Per una economia di guerra sanitaria

Per una “economia di guerra” anche sanitaria

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The fight against the pandemic is often associated with a war. But the war economy is a dignified branch of economic science to which no one has referred so far. The fundamental basis for conducting a war is the creation of a considerable additional monetary mass which, made available to the State, allows the conversion of the productive apparatus in order to defeat the enemy. What does this imply in the conditions in which Italy and Europe currently find themselves? What could be the implications of the so-called Coronabonds? And the consequences of a failure to agree to their issue?

1. La teoria di una “economia di guerra”

L’economia ha le sue regole inflessibili e se la lotta al Coronavirus assomiglia sempre di più ad una guerra, sebbene sanitaria, allora si devono considerare i passaggi obbligati della c.d. “economia di guerra”, che è una dignitosa branca della scienza economica sviluppata nel corso delle due guerre mondiali del Novecento ed elaborata in Gran Bretagna, in Germania, negli Stati Uniti ed anche in Italia. Proprio da noi, tra il 1939 e il 1943, è stato teorizzato un “circuito monetario di guerra” che abbina alla “mobilitazione delle risorse produttive”, sia materiali che umane, anche e soprattutto una mobilitazione della moneta necessaria per soddisfare il bisogno collettivo della “vittoria sul nemico”[1]. Infatti, per affrontare una guerra (anche sanitaria) non basta pianificare l’apparato “di contrasto” adeguato, ma bisogna anche programmare le modalità del suo finanziamento. Per questo il punto di partenza del “circuito” non può stare che nelle mani dello Stato, con tutta la “potenza di fuoco” della produzione di quella sua “moneta sovrana” nella quantità necessaria a sostenere il fronte di combattimento (che in una guerra sanitaria è rappresentato dagli ospedali, mentre i soldati sono i medici e gli infermieri ed i caduti sono, in primo luogo, il personale sanitario e, in secondo luogo, i malati che non ce l’hanno fatta). 

Lo Stato deve quindi immediatamente spendere (in questo caso la fretta è buona consigliera) e non può pensare di ricavare il denaro che gli serve con gli strumenti tradizionali del fisco (troppo lento) o del debito pubblico (troppo incerto). Deve allora ricorrere alla misura straordinaria della emissione di moneta aggiuntiva senza copertura (dM) che, aggiungendosi alla moneta già in circolazione (M), spinga il sistema economico in prossimità del pieno impiego: è questa la “mobilitazione totale”, come si diceva allora, di tutti i fattori produttivi esistenti. Mentre questo succede sul lato della offerta (O), su quello della domanda accade invece che al consumo dei beni civili (C) si aggiunga quello degli armamenti militari o sanitari (A). Il doppio effetto porta ad un equilibrio macroeconomico in cui l’utilizzo delle risorse produttive è collegato alla destinazione diversificata della produzione per il tramite di quella moneta circolante accresciuta:

O = M + dM = C + A

È questa la condizione di “apertura” del circuito di guerra che però, subito dopo, è sottoposto alle conseguenze dei bombardamenti del nemico tesi a fiaccarne la capacità produttiva, con la distruzione di fabbriche e vie di comunicazione, e dello sfollamento della popolazione dalle città bombardate. E quindi: O’ < O. Dal lato della domanda, invece, a fronte della diminuzione delle merci prodotte e per evitare corse all’accaparramento e tensioni inflazionistiche sui prezzi, si deve procedere al razionamento dei consumi civili con le c.d. “tessere annonarie”, così che: C’ < C.

Nel caso di una guerra sanitaria, la compressione che vengono a subire sia l’offerta che la domanda si deve alla necessità del “distanziamento sociale”, necessario ad impedire la diffusione del contagio. È un distanziamento che agisce sia nei luoghi di lavoro, con la chiusura degli impianti produttivi considerati non essenziali, ma anche nelle attività di scambio, col divieto di movimento della popolazione: confinata a casa, essa è costretta ad interrompere la sua vita di relazione (salvo permessi più che limitati) nel commercio, nei trasporti, nell’istruzione, nell’intrattenimento stesso. Si finisce così per non spendere perché non è permesso e comunque si acquista meno perché, a meno dei consumi essenziali alimentari e farmaceutici, non ci sono più le merci e i servizi colpiti dal divieto governativo.

