Nel corso delle ultime decadi l’Italia, come la maggior parte delle economie avanzate, è stata scossa da una crescente disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Questo lavoro approfondisce la questione redistributiva e gli effetti della forte caduta del prodotto interno lordo che ha remunerato i redditi dal lavoro (wage share). L’obiettivo è analizzare le conseguenze derivanti dal cambiamento della distribuzione del reddito sulla domanda aggregata ed evidenziare il ruolo fondamentale svolto dalla questione salariale nel processo di crescita del sistema economico italiano. La specificazione del regime di accumulazione italiano mette in discussione l’efficacia delle politiche economiche maggiormente perseguite in questi anni e suggerisce interventi espansivi e redistributivi, in grado di rilanciare la crescita.
- Evidenze empiriche e background teorico
A partire dagli anni ‘80, l’economia mondiale è stata guidata da politiche economiche di impronta liberista che si sono concretizzate nelle deregolamentazioni del mercato finanziario, del mercato dei beni e del mercato del lavoro, in una maggiore apertura agli scambi internazionali, alla mobilità delle imprese e ai flussi di capitale finanziario. Queste politiche hanno ridotto il margine d’intervento della politica macroeconomica con la convinzione che il libero mercato avrebbe incrementato l’efficienza e la crescita, conducendo altresì a una più equa distribuzione. L’attenzione della politica macroeconomica si è spostata dalla piena occupazione alla stabilità dei prezzi. Il risultato è stato un progressivo aumento delle disuguaglianze e dell’instabilità del sistema economico. Come documentato da numerosi studi (Barba, Pivetti, 2009; Galbraith, 2011; IMF, 2007; OECD, 2011; Krueger et al., 2010, Stirati, 2010), durante le ultime tre decadi la disuguaglianza nella distribuzione del reddito è aumentata nella maggior parte dei paesi avanzati ed emergenti. Il dibattito sulle cause della riduzione della wage share e in generale dell’aumento delle disuguaglianze è ancora aperto. Si ritiene che alcuni fenomeni come la globalizzazione, gli sviluppi tecnologici, i cambiamenti nel mercato del lavoro e il processo di finanziarizzazione abbiano avuto un’incidenza rilevante nel determinare la caduta della quota dei salari sul Pil, con un impatto diverso nei singoli Paesi a seconda delle competenze dei lavoratori e delle caratteristiche del sistema economico (Hein and Shoder, 2011; ILO, 2011; IMF, 2007; Stockhammer, 2012). Il grafico1 mostra l’andamento dell’adjusted wage share sperimentato da alcune economie appartenenti all’area Ocse.
Grafico 1: Wage share (Adjusted, % Pil)
Fonte: Elaborazione dati Ameco
Si osserva un generale andamento decrescente della quota salari sul Pil, soprattutto negli anni che hanno preceduto la crisi del 2007-2008. In Italia, l’adjusted wage share si è ridotto dal 69.4 del 1960 al 60.6 del 2016, sperimentando una oscillazione di addirittura 12 punti percentuali tra il massimo del 70.3 registrato nel 1964 e il minimo del 58.3 del 2001. I dati nascondono aspetti rilevanti: gli elevati guadagni dei CEO e dei top managers rientrano nei redditi da lavoro, fanno parte della voce compensation of employees del National accounts e sono quindi inclusi nel calcolo della wage share. L’aumento delle retribuzioni dei top managers nel periodo del neoliberismo e della finanziarizzazione ha smorzato la caduta della wage share. Infatti, escludendo le retribuzioni del top management si assisterebbe a una caduta ancora più pronunciata della quota del lavoro sul Pil (Hein e Mundt, 2012; ILO, 2008).
I modelli teorici appartenenti al pensiero economico dominante, neoliberista,inseriscono il tema della distribuzione del reddito nelle dinamiche economico-produttive conferendo ai salari un significato e una interpretazione solo in termini di costi. Essi evidenziano gli effetti positivi derivanti dalla moderazione salariale:miglioramento della competitività internazionale delle imprese, con conseguente aumento delle esportazioni nette e incremento della profittabilità degli investimenti. Queste conclusioni sono coerenti con la visione tradizionale secondo cui la domanda segue sempre l’offerta.
