Sergio Cesaratto ha scritto un bel libro, Chi non rispetta le regole? (Cesaratto 2018), con l’obiettivo di smontare sistematicamente una particolare lettura della crisi dell’Euro, che assolve completamente la classe dirigente politica ed economica tedesca, e scarica per intero la responsabilità sui paesi della periferia europea. È una lettura moraleggiante, diffusa non solo in Germania, ma anche in ambienti italiani di orientamento liberista. Non è affatto un’invenzione dell’autore. Al contrario, personalmente ho ascoltato diverse volte questo tipo di narrazione quando, nell’autunno del 2013, condussi con Klaus Armingeon una serie di interviste volte a capire in quale maniera funzionari publici, politici e sindacalisti tedeschi interpretassero la crisi dell’Euro e le risposte da dare ad essa (Armingeon e Baccaro 2015).
La lettura “tedesca” della crisi
Esagerando un po’ (ma lasciando inalterata la sostanza), la lettura della crisi che emerse da quei colloqui in Germania si può riassumere nella maniera seguente: a dire degli intervistati, la situazione dei paesi della periferia europea era per molti versi simile a quella della Germania nei primi anni 2000. Anche l’economia tedesca languiva in quel periodo in una crisi profonda. Diversamente però dai paesi del Sud, la Germania scelse di mantenere in ordine i suoi conti pubblici e di introdurre riforme importanti del mercato del lavoro e della protezione sociale (le riforme Hartz). Sindacati e imprese contribuirono alla ripresa economica accordandosi per flessibilizzare il sistema di contrattazione collettiva, in precedenza eccessivamente rigido, e in questo modo consentirono alle imprese, attraverso la moderazione salariale, di riguadagnare la competitività internazionale persa negli anni immediatamente successivi alla riunificazione. Fu un governo di centro-sinistra, il governo Schroeder, ad introdurre le riforme, e ad esse pagò un prezzo politico molto alto: non fu rieletto, ma si dimostrò capace di anteporre gli interessi del paese agli interessi di parte. Grazie alle riforme fatte, la Germania tornò a crescere in capo a pochi anni.
La storia di solito si concludeva con considerazioni su quel che avrebbero dovuto fare i paesi della periferia europea. Come la Germania dieci anni prima, anche per questi l’unica soluzione era imboccarsi le maniche e fare le riforme strutturali troppo a lungo rimandate. La loro spesa pubblica era fuori controllo, i mercati del lavoro eccessivamente rigidi, i sistemi pensionistici troppo generosi, e in più avevano sprecato l’opportunità dei bassi tassi di interesse forniti dall’Euro nei primi anni 2000. Erano responsabili delle proprie sfortune. Pretendere che i loro debiti fossero ripagati da altri paesi era un abuso. Chiedere alla Germania di rinunciare alla propria competitività duramente riconquistata era come chiedere al Barcellona di giocare senza Messi per fare un favore agli avversari (Weidmann 2012).
Questa ricostruzione veniva fornita, con poche variazioni, da personaggi di diversa estrazione: funzionari del ministero delle Finanze e politici di CDU e SPD. Gli unici ad avere una lettura differente della situazione erano i sindacalisti di Ver.Di., il sindacato dei servizi, che mettevano l’accento sulla necessità per la Germania di espandere la domanda interna, ma la loro posizione appariva del tutto isolata, ed incapace di incidere sulle scelte politiche.
È esattamente contro questo tipo di narrazione che il libro di Cesaratto si rivolge, ricordando come un’unione monetaria, l’Euro come il gold standard, si regga su “regole del gioco” implicite. Il sistema è sostenibile solo se ci sono meccanismi e strumenti che consentano l’aggiustamento simmetrico in caso di squilibri della bilancia di parte corrente. In particolare, un paese in surplus dovrebbe consentire ai suoi prezzi interni di crescere più rapidamente dei prezzi dei paesi in deficit in modo da riequilibrare il tasso di cambio reale (che è dato dal rapporto tra i prezzi interni ed esteri) e attraverso questo l’equilibrio di parte corrente. Tali meccanismi non sono però automatici, ma dipendono da decisioni politiche. Se, come nel caso della Germania, il paese in surplus ha un’economia “tirata dalle esportazioni”, il non aggiustamento gli permette di trarre beneficio dalla situazione, almeno per un po’. Dunque una prima conclusione di Cesaratto è che il paese che ha violato le regole (implicite) di funzionamento dell’unione monetaria è la Germania, e lo ha fatto perseguendo scientemente il suo interesse nazionale.