Il massiccio intervento monetario dello Stato, che deve sostenere il fronte di combattimento, assicurare il salario a chi ha perso il lavoro e garantire un guadagno alle imprese distrutte, genera una disponibilità di potere d’acquisto nelle mani della cittadinanza che, tuttavia, per il calo dell’offerta ed i limiti della domanda, non può essere speso. Essa resta perciò inerte, costituendo un risparmio monetario che venne allora detto “risparmio vagabondo”: reddito disponibile ma non spendibile, almeno in forme lecite. Nell’ipotesi semplificata che alla riduzione dell’offerta abbia corrisposto un equivalente calo dei consumi civili (O – O’ = C – C’) e che il risparmio vagabondo coincida con tutta la moneta aggiuntiva immessa nel circuito (sono ipotesi naturalmente esagerate, ma qui servono non tanto per descrivere la realtà, quanto per cogliere il concetto teorico nella sua stringatezza analitica), ne conseguirà il nuovo equilibrio macroeconomico:

O’ = M + dM – S = C’ + A                              con S = dM

Si apre allora il terzo momento del circuito di guerra. Per evitare che la moneta risparmiata nella disponibilità dei cittadini possa ricevere destinazioni economiche inopportune, lo Stato deve procedere a “catturarla” mediante l’emissione di titoli del debito pubblico D, che sono credito per i sottoscrittori, così da riportarla (per così dire) in quella “casa” da cui era uscita. Sono questi i ben noti “prestiti per la vittoria”, con cui lo Stato chiede denaro per la guerra ai propri cittadini, impegnandosi a restituirne il valore capitale alla fine delle ostilità e a corrispondere nel frattempo un determinato interesse. Nell’ulteriore ipotesi di comodo che il prestito pubblico non paghi interessi e che il debito pubblico recuperi l’intero risparmio vagabondo, avremo la trasformazione dell’equilibrio macroeconomico in:

O’ = M + dM – D = C’ + A                             dove D = S

che, semplificando quanto è possibile, si riduce a:

O’ = M = C’ + A

per mostrare che a, questo momento del circuito di guerra, la moneta aggiuntiva, all’origine di quel risparmio vagabondo, è stata rimossa e sostituita con il debito pubblico (che sarà pagato in futuro). Quel maggior circolante, immesso nel circuito, è ritornato nelle mani dello Stato per essere eventualmente riutilizzato. S’immagini che il circuito sia quello del primo anno di guerra: con la stessa moneta si potrà finanziare il secondo anno e così seguitando, se il circuito economico regge. Naturalmente l’indebitamento dello Stato si accumulerà negli anni, ma i conti con esso li si faranno ex post, ossia quando l’emergenza bellica (o sanitaria) sarà terminata (“domani pagherò”).

Qui resta soltanto da accennare come avverrà la “chiusura” del circuito di guerra. Terminate le ostilità, che si sia vinto o perso, quel debito pubblico progressivamente accumulato dovrà essere pagato in moneta ai creditori da parte dello Stato, il quale potrà provvedervi soltanto elevando imposte e tasse (T) a carico di tutti i contribuenti (e peggio per chi, a suo tempo, non ha sottoscritto). Perché la guerra, sebbene condotta dallo Stato, è stata fatta nel nome dei suoi cittadini e quindi è giusto che alla fine siano loro a pagarne il costo. 

Solo allora, mentre sul lato della domanda viene a cessare il consumo degli armamenti, l’aggravamento del carico fiscale ridurrà la moneta in circolazione e per ristabilire la condizione di equilibrio macroeconomico ne seguirà una riduzione sul lato dell’offerta con calo sia dei livelli di attività produttiva che di occupazione (O’’ < O’). È questo il momento recessivo della “riconversione” ad una economia di pace che porta all’equilibrio macroeconomico:

O’’ = M – T = C’                      con T = D = A = (O’ – O’’)

Insomma, se tutto procedesse come sopra indicato, il fatto della guerra non avrebbe monetariamente provocato alcuna tensione inflazionistica, grazie ad una successione di fasi che si potrebbero riassumere, utilizzando una formula sloganistica d’epoca, così: è la carta moneta che apre il solco, il debito pubblico che lo conserva e le imposte e tasse che lo chiudono. Naturalmente tutto quanto sopra detto in concreto non può mai succedere, essendo evidenti tutti gli “strappi” del reale rispetto al “tessuto” della teoria, ma ciononostante la teoria è utile per cogliere le relazioni economiche nel loro intreccio necessario. 

2. L’Unione Europea e la guerra al “coronavirus”. 

Una volta delineato l’impianto teorico di riferimento, vediamo come esso possa essere applicato al contesto presente del contagio virale. Che la sfida attuale possa essere paragonata ad una guerra è opinione ormai condivisa da numerosi osservatori, tra i quali troviamo anche l’ex presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi[2]. Il contesto in cui ci si trova ad operare non è però quello di una guerra tra Stati contrapposti, bensì quello di una guerra di tutti le nazioni contro un nemico comune (il virus) sicché, trattandosi di una pandemia, la vittoria si conseguirà solo quando la malattia sarà debellata in ogni paese. Questo apre una prospettiva nuova, anche dal punto di vista del finanziamento della guerra. Aggiungiamo che la posizione dell’Italia e delle altre nazioni aderenti all’Unione Monetaria Europea è particolare, poiché i rispettivi governi non possono più ricorrere autonomamente ad una loro banca centrale in grado di emettere moneta, in quanto i trattati da loro sottoscritti attribuiscono questo compito esclusivamente alla Banca Centrale Europea, cui è stata ceduta la sovranità monetaria. 

