marginale”, che avevo citato dal suo Rapporto (p. 5 di questa Nota) è stato trasformato in “specifico”. Grazie per questo. 2) Un aggettivo in più (“acuto”) è stato introdotto nel passaggio della sua Relazione che ho citato e criticato nel mio ultimo punto di dissenso (p. 6); cioè, cito: “Un relatore (Pasinetti) sostiene che è difficile trarre conclusioni” è stata ora trasformata in “….che è difficile trarre conclusioni nette”. Non si tratta di un miglioramento netto, ma va un po’ meglio rispetto alla versione precedente.
Traduzione dall’inglese di Stefano Lucarelli
Riferimenti bibliografici
Artoni R. (2007), Valutazione della ricerca e pluralismo in economia politica, Rivista Italiana degli Economisti, n. 2, 191-204.
Boeri T. e Perotti R. (2021), L’università italiana continua a non premiare la ricerca, lavoce.info, https://www.lavoce.info/archives/72920/luniversita-italiana-continua-a-non-premiare-la-ricerca/ .
Brancaccio E. and Garbellini N. (2018), Luigi Pasinetti on Disrupting Neoclassical Hegemony in Economics, Institute for New Economic Thinking. https://www.ineteconomics.org/perspectives/blog/luigi-pasinetti-on-disrupting-neoclassical-hegemony-in-economics
Corsi M., D’Ippoliti C., Zacchia G.(2019), Diversity of backgrounds and ideas: The case of research evaluation in economics, Research Policy, vol. 48(9).
Garegnani P. (2007), Sulla valutazione della ricerca economica, Rivista Italiana degli Economisti, n. 2, 177-190.
Lunghini G. (1998), Political Economy and Economics, in Kurz H. and Salvadori N., The Elgar Companion to Classical Economics, Chentelman: Edward Elgar.
Marshall, A. and M. P. (1879), The Economics of Industry, London: Macmillan
Pasinetti, L. (2007), Keynes and the Cambridge Keynesians: A ‘Revolution in Economics’ to be Accomplished, Cambridge University Press. Italian version: Keynes e i Keynesiani di Cambridge. Una ‘rivoluzione in economia’ da portare a compimento, Laterza, 2010.
[1] Cfr. Boeri e Perotti (2021).
[2] Cfr. Corsi, D’Ippoliti and Zacchia (2019).
[3] Cfr. in particolare Pasinetti (2007).
[4] Il termine economics è già di per sé rivelatore del trattamento che l’economia politica ha subito col passare del tempo all’interno della comunità accademica italiana. È di grande interesse la citazione proposta da Lunghini (1998): “The nation used to be called “the Body Politic”. So long as this phrase was in common use, men thought of the interests of the whole nation when they used the word “Political”; and then “Political Economy” served well enough as a name forthe science. But now “political interests” generally mean the interests of only some part or parts of the nation; so that it seems best to drop the name “Political Economy”, and to speak simply of Economic Science, or more shortly, Economics” (A. and M.P. Marshall, 1879, p. 2).
[5] L’intera documentazione è reperibile grazie a Roars al seguente link https://www.roars.it/online/il-dibattito-sulla-valutazione-della-ricerca-in-economia/ . La discussione che ne seguì portò altri celebri economisti ad esprimersi in linea con la posizione di Pasinetti. Si veda Garegnani (2007), ma anche Artoni (2007), allora direttore del centro di economia pubblica della Bocconi, grande promotore del pluralismo nella scienza economica. Pasinetti è poi tornato su questi temi anche in un’intervista a cura di Nadia Garbellini ed Emiliano Brancaccio (2018), cfr. https://www.ineteconomics.org/perspectives/blog/luigi-pasinetti-on-disrupting-neoclassical-hegemony-in-economics .
[6] Si veda il Post Scrimptum alla fine di questa Appendice.
[7] Sto leggermente riformulando alcune citazioni, facendo attenzione a non distorcere il messaggio.
[8] Si veda il Post Scriptum alla fine di questa Appendice.