La crisi dell’Eurozona come crisi di bilancia dei pagamenti
Nel dibattito di economia eterodossa, Cesaratto è associato alla tesi che equipara la crisi dell’Euro ad una crisi di bilancia dei pagamenti (Cesaratto 2015). In sintesi, secondo questa tesi l’Eurozona è assimilabile ad un sistema di cambi fissi. È noto che i sistemi di cambi fissi sono soggetti ad un particolare tipo di crisi (verificatasi finora soprattutto nei paesi in via di sviluppo), nota come “arresto improvviso” (Frenkel e Rapetti 2009). Anche la crisi del 2010-2011 ha per Cesaratto le caratteristiche di un arresto improvviso, sia pure sui generis.
Negli anni precedenti alla crisi, i mercati finanziari si erano convinti che il rischio paese fosse scomparso e che il debito pubblico di tutti i paesi dell’Eurozona, compresi quelli periferici, fosse di fatto garantito in solido da tutti i paesi membri. Questa percezione aveva comportato una convergenza dei tassi di interesse nominali a partire dalla metà degli anni ’90. Permanevano tuttavia tassi di inflazione differenti a livello nazionale e questo creava disparità dei tassi di interesse reale, che erano più alti nei paesi a bassa inflazione, in primis la Germania, e più bassi nei paesi ad alta inflazione, quelli della periferia meridionale più l’Irlanda.
Queste differenze nei tassi di interesse reali, note come “effetto Walters” (Walters 1988), rallentavano la domanda nei paesi core e la facevano aumentare nei paesi della periferia, soprattutto nel settore delle costruzioni, tradizionalmente sensibile al tasso di interesse reale, stimolando la concessione di credito da parte del settore bancario e l’indebitamento, in primis privato. Per un certo periodo sembrò che gli squilibri fossero espressione di un processo benefico di convergenza (Blanchard e Giavazzi 2002), che incoraggiava gli investimenti nei paesi della periferia riducendo le disparità di sviluppo. Solo successivamente divenne chiaro che gli investimenti erano in settori a bassa produttività e non generavano convergenza.
Fino all’esplodere della crisi, le banche periferiche prendevano a prestito riserve da quelle dei paesi core, le quali erano ben liete di riciclare le loro riserve in eccesso a tassi un po’ più elevati di quello sui depositi presso la banca centrale (Cesaratto 2016). Dopo il fallimento di Lehmann Brothers, tuttavia, e soprattutto dopo la crisi greca, i flussi interbancari dal centro alla periferia si interruppero bruscamente.
Occorre sottolineare che nel caso dell’Euro, a differenza di un sistema di cambi fissi, non c’è un problema di esaurimento delle riserve valutarie da parte dei paesi sotto attacco, grazie alla presenza di un meccanismo di pagamenti interbancari, il Target 2, che consente ai paesi membri di finanziare il deficit estero (e le fughe di capitali) in maniera potenzialmente illimitata anche quando i flussi transfrontalieri di capitale si bloccano, sostituendo ai prestiti interbancari i prestiti del sistema delle banche centrali. Dunque la conseguenza più immediata dell’arresto improvviso è stata un accumulo di crediti Target 2 da parte della Bundesbank, e un corrispondente accumulo di debiti da parte delle banche centrali dei paesi periferici (Sinn 2014). In assenza del sistema Target 2, le misure di austerità necessarie a far fronte all’arresto improvviso sarebbero state probabilmente assai più gravose.
