Oltre il Neoliberismo. Considerazioni in margine a un libro sulle recenti mutazioni del ruolo dello Stato.
1. Sebbene il dibattito sulle torsioni subite dalla forma di Stato nell’ultimo quarantennio nei Paesi a capitalismo maturo sia stato intenso, non si può dire che abbia fatto ancora chiarezza circa la configurazione dei poteri emersa all’esito di queste trasformazioni. Resistono, infatti, nella letteratura scientifica così come nell’opinione pubblica, un certo numero di luoghi comuni sul tema duri da sradicare. Pertanto, fa molto piacere trovare in libreria un volume come Lo Stato del potere. Politica e diritto ai tempi della post-libertà di Carlo Iannello,[1] in cui si cerca con pazienza di tracciare un filo conduttore tra i fatti che hanno segnato questo processo di trasformazione, di rendere quindi analiticamente trattabile la magmatica materia di cui questa storia è composta, e infine di fare i conti con le questioni interpretative ancora aperte nel dibattito.
Per comodità espositiva, conviene preliminarmente riassumere la tesi proposta nel libro in poche proposizioni chiave: (1) Nell’esperienza dello Stato sociale, incardinata nello schema del costituzionalismo novecentesco, si è incarnata l’aspirazione della società a mettere sotto controllo il capitale, a limitarne le potenzialità eversive dell’ordine economico e sociale manifestate nella prima metà del secolo e a orientarne la straordinaria capacità di generazione di ricchezza materiale verso obiettivi e modelli di allocazione delle risorse democraticamente scelti dai cittadini; (2) Questa esperienza si interrompe grosso modo all’inizio degli anni 80 del secolo scorso, quando il capitale reagisce all’erosione della profittabilità, egemonizza il dibattito pubblico con una lettura della crisi del decennio precedente che mette il focus sull’inflazione delle aspettative redistributive della classe lavoratrice, e capovolge il ruolo dello Stato, funzionalizzandolo ad un progetto di sottomissione dell’intera società alla logica mercantile. Questa mutazione darà vita a quella forma di organizzazione dei poteri che, nel discorso di alcune discipline scientifiche, è diventato consuetudine qualificare come Stato neoliberale; (3) La ristrutturazione dei poteri originata da questo processo di “aziendalizzazione” della società, intersecandosi con le intense trasformazioni tecnologiche succedutesi a partire dall’alba del nuovo millennio, favorisce una ulteriore torsione istituzionale, all’esito della quale il capitale si fa Stato, ossia by-passa in maniera sempre più esplicita la mediazione democratica e impone dall’alto alla società un modello di pianificazione funzionale alla gestione “razionale” delle proprie contraddizioni interne. Questo approdo viene designato nel testo come post-liberismo.
Senza la pretesa di riprodurre organicamente la trama narrativa con cui l’autore argomenta la sua ricostruzione, nel seguito si concentrerà l’attenzione su alcuni singoli snodi concettuali il cui trattamento ci è parso particolarmente illuminante rispetto ad un dibattito spesso incapace di trasmettere ai lettori un quadro d’insieme coerente.
