L’emergenza del coronavirus sta innescando una crisi economica senza precedenti , che richiede politiche fiscali incisive, e il futuro dell’eurozona dipende dalle soluzioni che saranno adottate per sostenere tali politiche. Pessime soluzioni possono anche essere imposte oggi, data la gravità del momento, ma con conseguenze esiziali di lungo periodo. Viceversa, buone soluzioni possono spianare la strada a un rilancio della UE.
La crisi impatta su una economia internazionale debole per gli squilibri accumulati nella recessione successiva al tonfo del 2008. L’eurozona in particolare negli scorsi anni ha mostrato tutta la fragilità di una unione monetaria incompleta, priva coordinamento delle politiche fiscali e di esse con la politica monetaria, non dotata di un vero bilancio centrale, nella quale la speculazione imperversa nei mercati finanziari e i processi di divergenza tra i Paesi si accentuano. Gli inviti di parte della comunità scientifica a rivedere le regole europee, come il “monito degli economisti” del 2013, sono caduti nel vuoto e a nulla è valso il campanello di allarme della Brexit.
Anche per queste ragioni, nonostante alcuni favoleggino un rapido rimbalzo spontaneo, assisteremo a una contrazione del pil particolarmente forte e duratura. D’altronde, siamo in presenza di una crisi sistemica, che impatta sulla domanda aggregata ma determina anche blocchi della produzione, buchi nei meccanismi di approvvigionamento, “disorganizzazione” dei mercati.
Per fare fronte alla crisi – come abbiamo chiarito nel documento “Italian economists for an anti-virus plan” (www.economistsforanantiviruspolicy.org), pubblicato il 13 marzo dal Financial Times – è necessario un grande piano anti-virus europeo. Occorrono controlli sui mercati dei capitali, liquidità a sostegno della domanda privata e a garanzia della solvibilità dei sistemi bancari e produttivi, eventuali nazionalizzazioni; inoltre, va predisposto un piano di investimenti pubblici che parta dal settore sanitario e dalle aree in cui si verificano fallimenti del mercato (welfare, infrastrutture, istruzione, ambiente). Per tutto ciò non basta la politica monetaria con il PEPP varato dalla BCE, né è sufficiente la sospensione dei vincoli di bilancio del Patto di Stabilità. Occorre una azione concertata ed espansiva delle politiche fiscali, con centralizzazione dei finanziamenti.
Il rischio che si corre è invece che gli Stati procedano in ordine sparso e torni a fare capolino la vecchia logica del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES): crediti ai Paesi che ne fanno richiesta, Italia in testa, a tassi più favorevoli di quelli di mercato ma con condizionalità (più o meno attenuate). Una pessima soluzione, visto che quei crediti vengono contabilizzati come debito pubblico e che il mercato considererebbe l’effetto-stigma che ne deriva, con tutto ciò che ne segue in termini di costo e sostenibilità del debito in un futuro in cui non sono nemmeno prevedibili gli orientamenti della BCE. Insomma, aiuti oggi a fronteggiare l’emergenza, ma a scapito di una ipoteca sul futuro e su quello dell’eurozona. Viceversa, una buona soluzione è quella di prevedere (gli espedienti tecnico-giuridici possono essere diversi, e tra questi gli eurobond) che la BCE finanzi in modo sostanzialmente diretto le politiche fiscali monetizzando il nuovo deficit europeo, senza che ciò impatti sulla finanza pubblica dei singoli Paesi.
Il problema è tutto politico. Di certo c’è che una buona soluzione per sostenere le politiche fiscali anti-virus darebbe all’Europa una chance per salvare l’esperienza della moneta unica, disfarsi dei vecchi dogmi che l’hanno imbrigliata, fare un passo verso la revisione dei trattati e l’integrazione politica.
*Articolo pubblicato anche dal Sole 24 Ore del 24 marzo 2020