Gli effetti immediati dell’arresto improvviso di flussi di capitale si manifestarono non nel sistema bancario, ma nel mercato dei titoli pubblici. Preoccupati dall’aggravarsi delle finanze pubbliche di alcuni paesi, appesantite dalla crisi e dagli interventi pubblici per “mettere in salvo” i sistemi bancari (per esempio in Irlanda), i mercati finanziari cominciarono a nutrire dubbi sulla capacità di alcuni governi di ripagare i loro debiti, e dunque domandarono tassi di interesse sempre più elevati per compensare l’aumentato rischio. L’aumento dei tassi di interesse aggravava, invece di alleggerire, il rischio di fallimento. Ad un certo punto alcuni paesi della periferia divennero incapaci di rifinanziare le proprie emissioni di titoli pubblici anche a tassi molto elevati, e dunque furono costretti ad invocare l’intervento della “trojka” proprio come in simili circostanze i paesi in via di sviluppo invocano l’intervento del Fondo Monetario Internazionale. Ed infatti tra i programmi di austerità richiesti dal FMI ai paesi in via di sviluppo e quelli richiesti dalla trojka non c’è grande differenza: entrambi comportano l’aggiustamento fiscale attraverso il taglio della spesa piuttosto l’aumento delle imposte, e la liberalizzazione dei mercati dei prodotti e soprattutto del lavoro.
Insomma, i tratti caratteristici di un arresto improvviso, argomenta Cesaratto, sono chiaramente identificabili anche nella crisi dell’Eurozona: afflusso di capitali esteri (in questo caso per rifinanziare l’espansione di credito bancario nei paesi periferici), improvvisa crisi di fiducia, arresto e fuga di capitali, intervento delle istituzioni monetarie internazionali con annesse condizionalità, e programma di aggiustamento strutturale (ovvero austerità). Per quanto la crisi si sia manifestata nel mercato dei debiti pubblici – un mercato in cui il rischio non è “coperto” dalla BCE, che può fornire riserve in maniera potenzialmente illimitata alle banche, ma non può, a norma di trattati europei, acquistare titoli dai governi – è stata per Cesaratto in primis una crisi di debito privato: alcune parti hanno prestato eccessivamente e in maniera poco prudente, ed altre parti, corrispondentemente, hanno preso in prestito eccessivamente e in maniera poco prudente. Guardare alla situazione, come fa la Germania, solo dal lato del creditore è forse comprensibile, ma del tutto parziale. Le parti in causa sono due e hanno responsabilità simmetriche: il debitore si impegna a ripagare il debito, il creditore concede il credito dopo aver adeguatamente vagliato la solvibilità della controparte.
Cesaratto sottolinea come le regole di governance previste dai trattati europei erano e sono completamente inadeguate a scongiurare il tipo di crisi descritta nel paragrafo precedente, in quanto sostanzialmente disinteressate alle dinamiche del settore privato e interamente finalizzate a limitare la discrezionalità fiscale dei governi. Tali regole presuppongono, in linea con l’economia neoclassica, che il settore privato sia efficiente, e in particolare che il settore finanziario sia in grado di prezzare adeguatamente il rischio, cosa per lo meno discutibile dopo l’ultima crisi. I trattati si preoccupano dunque del problema di “azzardo morale”, ovvero di impedire che il settore pubblico si indebiti più del dovuto sfruttando l’aumentata credibilità derivante dal far parte di un’unione monetaria. Per questo motivo furono introdotti nel Trattato di Maastricht vincoli di deficit e debito pubblico attraverso il Patto di Stabilità e Crescita. Tuttavia, nulla fu previsto per limitare l’indebitamento privato, né per impedire politiche di svalutazione competitiva (reale) all’interno dell’Eurozona.
Il “mercantilismo” tedesco
Per quanto il libro di Cesaratto non prenda posizione esplicita nella disputa accademica sull’importanza delle politiche di contenimento del costo unitario del lavoro in Germania, limitandosi a sintetizzare le varie posizioni (pp. 45-47), si tratta di un tema importante per la tesi centrale del libro, che colei che ha davvero violato le regole (implicite) di un’unione monetaria è stata la Germania.