La letteratura eterodossa, di ispirazione principalmente keynesiana, conferisce alla questione redistributiva un’ampia formalizzazione teorica, riconoscendo un ruolo essenziale alla distribuzione del reddito nell’influenzare la domanda aggregata, vista – contrariamente all’approccio liberista – come la determinate dei livelli di attività economica (Kaldor, 1956; Kalecki 1938; Onaranat al., 2011; Sawyer, 1985; Stockhammer, 2009). Secondo la corrente Post Keynesiana e Post Kaleckiana, i salari racchiudono un duplice significato: essi rappresentano non solo un costo ma anche un’essenziale fonte di domanda. Infatti, un incremento dei salari alimenta la domanda effettiva poiché fornisce un maggiore potere di acquisto ai lavoratori che si riversa sui consumi. Al contrario, un eventuale taglio dei salari deprime i consumi, in linea con il principio, confermato da una lunga messe di studi empirici, secondo cui la propensione marginale al consumo dei lavoratori è maggiore rispetto alla propensione marginale al consumo dei capitalisti (Kaldor, 1956; Sawyer, 1985). Ne deriva che periodi di stagnazione e di bassi livelli della domanda aggregata potrebbero essere imputati a un declino nel trend dei salari e ai conseguenti effetti negativi che si riverserebbero sui consumi.
Una parte della recente letteratura eterodossa ha prodotto una serie di studi volti a illustrare empiricamente gli effetti derivanti dalla caduta della quota dei salari sulla domanda aggregata e sulla crescita economica (Hein and Vogel, 2008; Lavoie and Stockhammer, 2013; Onaran and Galanis, 2014; Obst, Onaran and Nikolaidi, 2017; Onaran and Obst, 2015; Stockhammer, 2004, 2011, 2017; Stockhammer, Rabinovich and Reddy, 2018). Tali studi si fondano sullo sviluppo e sulla riformulazione del modello di Bhaduri e Marglin del 1990. L’idea di base di Bhaduri e Marglin è che i consumi aumentano al crescere della wage share mentre gli investimenti e le esportazioni nette si riducono al suo aumentare. Nel dettaglio, l’aumento della wage share comprime i profitti, limita le possibilità di autofinanziamento delle imprese e quindi riduce gli investimenti. Allo stesso tempo, l’aumento della wage share, accrescendo i costi di produzione delle imprese, riduce il grado di competitività nei mercati internazionali e, conseguentemente, determina una caduta delle esportazioni e un possibile aumento delle importazioni. A seconda della reazione delle componenti della domanda aggregata ai cambiamenti della wage share (tenendo conto del grado di apertura delle diverse economie), è possibile identificare quindi il regime di accumulazione del Paese oggetto di analisi, che viene classificato come wage-led o profit-led, ossia trainato dai salari o dai profitti. Pertanto, un sistema economico sperimenterebbe fasi di espansione o di recessione anche come conseguenza della quota di reddito distribuito al fattore lavoro e al fattore capitale.
L’analisi empirica – attraverso la quale è possibile identificare i regimi di accumulazione wage-led o profit-led – esamina le singole componenti della domanda aggregata. Le variabili oggetto di indagine sono rappresentate dai consumi (C), investimenti (I), esportazioni nette (NX) e spesa pubblica (G)[1]. Esse entrano nell’analisi in termini reali come funzione della wage share (Ω), del reddito (Y) e di alcune variabili di controllo (z):
Nell’analizzare ogni singola componente, si assume che una redistribuzione del reddito a favore del lavoro determina:
– un aumento dei consumi, in linea con il principio kaleckiano secondo cui la propensione marginale al consumo dei lavoratori è maggiore rispetto a quella dei percettori di reddito da capitale;
– una riduzione degli investimenti, a causa della caduta dei profitti e dell’opportunità di autofinanziamento delle imprese;
– una diminuzione delle esportazioni nette, a seguito dell’aumento dei costi di produzione e della perdita di competitività delle imprese nei mercati internazionali. Le esportazioni nette sono, infatti, negativamente correlate al costo unitario del lavoro (ULC), che a sua volta è misura della competitività ed è associato alla wage share.