Per questo, la fase di “apertura” del circuito dell’economia di guerra non appare più praticabile nei termini classici. E tuttavia, rimane la necessità di dotarsi di un armamento monetario adeguato a mobilitare le risorse necessarie per sconfiggere il nemico-virus. Essendo gli Stati nazionali a dover spendere la moneta aggiuntiva pur non potendo emetterla, la soluzione del problema di come procurarsela non può che passare attraverso l’emissione di un debito pubblico nazionale che sia monetizzato dal contemporaneo acquisto, da parte della BCE, di questi nuovi titoli, che chiameremo Coronabond per distinguerli da quelli che verranno dopo. Stante però la situazione di emergenza che richiede sia sicurezza che rapidità nel trasferimento della moneta aggiuntiva dalla BCE agli Stati nazionali, questa volta l’intervento dell’istituto di emissione non può risolversi in un intervento sul “mercato secondario” (come stabilito nel suo Statuto). Con una simile procedura ci sono troppi intermediari: dagli Stati nazionali alle Banche private e poi alla Banca Centrale, e viceversa. E poi l’esperienza del Quantitative Easing di Mario Draghi ha mostrato nei fatti di non essere per niente efficace[3]. Per questo l’intervento della BCE dovrebbe avvenire questa volta sul “mercato primario”, ossia direttamente all’atto dell’emissione del debito pubblico emergenziale secondo la successione più stringata di Stati nazionali – Titoli – Istituto di emissione – Moneta. 

In questo modo gli Stati avrebbero subito a disposizione le risorse monetarie da impiegare sia per sostenere il sistema economico colpito dal confinamento a casa di buona parte della popolazione e dal blocco delle attività produttive “non necessarie”, sia per approntare i mezzi per combattere al meglio la malattia. Si pensi alla necessità di riconvertire la produzione delle imprese per fabbricare: mascherine, tute isolanti, apparati di ventilazione polmonare, disinfettanti, appositi reparti ospedalieri, formazione di nuovo personale sanitario, nuovi farmaci, vaccino, e quant’altro.

Una volta che gli Stati siano intervenuti con tutta la potenza monetaria per contrastare gli effetti del contagio, inevitabilmente ci si troverà con la piena occupazione in alcuni settori (quelli direttamente connessi alla sanità), mentre altri soffriranno la condizione di guerra in cui è impegnata la società con la serrata di aziende ed il licenziamento o cassa integrazione della forza-lavoro precedentemente occupata. Entrati in questa fase del circuito dell’economia di guerra, il compito dello Stato sarà quello di sostenere il reddito di tutti costoro con una sorta di “reddito di cittadinanza universale” che dovrebbe interessare sia i consumatori che gli operatori economici. E tuttavia, come previsto dalla teoria, nel complesso le opportunità di spesa ed investimento tenderanno a restringersi a seguito dell’emergenza sanitaria, come già stiamo sperimentando vedendosi drasticamente ridotti i consumi di bar, ristoranti, cinema, teatri, alberghi, trasporti ecc. e tutto questo in parallelo alla riduzione della capacità di offerta dei comparti produttivi che sono stati bloccati. Emerge quindi, ancora come da teoria, il bisogno di “rastrellare” quel risparmio vagabondo che eventualmente si formasse, sia per evitare che si determinino squilibri nell’allocazione delle risorse, sia per la necessità di proseguire la guerra (che non finirà, a sentire la maggioranza dei virologi, se non quando sarà stata prodotta l’arma definitiva, ossia il vaccino).