La disputa, una sorta di “fuoco amico” tra autori che condividono un approccio eterodosso all’economia, ha opposto Flassbeck e Lapavitsas da un lato (2015) e Storm e Naastepad dall’altro (2015). Per Flassbeck e Lapavitsas la causa prima della crisi è da cercarsi nella pluriennale moderazione salariale tedesca, sia nominale (contenimento dei costi unitari del lavoro) che reale (aumenti salariali reali inferiori alla crescita della produttività del lavoro), effetto dell’offensiva padronale per la riduzione dei costi e delle strategie cooperative di sindacati e (soprattutto) consigli di fabbrica delle grandi aziende tedesche, preoccupati oltre ogni cosa di garantire i posti di lavoro dei propri affiliati, e dunque disposti a fare contrattazione concessiva (Baccaro e Benassi 2017). Con l’Euro, e con la conseguente impossibilità di compensare le differenze tra i tassi nazionali di inflazione attraverso l’aggiustamento del cambio nominale, la moderazione salariale ha prodotto una svalutazione del tasso di cambio reale tedesco a svantaggio degli altri paesi dell’Eurozona, ed è dunque di importanza fondamentale, secondo Flassbeck e Lapavitsas (2015), per spiegare l’accumularsi di squilibri delle partite correnti.
Storm e Naastepad ritengono invece che la moderazione salariale e la compressione dei costi unitari del lavoro abbiano un’importanza marginale nello spiegare i surplus di parte corrente tedeschi, dato che, a loro dire, il sistema produttivo tedesco non compete sui costi, ma su livelli qualitativi superiori (resi possibili dalla presenza di istituzioni non liberali nelle relazioni industriali e nella formazione professionale), ed attribuiscono un ruolo più importante ai flussi di capitale dal centro alla periferia dell’Eurozona, che avrebbero causato la perdita di competitività di quest’ultima. Se un effetto della moderazione salariale c’è stato, argomentano Storm & Naastepad, si è fatto sentire più sulla riduzione delle importazioni tedesche che sullo stimolo alle esportazioni. Insomma, mentre per Flassbeck e Lapavitsas la catena causale procede dal mercato del lavoro (moderazione salariale) alle differenze di competitività, per Storm parte dichiaratamente dalla finanza, mentre il mercato del lavoro ha un ruolo secondario e derivato (le perdite di competitività sono conseguenze delle bolle immobiliari).
Cesaratto, come detto, non si schiera esplicitamente, ma un intero capitolo del libro è dedicato al “mercantilismo” tedesco, il che lascia pensare che simpatizzi per la versione di Flassbeck e Lapavitsas. Allo stesso tempo, ci si deve chiedere fino a che punto questa versione (che come detto mette fortemente l’accento sul mercato del lavoro come origine della catena causale) sia conciliabile con la sua tesi che la crisi dell’Euro è crisi di bilancia dei pagamenti, tesi che mette al centro dell’azione i movimenti di capitale e la finanza. In ogni caso, il libro discute i numerosi vantaggi che l’Euro ha fornito alla Germania, ricordando ad esempio che il famoso “salvataggio” della Grecia del 2010 fu in realtà un salvataggio delle banche francesi e tedesche (ancor più francesi che tedesche in verità), fortemente esposte rispetto al sistema bancario greco: se la Grecia avesse fatto default, queste banche avrebbero subito perdite che ne avrebbero compromesso la stabilità finanziaria, costringendo i governi di riferimento a rifinanziarle. Attraverso il salvataggio della Grecia, pagato in maniera proporzionale dai altri partner europei, Parigi e Berlino hanno mutualizzato i costi del loro bail-out. Cesaratto ricorda anche come la Germania abbia beneficiato dalla flight to security seguita alla crisi dei debiti sovrani, ovvero della fuga di capitali dai paesi della periferia verso il centro, che ha condotto ad un ulteriore abbassamento dei tassi di interesse in Germania.