E’ quindi possibile identificare un effetto incrementale conseguente all’aumento dei consumi e due effetti riduttivi, prodotti dagli investimenti e dalle esportazioni nette. Gli effetti totali derivanti dal cambiamento della distribuzione del reddito sulla domanda aggregata possono essere spiegati dalla seguente equazione:
La definizione del regime di accumulazione rappresenta una questione di carattere empirico: è difficile determinare h2 – cioè la somma delle derivate parziali delle componenti della domanda aggregata rispetto alla distribuzione del reddito – a priori. Se a seguito di un aumento percentuale della wage share il rapporto (dY/dΩ) è maggiore di zero, il Paese oggetto di indagine viene classificato come wage-led. Ciò significa che il sistema economico oggetto di studio sperimenta effetti positivi in seguito ad un incremento della quota salario sul Pil poiché l’effetto positivo sui consumi prevale rispetto a quello sugli investimenti e sulle esportazioni nette. Al contrario, se (dY/dΩ) < 0, l’economia è definita profit-led.
Sulla scia delle analisi precedenti (Obst and Onaran, 2016; Stockhammer et al., 2011), nei paragrafi successivi procediamo ad analizzare gli effetti generati dal cambiamento della distribuzione del reddito (a scapito della quota salari) nel processo di crescita del sistema economico italiano. La definizione del regime di accumulazione consente anche di suggerire politiche macroeconomiche coerenti con la natura del sistema economico e che siano pertanto più adeguate a rilanciare la crescita.
Il modello è costruito attraverso la stima di singole equazioni per le componenti della domanda aggregata: consumi, investimenti ed esportazioni nette. Tale approccio consente di stimare gli effetti parziali derivanti dal cambiamento della distribuzione del reddito in Italia, cioè il contributo fornito da ciascuna componente alla crescita economica. Gli effetti parziali vengono successivamente sommati al fine di classificare il Paese come wage-led o profit-led, cioè trainato dai salari o dai profitti. L’analisi è incentrata sull’arco temporale che va dal 1960 al 2016. Il dataset è stato costruito attingendo alla banca dati Ameco della Commissione Europea. L’analisi è svolta adottando le tecniche econometriche utilizzate in letteratura attraverso il software Stata11.
La funzione dei consumi è stata stimata nella seguente forma generale: C = f(π, w). I consumi, infatti, dipendono dal reddito, distinto in reddito derivante da salari (w) e reddito derivante da profitti (π).
Tabella 1: Risultati analisi di regressione per la funzione dei consumi
***, ** e * denotano che il coefficiente è statisticamente significativo all’1%, 5% e 10%, rispettivamente
I coefficienti dell’analisi di regressione – a1 e a2 – rappresentano le elasticità dei consumi al salario e ai profitti e sono, rispettivamente, pari a 0.6 e 0.29, rispettivamente (tabella 1). Al fine di calcolare il contributo dei consumi alla crescita del Pil, determinata da una variazione della wage share, le elasticità vengono convertite in effetti marginali secondo la seguente equazione:
Nel dettaglio, i coefficienti a1 e a2, vengono moltiplicati, rispettivamente, per il rapporto tra consumi e salari (C/w) e consumi e profitti (C/π)[2]. Ciò consente di stimare la propensione marginale al consumo dei lavoratori e dei capitalisti. La differenza tra i suddetti valori quantifica l’effetto della redistribuzione del reddito sui consumi. I dati riguardanti l’Italia suggeriscono che la propensione marginale al consumo dei percettori di salario (∂C/∂W) è pari a 0.859, quella dei capitalisti (∂C/∂π) è 0.346. La differenza tra i due valori fornisce un differenziale tra le propensioni al consumo, (∂C/∂Ω), pari a 0.513. Ne deriva che una redistribuzione dell’1% dai profitti ai salari genera un aumento dei consumi pari a 0.51% del Pil.