Si pone allora il problema di dare attuazione alla fase successiva del circuito della economia di guerra: a chi può spettare il compito di “drenare” la liquidità monetaria incrementale immessa nel circuito monetario dalla Banca Centrale Europea? È questo lo snodo fondamentale, perché appare del tutto ragionevole che il soggetto istituzionale cui affidare tale compito debba essere un attore ad un livello superiore ai singoli Stati (e diverso dalla BCE), rappresentativo della unità d’intenti nella lotta al Coronavirus. Questo passaggio richiede la costituzione di una amministrazione federale fatta apposta “per il debito”, così che la raccolta del risparmio vagabondo possa avvenire attraverso l’emissione, per la prima volta nella storia europea, dei famigerati “Eurobond”, che sarebbero gli unici titoli ad essere oggetto di valutazione da parte delle agenzie di rating. L’entità deputata ad emettere questi titoli sarebbe il nucleo costituente di un nuovo impianto federale europeo, mentre la platea di riferimento per il piazzamento di questi titoli, che sarebbe in primo luogo l’intera Europa, potrebbe allargarsi ai risparmiatori di tutto il mondo. È ben nota la presenza globale di una quantità straordinaria di risparmio che al momento trova difficoltà ad investirsi se non in impieghi rischiosi oppure a tassi d’interesse risibili. In questo quadro, gli Eurobond sarebbero appetibili sul mercato finanziario internazionale in quanto garantiti da una entità geopolitica solida (l’Unione Europea) e offerti con un rendimento superiore a quelli oggi prevalenti, potendo essere emessi con scadenza prolungata secondo la logica di quei “Matusalemme Bond” che, già offerti in situazioni specifiche, garantiscono un tasso d’interesse elevato a fronte di una scadenza pluridecennale. 

A maggior ragione, anche il ruolo determinante nella fase di chiusura definitiva del circuito dell’economia di guerra, ossia l’incremento della pressione fiscale legata alla riconversione del sistema produttivo alla pace, sarebbe da attribuire a quella nuova entità federale europea così introdotta che, dopo il debito europeo, verrebbe a gestire una fiscalità comune a tutti i paesi membri. E che potrebbe, magari come primo incarico, assumersi anche il compito di assicurare livelli uniformi di assistenza sanitaria a tutti i cittadini del vecchio continente. In questo modo, nascerebbe una effettiva Unione Fiscale Europea (di Debito e d’Imposta) capace di superare gli squilibri derivanti dall’attuale Unione (soltanto) Monetaria Europea. Vale la pena di osservare che tale “nocciolo” federale, gestirebbe esclusivamente il debito emesso per contrastare la pandemia e non l’intero debito pubblico dei Paesi europei.

La necessità di combattere la guerra al Coronavirus richiede urgenti interventi economici da finanziarsi con un approvvigionamento di moneta non dilazionabile nel tempo. La condizione del nostro Paese (come quella di altre nazioni europee) è tale per cui il solo ricorso a un maggiore indebitamento nazionale non è sufficiente a tenere in piedi il sistema produttivo e, conseguentemente, il tessuto sociale. In ogni caso, l’inevitabile incremento del peso del debito italiano sul PIL, nell’attuale assetto istituzionale europeo, renderebbe non gestibili i conti dello Stato, anche a causa della probabile esplosione del costo del servizio del debito. Per questo, in mancanza di un intervento coordinato a livello europeo, vi sarebbero poche alternative per il governo italiano a forme estreme di raccolta di fondi che costituirebbero una precondizione per la rottura dell’accordo di cambio oggi in essere tra gli Stati aderenti all’Unione Monetaria Europea. 

Quindi, sia per necessità, sia per completare un progetto che nelle condizioni attuali ha dimostrato di non funzionare, la decisione sul passaggio verso una Unione Fiscale Europea appare ormai ineludibile. Siamo ad un bivio: da una parte vi è un salto di qualità verso istituzioni europee orientate a mettere in comune una parte dei debiti pubblici e ad adottare una politica di tassazione condivisa allo scopo di tutelare il benessere e la salute dei cittadini europei; dall’altro vi è la prospettiva della dissoluzione dei vincoli che finora hanno tenuto precariamente insieme l’Unione Monetaria Europea. La pessima prestazione realizzata dalla Commissione Europea in occasione dello scoppio di questa pandemia sta facendo (se non l’ha già fatto) vacillare la fiducia e il gradimento dei cittadini nei confronti delle istituzioni sovranazionali uscite dagli accordi di Maastricht. 

Non appare esagerato affermare che o l’Europa si farà così e adesso o non sopravviverà alla emergenza straordinaria del contagio. Non c’è più tempo per subire non soltanto i diktat, ma nemmeno le esitazioni e i ritardi degli eurocrati di Bruxelles! 

[1] Cfr. G. Gattei e A. Dondi, La teoria della economia di guerra in Italia (1939-1943), in “Quaderni di storia dell’economia politica, 1990, nn. 2-3, pp. 359-376.

[2] Draghi: we face a war against coronavirus and must mobilise accordingly, “Financial Times”, 25 marzo 2020.

[3] G. Gattei e A. Iero, Una Eurozona da Draghi?, in “economiaepolitica”, 15 marzo 2016.

Economia di Guerra e Economia di Pace

Economia di guerra: Branca della scienza economica sviluppata nel corso delle due guerre mondiali del Novecento ed elaborata in Gran Bretagna, in Germania, negli Stati Uniti ed anche in Italia

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