Le proposte di riforma inadeguate
Le riforme di cui la zona Euro avrebbe bisogno dovrebbero consistere nell’introduzione di regole che rendano simmetrici i costi dell’aggiustamento tra paesi, permettendo di restaurare “le regole del gioco”. Un esempio che Cesaratto non discute, ma che andrebbe in questa direzione, riguarda il sistema di contrattazione collettiva, che dovrebbe essere coordinato tra i vari paesi in maniera da assicurare che i tassi di crescita del salario nominale corrispondano in media all’obiettivo di inflazione della BCE più la crescita media della produttività nazionale, in modo da rendere impossibili le svalutazioni competitive (del cambio reale) che hanno caratterizzato i primi anni dell’Euro. Tuttavia, queste e altre regole di bilanciamento incontrerebbero difficoltà e resistenze politiche probabilmente insormontabili, oltre che difficoltà di coordinamento tra attori nazionali (sono i sindacati tedeschi della manifattura disposti a rinunciare alla competitività di costo delle loro imprese?).
Una soluzione che viene di frequente avanzata, e sdegnosamente rifiutata dall’opinione pubblica tedesca, consiste nell’introduzione di trasferimenti fiscali dai paesi in surplus a quelli in deficit. Trasferimenti di questo tipo sono già politicamente difficili da sostenere in paesi in cui vi è comunanza di storia, cultura e tradizioni (si pensi a quanto spinosa sia la questione dei trasferimenti tra Nord e Sud in Italia, o tra Ovest e Est in Germania), figurarsi nell’Unione europea, ove tali condizioni non esistono. In ogni caso, i trasferimenti non risolvono il problema degli squilibri di competitività tra paesi, ma semmai li compensano a posteriori, condannando i paesi della periferia ad un poco dignitoso futuro di dipendenza dalla solidarietà altrui.
Cesaratto sottolinea inoltre l’assoluta inadeguatezza delle proposte di riforma dell’Eurozona al momento in discussione. Lungi dal muovere verso una più equa ripartizione dei costi di aggiustamento, esse mirano a restaurare l’ortodossia monetaria violata, agli occhi dell’élite tedesca, dalla politica monetaria non-convenzionale della BCE di Draghi, e a far applicare le regole di rigore fiscale troppo spesso violate, a dire della Germania, dai paesi del Sud. Spiccano in questo senso il breve documento (detto “non-paper”) fatto circolare da Schaeuble prima di lasciare il Ministero delle Finanze, che chiede una più rigorosa applicazione delle regole fiscali (compreso il Fiscal Compact) da affidarsi ad un organismo tecnico, un fondo monetario europeo, che possa imporre la disciplina a governi recalcitranti, sostituendosi alla Commissione Europea, un organismo ritenuto eccessivamente comprensivo nei riguardi dei governi inadempienti. Contemporaneamente il non-paper rifiuta l’assicurazione comune dei depositi bancari e l’introduzione di Eurobonds, ovvero ogni forma di ulteriore mutualizzazione dei rischi tra paesi europei. Chiede inoltre che ogni intervento di “salvataggio” degli stati sia condizionato ad interventi di ristrutturazione del debito, con perdite per i detentori di titoli. Se tali proposte fossero applicate, fa notare Cesaratto, i tassi di interesse sui titoli italiani aumenterebbero a causa dell’aumentato rischio, mettendo a rischio la sostenibilità del debito pubblico e accelerando, invece di prevenire, una nuova crisi di fiducia.
Anche le recenti proposte francesi, nonostante la gran fanfara con cui sono state accolte, non affrontano la sostanza dei problemi dell’Eurozona e rischiano di peggiorare la situazione. Cesaratto si sofferma sul contributo di 16 economisti francesi e tedeschi (Bénassy-Quéré e et al. 2018), che si propone come una mediazione tra esigenze diverse, e lo considera troppo vicino al non-paper tedesco per rappresentare una soluzione durevole. In particolare, le proposte degli economisti franco-tedeschi incorporano la richiesta tedesca che interventi di sostegno da parte del fondo salva-stati siano subordinati alla ristrutturazione del debito.