Tabella 2: Effetti della redistribuzione del reddito sui consumi
I risultati riportati in tabella 2 confermano le ipotesi formulate: la propensione marginale al consumo dei lavoratori è maggiore rispetto alla propensione marginale al consumo dei capitalisti e gli effetti della variazione della wage share sul consumo sono considerevolmente positivi.
Gli investimenti vengono stimati come funzione del prodotto interno lordo (Y), dei profitti (π) e del tasso di interesse reale (i). L’equazione degli investimenti si presenta nella seguente forma:
I = f(Y, π, i)
Da un punto di vista teorico, si ipotizza una sensitività degli investimenti ai profitti e al Pil positiva. Al contrario, si presume una sensitività negativa degli investimenti al tasso di interesse reale, rappresentando quest’ultimo il costo opportunità dell’investimento reale rispetto all’investimento finanziario. Inoltre, un aumento del tasso di interesse riduce i profitti non distribuiti, i fondi interni e la possibilità di accesso ai mercati finanziari.
Tabella 3: Risultati analisi di regressione per la funzione degli investimenti
***, ** e * denotano significatività statistica al livello 1%, 5% e 10%, rispettivamente.
I coefficienti b1, b2, b3 rappresentano, rispettivamente, le elasticità degli investimenti al Pil, ai profitti e al tasso di interesse reale. Dall’osservazione dei valori riportati in tabella 3, si evince che il coefficiente relativo al Pil (b1)è statisticamente significativo e mostra un contributo considerevolmente positivo, mentre i risultati relativi ai profitti (b2) e al tasso di interesse (b3) non confermano le congetture teoriche. Infatti, gli effetti dei profitti sugli investimenti sono statisticamente non significativi e con segno inverso rispetto alle ipotesi teoriche tradizionali. Per quanto riguarda il tasso di interesse, l’analisi di regressione fornisce un coefficiente statisticamente non significativo, con segno positivo. Seguendo la metodologia utilizzata nei precedenti studi (Hein and Vogel, 2008; Onaran and Obst, 2016; Onaran and Galanis, 2014; Stockhammer et al., 2009, 2011), le elasticità negative o non statisticamente significative sono escluse dal calcolo del contributo degli investimenti alla crescita[3]. Ne deriva che il settore domestico dell’economia italiana segue un regime spiccatamente wage-led, guidato dai salari. La tabella 4 riporta comunque il calcolo del rapporto tra investimenti e profitti (I/π) e del contributo degli investimenti alla crescita, (∂I/∂π = b2*I/ π), in seguito ad una variazione dei profitti[4].
Tabella 4: contributo degli investimenti alla crescita
2.3 Prezzi
Nell’analizzare gli effetti sulla domanda aggregata italiana causati da un cambiamento della wage share, la componente dei prezzi assume un ruolo rilevante, soprattutto per gli effetti a cascata che provoca sulle esportazioni nette. Le importazioni ed esportazioni dipendono, infatti,dal livello dei prezzi interni in rapporto ai prezzi internazionali. Al fine di approfondire gli effetti del commercio internazionale sulla domanda aggregata, è necessario far luce sul meccanismo attraverso il quale il cambiamento del costo unitario del lavoro nominale (ULC) influenza i prezzi interni, il costo unitario del lavoro reale (RULC[5]) e i prezzi delle esportazioni. Tale meccanismo viene analizzato attraverso la stima di due diverse equazioni: una per i prezzi domestici e l’altra per i prezzi delle esportazioni. Entrambe, sia quella dei prezzi domestici (P) che quella dei prezzi delle esportazioni (PX),vengono stimate come funzione del costo unitario del lavoro nominale (ULC) e dei prezzi delle importazioni (PM). Le tabelle 5 e 6 riportano i risultati dell’analisi di regressione
P = f (ULC, PM)
PX = f (ULC, PM)
Tabella 5: Risultati analisi di regressione prezzi domestici
Tabella 6: Risultati analisi di regressione per i prezzi delle esportazioni
***, ** e * denotano significatività statistica al livello 1%, 5% e 10%,rispettivamente.
Le elasticità ottenute delle due analisi di regressione saranno poi impiegate nel calcolo degli effetti derivanti dalla variazione della wage share sulle esportazioni nette.