2. Alla luce della periodizzazione tratteggiata nelle righe precedenti, la categoria di neoliberismooccupa evidentemente un ruolo chiave nello sviluppo narrativo del testo di Iannello. Nella letteratura, l’espressione neoliberismodesigna la filosofia dell’organizzazione sociale che era andata consolidandosi nei decenni dopo la guerra in opposizione alle idee keynesiane circa il ruolo dello Stato nell’economia, e che, quando, la crisi economica degli anni 70 mise in discussione le fondamenta dello Stato sociale, la leadership politica occidentale adottò come riferimento concettuale per il progetto di una nuova architettura dei poteri. Un problema centrale con cui l’autore deve fare i conti è quindi chiarire con esattezza lo statuto di tale categoria, che rimane a tutt’oggi controversa a dispetto dello sforzo di tanti studiosi e divulgatori. Come è noto, infatti, gli apologeti dell’ordine basato sul ruolo centrale dei mercati hanno lungamente tentato di destituire di fondamento l’utilizzo di tale categoria nel dibattito scientifico.[2] Secondo una corrente di pensiero di significativa consistenza numerica, la qualificazione del modello di governo delle nostre società (e in particolare del nostro Paese) come neoliberista sarebbe infatti «poco accurata», soprattutto alla luce dell’evidenza empirica di una tuttora fortissima presenza dello Stato apparato.[3]
Iannello prova a smontare queste posizioni mettendo a nudo il subdolo gioco di prestigio lessicale che permette a costoro di perpetuare l’equivoco: confondere il neoliberismo con il liberismo ante litteram, due modelli di regolazione del rapporto tra le principali istituzioni allocative (Stato e mercato) separati, a dispetto della comune radice semantica, da una distanza profonda.Infatti, mentre il liberismo “classico” si fonda sull’idea della mera non-interferenza dello Stato nei confronti delle dinamiche del mercato, il neoliberismo si caratterizza, tanto nelle intenzioni dei suoi ideologi, quanto negli atteggiamenti concreti delle istituzioni di policy che ne hanno implementato i principi, per l’idea che la regolazione della società debba avvenire attraverso la pervasiva estensione del meccanismo della competizione a tutti gli ambiti della produzione, compresi quelli più ostinatamente refrattari a produrre spontaneamente prezzi, e che l’apparato statale debba essere massicciamente convertito a strumento di questa estensione.[4]
Pertanto, ciò che rileva ai fini della qualificazione o meno della forma di Stato come neoliberista non sarebbe la sua dimensione, bensì il suo ruolo in rapporto al mercato. Sarebbe quindi assolutamente legittima, argomenta l’autore, la qualificazione del modello di Stato caratteristico del quarantennio 1980-2020 come neoliberista, ed un paradosso solo apparente il fatto che la sua dimensione sia rimasta identica o si sia addirittura estesa rispetto al periodo dei cosiddetti trente gloriouses. Infatti, se il compito dello Stato diventa diffondere la competizione nei settori caratterizzati dall’assenza di prezzi di mercato, esso ha evidentemente bisogno di una burocrazia voluminosa, che sia in grado di commutare informazioni qualitative in indicatori quantitativi da usare per orientare l’allocazione delle risorse.[5] Presupposto dell’implementazione di una organizzazione sociale neoliberista non è quindi uno Stato “minimo” alla Nozick, ma piuttosto uno Stato di dimensioni imponenti e di straordinaria capacità pervasiva.[6]
3. Chiarito questo punto di natura concettuale, l’autore passa ad affrontare due quesiti di carattere più propriamente storico: in primo luogo, se sia legittimo ricondurre l’evoluzione dell’architettura dei poteri che ha interessato l’Europa (e più in particolare nel nostro Paese) a partire dagli anni 80 alla filosofia neoliberista; e, in secondo luogo, se alla luce di tali mutamenti, tale architettura possa considerarsi ancora adeguata alla realizzazione dei fini che hanno ispirato l’esperienza del costituzionalismo novecentesco.
Si tratta di questioni assai controverse. Mentre è opinione molto condivisa nel dibattito che la struttura dei poteri in Europa nell’ultimo quarantennio sia stata trasformata in profondità dall’azione corrosiva esercitata dal diritto comunitario sui singoli “diritti” nazionali, secondo la ampia maggioranza della letteratura giuridica sul tema questa trasformazione si sarebbe svolta nel segno di una sostanziale continuità con l’impianto delle costituzioni scritte all’indomani della guerra, e quindi non avrebbe in nessun modo pregiudicato il perseguimento dei relativi fini.[7] Uno degli argomenti più frequentemente portati a sostegno di questa visione è la sostanziale invarianza, durante il periodo oggetto di analisi, della lettera delle costituzioni, e più nello specifico della nostra costituzione.