Che fare?
Le raccomandazioni di policy che derivano dall’analisi sono sorprendentemente moderate, considerate le prese di posizione precedenti dell’autore (per es. Cesaratto 2016). Non si consiglia di uscire dall’Euro; anzi, se ne mettono in evidenza le incognite e i rischi difficilmente quantificabili data la mancanza di precedenti (pp. 98-105). Quel che l’Italia dovrebbe fare, nell’opinione di Cesaratto, è esigere la non-applicazione delle regole fiscali, in particolare del Fiscal Compact. Invece di impegnarsi a tagliare il debito attraverso attivi di bilancio primario anno dopo anno, cosa che ha effetti recessivi, il governo italiano dovrebbe impegnarsi a stabilizzare il debito, ma non a ridurlo. Con questa proposta, si scommette sul fatto che un aumento del deficit pubblico faccia ripartire la domanda aggregata, e generi un tasso di crescita sufficientemente superiore al tasso di interesse medio pagato sullo stock di debito da stabilizzare il debito pur in presenza di un deficit primario. Questa politica, però, richiede la collaborazione della BCE che deve impegnarsi non solo a mantenere basso il tasso di interesse di riferimento, ma anche a proteggere i titoli del debito pubblico italiano da improvvise crisi di sfiducia dei mercati finanziari, continuando ad acquistarli (o dichiarando di essere disposta a farlo whatever it takes).
C’è molto con cui concordare in questo libro. Personalmente condivido che fosse necessario opporre alla narrazione “tedesca” della crisi una narrazione alternativa e opposta che la bilanciasse. Occorre tuttavia ricordare che non c’è stato nessun raggiro teutonico: le regole che sono state applicate sono quelle inserite nei Trattati europei, che l’Italia ha volontariamente sottoscritto e spesso incoraggiato. Concordo anche sull’analisi della natura della crisi, anche se avrei voluto un po’ più di chiarezza sulla catena causale: la crisi ha origine dalla moderazione salariale tedesca? O dalla creazione di credito bancario nei paesi periferici, conseguenza di tassi di interesse reali troppo bassi (nella periferia)? O le due cose sono inscindibili? È importante rispondere a queste domande, dato che le implicazioni di policy sono differenti. Sono inoltre d’accordo che l’Italia dovrebbe prendere le distanze dalle proposte dell’Eurozona formulate recentemente dai tecnocrati franco-tedeschi.
Quel che mi lascia un po’ insoddisfatto è invece la parte di political economy: non vedo perché i partner europei dovrebbero accettare che l’Italia metta da parte gli impegni già presi sul deficit e sulla riduzione del debito (attraverso il Fiscal Compact), per impegnarsi solo a stabilizzare il debito. Inoltre, quanto è realistico pensare che la BCE sia disposta a intervenire in difesa dei titoli di debito pubblico italiano, soprattutto ora che il mandato di Draghi è in scadenza?
In breve, il programma di Cesaratto, per quanto ragionevole, non mi sembra politicamente realizzabile nelle condizioni attuali. Cesaratto ha ragione che per superare la crisi è necessario che la Germania cambi la direzione della sua politica economica, rilanciando la sua domanda interna, e permettendo agli altri di fare altrettanto. Tuttavia, questo non accadrà perché qualche economista riesce a convincere les elites politico-economiche tedesche che le loro analisi sono sbagliate, ma perché cambiano i rapporti di forza. Concretamente questo significa due cose: primo, un pesce grosso (ovvero di importanza sistemica, come l’Italia) decide che è disposto ad uscire dall’Euro se le cose non cambiano. Questo però è un chicken game molto pericoloso, in cui ci si può fare molto male. Secondo, un pesce grossissimo, come gli Stati Uniti di Trump, costringe la Germania a ribilanciare il proprio modello di crescita minacciando il ritorno al protezionismo. Credo che la seconda minaccia sia più credibile della prima.
*Max Planck Institute for the Study of Societies
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