2.4 Esportazioni nette
L’ultimo tassello per l’identificazione del regime di accumulazione dell’economia italiana è rappresentato dall’analisi delle esportazioni nette,calcolate come differenza tra le esportazioni (PX) e le importazioni (PM).
Le esportazioni sono stimate nella forma X = f (Yw, PX/PM). L’equazione si presenta come funzione della produzione estera (Yw) e dei prezzi relativi (PX/PM), cioè dei prezzi delle esportazioni (PX) relativi ai prezzi delle importazioni (PM). La tabella 7 sintetizza i risultati dell’analisi di regressione, mostrando coefficienti statisticamente significativi e in linea con le ipotesi teoriche.
Tabella 7: Risultati analisi di regressione sulle esportazioni
***, ** e * denotano significatività statistica al livello 1%, 5% e 10%, rispettivamente.
La seconda equazione riguarda le importazioni (M), stimate in funzione del reddito (Y) e dei prezzi domestici relativi ai prezzi delle importazioni (P/PM).
M = f (Y, P/PM)
Tabella 8: risultati analisi di regressione sulle importazioni
***, ** e * denotano significatività statistica al livello 1%, 5% e 10%, rispettivamente
L’analisi, con l’introduzione di variabili ritardo, presenta i risultati aspettati, mostrando una relazione positiva tra le variabili oggetto di indagine (tabella 8).
L’effetto sulle esportazioni nette viene calcolato attraverso un meccanismo che ingloba le elasticità ottenute dalle precedenti analisi di regressione:
L’equazione consente di misurare l’effetto di un aumento percentuale della wage share sulle esportazioni rispetto al Pil. La stessa logica viene applicata alle importazioni [(∂M/Y)/∂Ω]. La differenza tra le due componenti quantifica il contributo delle esportazioni nette [(∂NX/Y)/∂Ω] alla crescita. La tabella 9 riassume i valori ottenuti. Nel dettaglio, la prima colonna riporta l’elasticità del costo unitario del lavoro rispetto alla wage share (eULC Ω), calcolata come (1/1- eP ULC). La seconda colonna mostra l’elasticità del prezzo delle esportazioni rispetto al costo unitario del lavoro, come indicato nella tabella 6. La colonna 3 presenta le elasticità delle esportazioni e delle importazioni (3*) ai prezzi relativi delle esportazioni rispetto ai prezzi delle importazioni (tabella 7 e 8). La colonna 4 viene costruita moltiplicando le colonne 1, 2 e 3. Ne risulta l’elasticità delle esportazioni e delle importazioni relativa alla wage share. La colonna 5 mostra il reciproco della wage share[7], mentre la colonna 6 riporta la quota delle esportazioni e delle importazioni sul Pil, che consente di convertire le elasticità in effetti marginali. La colonna 7 presenta il rapporto tra il Pil al costo dei fattori e il Pil a prezzi di mercato. Tali passaggi hanno l’obiettivo di calibrare il calcolo degli effetti totali al grado di apertura internazionale e alla dimensione del settore interno. La colonna 8 consente di calcolare gli effetti derivanti dalla variazione della wage share sulle esportazioni e sulle importazioni. Infine, gli effetti sulle esportazioni nette vengono evidenziate dalla colonna 9.
Tabella 10: Effetti a catena derivanti dall’incremento della wage share sulle esportazioni nette
Emerge che una redistribuzione del reddito a favore del lavoro determina nel caso dell’economia italiana una riduzione delle esportazioni pari -0.04 e un aumento delle importazioni pari a 0.01, come percentuale del Pil.Ne deriva che gli effetti parziali sulle esportazioni nette ammontano a -0.06% del Pil.