L’autore rigetta in maniera radicale questa “lettura” dell’evoluzione recente del nostro ordinamento, sostenendo che tra i principi all’origine delle due fonti primarie ci sia una frattura insanabile. Infatti, mentre la costituzione del 1948 assume esplicitamente come fine dell’ordinamento «il pieno sviluppo della persona umana», il diritto comunitario appare invece decisamente orientato all’implementazione di un ordine astrattamente basato sulla competizione, tacendo significativamente sulle modalità con cui quest’ordine possa eventualmente contribuire alla realizzazione delle aspirazioni personali dei singoli consociati.[8] Non solo: i Trattati istitutivi escludono esplicitamente che i soggetti dell’ordinamento possano perseguire fini personali o collettivi eventualmente in contrasto con l’operare del meccanismo della concorrenza. Al contrario, l’ordinamento comunitario si presenta, anche agli occhi di un lettore “distratto”, come un percorso disseminato di una dettagliatissima sequela di ostacoli all’esercizio, da parte degli organi rappresentativi della comunità politica, di attività suscettibili di intralciare il funzionamento del meccanismo della concorrenza.[9]
E’ questo il tratto dell’ordinamento comunitario che ne rivela in maniera più evidente l’ispirazione neoliberista. Gli apologeti di questo modello di organizzazione della società erano infatti pervicacemente ostili all’idea che allo Stato o agli enti territoriali fosse consentito di esercitare controllo sull’allocazione delle risorse tra usi alternativi. Queste istituzioni avrebbero dovuto invece limitarsi ad implementare l’ordine della competizione, lasciando poi che fosse il funzionamento del meccanismo concorrenziale a rivelare la destinazione più “efficiente” delle risorse.
La ragione fondamentale per cui , secondo gli interpreti di questa visione del mondo, andrebbe impedito agli esseri umani di far pesare le proprie opinioni nelle decisioni circa l’uso delle risorse collettive è che i singoli non avrebbero conoscenze adeguate ad assumere decisioni coerenti con il proprio benessere. E’ ben noto al riguardo l’argomento di Hayek: poiché la conoscenza circa i bisogni individuali e il costo delle risorse necessario a soddisfarli è dispersa, nessun organismo collettivo può compiere valutazioni sufficientemente consapevoli sul modo di indirizzare le risorse più coerente con il benessere della comunità.[10] Tale funzione dovrebbe quindi essere lasciata ad individui animati dal perseguimento dei propri interessi in concorrenza reciproca, coordinati dai prezzi di mercato. Tali prezzi avrebbero qualità “segnaletiche” superiori a quelli prodotti da un qualunque organismo di pianificazione, perché in grado di raccogliere e processare una quantità di informazioni inaccessibile a chiunque.
Agli organi rappresentativi della comunità o di sottoinsiemi della comunità non deve quindi essere consentito di frapporsi all’operare della concorrenza. Poiché essi non sanno, possono soltanto provocare disfunzioni all’organizzazione dell’economia, impedendole di soddisfare i bisogni individuali. Si tratterebbe quindi di un modello ordinamentale che si fonda su una visione profondamente paternalistica del rapporto tra l’uomo e i suoi fini.[11] Visione evidentemente lontana anni luce dal progetto del costituzionalismo novecentesco, imperniato al contrario sulla centralità della persona, e quindi fondato sul presupposto che i singoli membri della comunità siano in grado di esprimere valutazioni razionali sia sui fini della propria vita, sia sui mezzi adeguati a realizzarli.
4. A dispetto della lontananza di questo modello di organizzazione della società rispetto alla filosofia sociale dominante nell’Europa del dopoguerra, la cultura neoliberista ha trovato terreno fertile per attecchire nell’immaginario collettivo delle popolazioni del continente. A giudizio di molti studiosi, la ragione principale di tale consenso sarebbe stata l’aspettativa che l’estrinsecazione su larga scala del gioco della competizione ci avrebbe liberato dalla tirannia dei “poteri forti” (Stato e impresa) e dalla naturale tendenza di questi ad assoggettare l’individuo e a comprimerne il benessere materiale.[12] Anche grazie ad una oculatissima strategia di marketing ideologico (l’economia di mercato connotata come sociale,[13] la natura della trasformazione strutturale necessaria a realizzarla nascosta dietro la confezione attraente del riformismo,[14] ecc.), questa società attraversata capillarmente dalla competizione è stata percepita dall’opinione pubblica come un ambiente capace di ampliare in massimo grado la possibilità di scelta dell’individuo: nessun consumatore avrebbe rischiato mai di essere vessato da un fornitore (pubblico o privato) esoso o incapace di soddisfarne le richieste in termini di standard qualitativi, grazie alla ampia disponibilità di alternative e alla conseguente possibilità di sostituirlo praticamente all’istante.
Iannello ritiene tuttavia che le cose siano andate molto diversamente, e che l’organizzazione sociale neo-liberista sia andata lentamente evolvendo verso una forma diversa, che ha finito per rovesciare quella promessa di libertà nel suo opposto, la post-libertà. Evidenze paradigmatiche di questa tendenza sarebbero le pesanti limitazioni imposte alle libertà individuali mediante misure di sanità pubblica durante l’epidemia di COVID; le politiche della transizione digitale ed energetica, che hanno previsto l’adeguamento degli immobili a standard energetici penetranti e l’assoggettamento di tanti piccoli imprenditori agricoli e proprietari a forme variegate di servitù prediale, ponendosi quindi in conflitto esplicito con il diritto di proprietà e il diritto all’iniziativa economica privata; infine, l’adozione da parte dell’Unione Europea di un piano straordinario per la riconversione dell’economia (PNNR), evento che rompe con uno degli assiomi più radicali – l’ostilità alla pianificazione – del neoliberalismo.
Contrariamente a molta letteratura che ha salutato con entusiasmo il ritorno dello Stato nell’arena economica,[15] immaginandone la possibilità di un rinnovato impegno in direzione di finalità sociali, l’autore legge questi recenti sviluppi in maniera decisamente meno rassicurante. Essi sarebbero invece l’espressione della inesorabile tendenza alla concentrazione del potere economico e della ormai acquisita capacità, da parte delle ormai immense megacorporations e dei fondi di investimento che dominano i mercati globali, «di cominciare a esercitare, in forme sempre meno mediate che nel passato, il potere politico».[16] In sostanza, approfittando della scenografia della competizione senza filtri disegnata dalle regole dello Stato neo-liberale, i pesci grandi hanno pian piano mangiato i piccoli, finendo per raggiungere dimensioni sostanzialmente assimilabili a quelle degli Stati nazionali. Niente di strano quindi che siano diventati alla lunga in grado di imporre agli Stati nazionali addirittura forme di limitazione delle libertà tipicamente “borghesi” finalizzate fondamentalmente alla gestione razionale delle proprie contraddizioni interne, e più precisamente all’esautoramento del potere di interdizione di strati della società e frazioni del capitale ormai considerate come ostacoli al pieno dispiegamento delle potenzialità esistenti di sfruttamento delle risorse.
Questa dinamica sembra quindi indirizzare le nostre comunità verso scenari inquietanti. Non solo, con l’estensione del meccanismo competitivo all’intera società, le nostre comunità si sono private della possibilità di orientare consapevolmente le risorse verso finalità latu sensu ”sociali”, ma inoltre, con la successiva soppressione del pluralismo degli attori economici, esse stanno soffrendo anche di un sostanziale restringimento dello spazio delle alternative di mercato disponibili. Di qui la scelta dell’autore di caratterizzare la fase attuale dell’evoluzione dell’organizzazione della società con la categoria della post-libertà.
5. Nell’ultima parte del volume, l’autore discute delle possibilità concrete di riconvertire l’organizzazione sociale verso un modello in grado di abbracciare nuovamente la prospettiva personalistica caratteristica degli ordinamenti giuridici modellati dalle costituzioni novecentesche. Vi si sostiene che la fase storica attualmente in corso starebbe plasmando un ambiente particolarmente favorevole alla riemersione nell’arena pubblica di istanze spontanee di soggettività intermedie non mediate dallo scambio mercantile. Da un lato, infatti, l’uomo e la società non avrebbero mai smesso, a dispetto della trasformazione promossa dal neo-liberismo, di aspirare «alla realizzazione di valori umanistici, che tengano assieme cultura, economia, spiritualità, finalità collettive di carattere etico, istanze di emancipazione individuale».[17] Dall’altro, la sopravvivenza dell’involucro normativo formale delle costituzioni novecentesche, lasciato formalmente intatto dalle trasformazioni dell’organizzazione sociale dell’ultimo quarantennio, fornisce alle soggettività sociali penalizzate dalle rivoluzioni neo e post liberista un contenitore già pronto per essere riempito di una “sostanza” diversa, se sostenuta da un significativo potenziale di conflitto.[18]
Per quanto si tratti di una prospettiva del tutto condivisibile in astratto, la sua pratica concreta si presenta allo stato molto problematica, soprattutto alla luce dell’evidenza del profondo mutamento antropologico indotto dal neoliberismo, che sembra aver plasmato soggettività particolarmente refrattarie alla coagulazione, elaborazione e rappresentazione di interessi condivisi in forma collettiva. Uno degli effetti del neoliberismo più gravido di implicazioni pratiche è il fatto di aver sradicato dall’immaginario individuale la dimensione del tempo e quella, strettamente connessa, del progetto. Plasmando un mondo di individui perennemente con la valigia in mano, costretti ad inseguire un capitale “insofferente” e strutturalmente “nomade”, il neoliberismo ci ha abituati a dissociare il futuro dall’idea del legame sociale. Per le soggettività emerse all’esito di questa transizione, la parola socialità ha finito quindi per evocare in ogni caso mere affiliazioni pro-tempore, dalla durata sistematicamente condizionata dalle irregolarità della domanda di lavoro. Che si tratti della città, del quartiere, della scuola, del condominio e persino della coppia, tutti i fenomeni associativi portano ormai impresso nella loro essenzail segno della discontinuità.