L’indagine empirica effettuata, nell’arco temporale 1960-2016, consente di evidenziare i seguenti risultati. Un aumento della quota salari di un punto percentuale produce in Italia un effetto positivo sui consumi [(∂C/Y)/∂Ω] pari a 0.51% del prodotto interno lordo. Per quanto riguarda gli investimenti, lo studio ha rilevato una scarsa sensibilità degli investimenti alla variazione del profit share pur mostrando risultati statisticamente non soddisfacenti. In linea con le precedenti ricerche, gli investimenti sono stati esclusi dalla valutazione del regime di accumulazione. Pertanto il settore domestico italiano si presenta chiaramente come wage-led. Introducendo all’interno dell’analisi il settore estero, le conclusioni sul regime di accumulazione italiano risultano confermate. Un aumento della wage share conduce ad una riduzione delle esportazioni nette. Tuttavia, gli effetti sono inferiori rispetto a quelli derivanti dall’incremento della quota salari sui consumi, avvalorando quindi i risultati ottenuti per il settore domestico. Pertanto, l’Italia presenta un chiaro regime di accumulazione wage-led, in quanto il rapporto (∂Y/∂Ω) > 0. La tabella 11 sintetizza quanto appena discusso, mostrando gli effetti finali della redistribuzione del reddito sulla domanda aggregata.
Tabella 11: Effetti totali (% del Pil) derivanti dall’aumento dell’1% della wage share
***, ** e * denotano significatività statistica al livello 1%, 5% e 10%, rispettivamente.
- Conclusioni
I risultati della presente indagine empirica sono in linea con gli studi esistenti sul modello di accumulazione italiano che hanno fin qui confermato la sua natura wage-led (Naastepad andStorm, 2007; Obst, Onaran, Nikolaidi, 2017; Obst and Onaran, 2016; Onaran e Galanis, 2014). Alcune differenze, in termini quantitativi, con i risultati delle precedenti ricerche potrebbero essere imputate ad una serie di aspetti, come: l’arco temporale utilizzato nelle analisi di regressione, che generalmente si ferma al periodo pre-crisi; la specificazione del modello e delle variabili oggetto di studio; la metodologia e la tecnica econometrica utilizzata.
I risultati, per quanto debbano essere interpretati con cautela a causa delle ipotesi iniziali che semplificano il modello stimato, mostrano comunque una tendenza importante e offrono un interessante spunto di riflessione sulle politiche economiche adottate negli ultimi anni. Quest’ultime si sono mosse sulla linea dell’austerità e della moderazione salariale, con conseguenti effetti negativi sulla domanda aggregata. La natura wage-led del sistema economico italiano – e più in generale dell’Eurozona, che tende ad essere nel suo complesso trainata dai salari (Hein and Vogel, 2008; Onaran and Galanis, 2014; Stockhammer et al., 2009) – suggerisce che l’attuazione di politiche anticicliche di stimolo alla domanda e di politiche macroeconomiche coordinate sul lato dei salari sarebbero più idonee a rilanciare la crescita e ridurre la disoccupazione.
*Università di Leeds e Università del Sannio
**Università del Sannio
Bibliografia
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[1]L’analisi empirica esamina le singole componenti della domanda aggregata, focalizzando l’attenzione sul settore privato. Il settore pubblico è pertanto escluso dalla presente discussione.
[2]Tali rapporti sono calcolati come valore medio sull’intera serie storica in livelli.
[3] D’altronde è opportuno sottolineare che in letteratura vi sono teorie secondo le quali l’aumento dei profitti può non generare la crescita degli investimenti. Secondo l’impostazione originaria di Keynes, infatti, ciò che guida gli investimenti non sono i profitti attuali, bensì i profitti futuri attesi. Pur avendo maggiori profitti attuali, le imprese potrebbero non prevedere una loro crescita nel futuro. Inoltre, se l’economia è wage-led, la caduta della quota salari non promette una dinamica futura positiva della domanda.
[4]I risultati ottenuti, non rilevanti da un punto di vista statistico, tendono a confermare la natura wage-led del regime di accumulazione italiano.
[5] Nel presente dataset il costo unitario del lavoro reale RULC è considerato uguale alla wage share.
[6]ep ulcè il coefficiente dell’analisi di regressione relativa ai prezzi e riportato in tabella 5.
[7] Si ricordi che nel nostro dataset la wage share è considerata uguale al costo unitario del lavoro reale e che quest’ultimo è dato dalla seguente formula: RULC = Ω = ULC/P.