Ambienti caratterizzati in questo senso sembrano irriducibilmente refrattari allo sviluppo di qualcosa che assomigli alla politica. Dove «l’ombra del futuro» è assente, per usare una bella espressione di Bob Axelrod,[19] gli individui giocano sempre dilemmi del prigioniero one shot, ed è quindi assai poco probabile che le relative interazioni possano avere come risultato la cooperazione per un interesse comune. Come ricostruire il legame sociale in un mondo scientificamente organizzato per risolvere la socialità esclusivamente nella dinamica dello scambio mercantile appare, allo stato attuale, una scommessa tutta da giocare.
[1] C. IANNELLO, Lo Stato del potere. Politica e diritto ai tempi delle post-libertà, Meltemi, Milano, 2025.
[2] Che si tratti di un concetto scivoloso, e che questo non aiuti a discuterne con rigore, è riconosciuto sia da apologeti del libero mercato (cfr. ad esempio, T.C. BOAS, J. GANS-MORSE, Neoliberalism: From New Liberal Philosophy to Anti-Liberal Slogan, in Studies in Comparative International Development, 2009, 44), sia da studiosi favorevoli a forme penetranti di intervento pubblico (cfr. D. RODRIK, Rescuing Economics from Neoliberalism, in Boston Review, November 6, 2017, www.bostonreview.net)
[3] Si tratta dell’atteggiamento che contraddistingue l’agguerrito gruppo di intellettuali raccolti attorno all’Istituto Bruno Leoni (cfr. ad esempio A. MINGARDI, La verità, vi prego, sul neoliberismo, Marsilio, Venezia, 2019), ma anche la variegata galassia anarco-capitalista che il proprio riferimento politico in Javier Milei.
[4] Cfr. C. IANNELLO, Lo Stato del potere, cit., pp. 60-61.
[5] Al riguardo, il ruolo dell’ANVUR nell’allocazione dei finanziamenti nel settore della ricerca scientifica in Italia è evidentemente paradigmatico. Meccanismi analoghi per la valutazione della performance delle singole unità produttive sono stati adottati con riferimento ai settori della giustizia e della sanità.
[6] Cfr. C. IANNELLO, Lo Stato del potere, cit., pp. 62.
[7] Cfr. ad esempio S. CASSESE, Oltre lo Stato, Laterza, 2006.
[8] Cfr. C. IANNELLO, Lo Stato del potere, cit., pp. 205-206.
[9] Ibidem, pp. 126-128.
[10] Cfr. F. VON HAYEK, The Use of Knowledge in Society, in American Economic Review, 1945.
[11] Per una ricostruzione della visione neoliberista del rapporto tra fini dell’uomo e modalità di organizzazione economica, si consenta il rinvio a S. D’ACUNTO, Appunti per una genealogia del neoliberismo, in Rassegna di Diritto Pubblico Europeo, 19, in particolare pp. 57-63.
[12] Di grande interesse al riguardo le riflessioni di Mark Fisher. Si rinvia in particolare a M. FISHER, Realismo capitalista, Nero, 2018, e M. FISHER, Il nostro desiderio è senza nome. Scritti politici, Minimum Fax, 2018.
[13] Sul punto, cfr. C. IANNELLO, Lo Stato del potere, cit., p. 86.
[14] Ibidem, p. 110.
[15] Cfr. ad esempio P. GERBAUDO, Controllare e proteggere. Il ritorno dello Stato, Nottetempo, 2022.
[16] Cfr. C. IANNELLO, Lo stato del potere, cit., p. 156.
[17] Ibidem, p. 217.
[18] Ibidem, p. 218.
[19] R. AXELROD, The Evolution of Cooperation, Basic Books, 1984.